Fare arte con i bambini

mi dici sì, dipingiamo
io rosso
voglio

e mi dai il giallo
e il mio è un cielo che si incendia,
chissà se al tramonto o all’alba

ricordo di essermi svegliata, per un attimo
e iniziava a esistere la giornata con un cielo così,
oggi
il primo giorno di hannukkah, la festa delle luci

ogni giorno accendere una candela,
ogni giorno ricordarci di brillare
ogni giorno lasciare che la luce arrivi e sapere che
così si trasforma il buio,
il giallo arriva da dentro

come il periodo più buio dell’anno, dicembre
quando ogni popolo del mondo accende di luce il mondo
e invoca il nuovo,
ci tuffiamo nel Tempo e riemergiamo

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Neve nel Vermont

Se ti capitasse di pasare per Cleveland al museo di arte, Cleveland Museum of Art, troveresti appeso questo quadro di Mary Altha Nims. Era nata nel Vermont all’inizio dell’Ottocento, 1817 e si occupava di pittura su velluto, theorem painting.

Chissà, Mary Altha Nims che faceva in quel giorno di neve. Io me la immagino dopo una tazza di tè per colazione, con gli stivali che affondano nella neve a guardare per un attimo l’orizzonte mentre la tempesta si arresta per un attimo e la voglia di uscire è troppa. Poi, per uno strano scherzo della mente ritornare fra le pareti di casa e restare là fuori nella neve: sedersi alla finestra e guardare la casa dall’esterno, attraverso se stessa nella neve, Alice allo specchio.

E allora prendere i pennelli, la tela e il bianco: lasciare l’impronta della giornata candida e tempestosa, che rimanga sulla carta e nella memoria. Perché certe immagini si può solo abbracciarle e cullarle così, strette al cuore. Come le giornate d’inverno bianche di nebbia e nevicate, con il fuoco del camino che scalda l’anima; un senso di immobilità e immaginazione che pervade ogni cosa.

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La festa di Hannukkah

Mentre si festeggia l’attesa del Natale, quasi negli stessi giorni, si celebra come ogni anno Hannukkah, o Chanukkah. Al tramonto di ogni sera si aggiunge una luce, una candela all’arrivo della notte, per otto giorni. Una settimana più un giorno.

Gerusalemme: la Giudea è occupata dall’esercito di Antioco IV, re di Siria, che a Babilonia e in Antiochia inizia a costruire templi e ginnasi come nelle città greche. Questo re di notte amava vagabondare da solo, o con qualche amico, per i vicoli della città, si fermava a parlare con la gente, nascondendo la sua identità sotto la maschera di un abito qualunque. Amava gli scherzi e le feste. Tu pensa che sorpresa quando da una tasca spuntava una collana di preziosi o una moneta brillare nell’oscurità: l’oro finiva nella casa di uno del popolo, incontrato per caso quando la luna dissimula la persona che appare al giorno e scopre chi siamo, dentro. Dopo l’assedio e il ritiro da Alessandria d’Egitto, Antioco si ferma a Gerusalemme: la città è saccheggiata e molti degli abitanti uccisi, la religione ebraica proibita: il tempio che guarda dall’alto tutta la distesa dell’abitato, stretto fra le antiche mura, sarà dedicato al dio straniero Giove.

Ma un pugno di uomini, guidati da Mattatia, si dà alla macchia e organizza la resistenza. Quando Mattatia muore il comando passa a Giuda Maccabeo, un condottiero discendente di un’antica famiglia. Nel libro del profeta Daniele si racconta questa storia e di come re Antioco IV Epifane un giorno morì, non è noto se cadendo da un carro durante la battaglia, se assassinato dai sacerdoti di un’altra dea straniera, la babilonese Nanea, signora della natura e della fecondità, o per una grave crisi depressiva. O, più probabilmente, in Persia, malato di tisi. La storia si confonde e rimescola.

I Maccabei ripuliscono il tempio dagli dei stranieri, Gerusalemme è illuminato dal sole di un nuovo giorno. “Consacrazione” o “inaugurazione” è il significato della parola Hannukkah, che ricorda la costruzione del nuovo altare nel Tempio dopo la liberazione della Giudea dall’invasione dell’esercito di Antioco IV, il 25 di Kislev. Nel momento della consacrazione doveva essere acceso un lume con olio di oliva puro, tuttavia non se ne trovò abbastanza, si racconta nel Talmud.

C’era olio solo per una notte. Ma l’olio durò otto giorni, da qui l’origine di Hannukkah, la festa della luci, quando per ogni giorno si accende una candela nella channukià, il tradizionale candelabro a nove bracci. La candela che sta al centro, chiamata shammash, serve ad accendere tutte le altre. Sembra che secondo la tradizione il diluvio universale finì proprio in questo momento dell’anno, dopo che le piogge si riversarono sul mondo durante il mese di Kislev: è il mese che ha come simbolo un arco e guarda un po’, anche del diluvio, rimase un arcobaleno come nuovo patto dell’ordine del mondo.

Questo è il mese dell’olio nuovo dopo la raccolta delle olive in autunno. Secondo il testo mistico dello Sefer Yetzirà il mese di Kislev è associato alla lettera samech, che significa “supporto” ed “è predominante nel sonno”. Diciotto minuti prima del tramonto si accendono le candele dello Shabbat. In queste sere, pochi giorni dopo la notte della festa cristiana santa Lucia, un tramonto dopo l’altro si riempiono di luce i bracci della channukià, che in alcune case se ne sta sulla finestra di fianco alla porta di casa, sulla mensola della veranda che nelle case del nord Europa si affaccia sulla strada un po’ come a prenderne un pezzo e scambiarsi frammenti di vita fra il dentro e il fuori, interno e esterno.

Nel momento più buio dell’anno accendiamo una luce sempre più forte, forse per ricordare che è da qui che accade una nuova nascita: dal buio. Al centro del buio, lì dove affonda il mistero, accade qualcosa capace di riversarsi all’esterno e inondare di senso quello che ci circonda. Ha a che fare con l’attesa, come il Natale e come forse ogni rito, specialmente in questo periodo: la veglia segna passo dopo passo il nostro esserci, abbiamo bisogno di essere svegli se vogliamo accorgerci del passaggio delle stelle attraverso l’arco del Tempo.

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Dicembre 1888

Chissà che tempo faceva quel giorno, io vedo una pipa su una sedia impagliata. L’aria è azzurra, fa pensare a quelle giornate di dicembre con il cielo blu così terso, trasparente. La pipa è di un ragazzo, ha la barba rossa viaggia con in tasca pochi soldi e molti sogni. Anzi, forse uno solo. Esprimere il cuore, lanciarlo via, libero. E l’amore, incontrare l’amore. Ecco, vedi: sono già due. O forse sì, solo uno Amore, passione, espressione colore sogno. La capacità di tenere in mano e inseguire i propri sogni, quello che ci fa battere il cuore Quel ragazzo si chiama Vincent, è arrivato da lontano, dal nord in una piccola città del sud affacciata sull’acqua, sarà per questo che l’aria sembra sempre azzurra qui, anche quando inverno e pizzica un po’ il naso a Arles, nel sud della Francia c’è una casa dentro questa casa c’è una stanza è qui che ha vissuto quel ragazzo di nome Vincent con tutti i sogni, che portava fuori ogni giorno per liberarli fra il vento e l’acqua del canale, dove le lavandaie sciacquavano i panni per ore con le dita arrossate e d’estate il giallo negli occhi campi di grano e girasoli corvi neri come presagi di brutti pensieri nel blu del cielo della mente. Fra le dita teneva tutti i colori, li cullava nella testa e poi dentro al cuore, di notte,quando nessuno sentiva. Credeva si essere solo quel ragazzo arrivato da lontano un signor nessuno, invece i suoi sogni sono arrivati fino a qui
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Piano piano… Osservare la natura per vivere senza fretta

Tu immagina una giornata di nuvole e la pioggia forte in giardino, il lento viaggiare delle chiocciole e il volo della libellula che nasce e vive sull’acqua. Senti sulla pelle il sole che ti asciuga le ali, la terra che ti avvolge quando strisci nel buio. Allenati alla metamorfosi del tarassaco e della farfalla, che vibrano nel cambiamento ascoltando le stagioni.

Ogni stagione della nostra esistenza ce l’abbiamo scritta dentro

C’è un cielo immenso là sopra e noi crediamo di essere grandi invece siamo piccolissimi, minuscole creature di terra, acqua e aria che a volte con la terra, l’acqua e l’aria si mescolano e allora diventano immense. Diventiamo senza confini quando ci arrendiamo al piccolissimo, disintegriamo le mappe e i Paesi, ne facciamo brandelli.

Diventare esploratori del momento è l’avventura senza fine

Ecco, non si è esploratori: esploratori si diventa. Non si è coraggiosi, coraggiosi si diventa. Noi non ci arrendiamo al già fatto bensì al non detto strappiamo una promessa: la parola, il seme, il sogno. Il futuro di questo attimo da afferrare adesso è il presente che si fa nelle nostre mani. Lo impastiamo. Lo guardiamo. A piedi nudi lo dipingiamo, questo adesso di cui vogliamo trovare scoperta e meraviglia.

Qui stiamo sfogliando questo libro: “Piano piano… Osservare la natura per vivere senza fretta. 50 storie” di Rachel Williams con illustrazioni di Freya Hartas (Giunti editore) cinquanta storie, una per ogni pagina, una per ogni frammento raccolto nel mondo là fuori: una fotografia da dipingere e impressionare, disegnare e raccontare, rimodellare per inventare la vita ascoltando il cuore.

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365 giorni in viaggio nel Tempo

365 giorni in viaggio nel Tempo, 365 giorni in giro per il mondo: piccole storie dalla storia dei giorni per crescere umani e scoprirsi sognatori

365 giorni in viaggio nel Tempo

Se c’è una cosa di cui sappiamo proprio poco, siamo d’accordo tutti, è dell’amore. E di come accade la magia che ci porta a esplorare mondi, varcare soglie, esplorare orizzonti, trovare nuovi mondi, scongiurare universi, mescolare forme, non arrenderci all’evidenza, raccontarci ancora. Dietro c’è la passione. La passione dell’amore, l’entusiasmo: lo chiamano ikigai in Giappone, quello che ci mantiene ancora in vita, anche per oggi. Possiamo chiamarlo in mille modi diversi: non cambierebbe la sua essenza; è il sangue nelle arterie, ossigeno vitale, linfa sacra.

Attraverso le storie gettiamo semi e cresciamo umani, un po’ più umani, e attenzione, non in quanto bipedi, c’è un grosso malinteso sull’umanità. L’umano a volte si nasconde bene sotto peli e mantelli e ruvide zampe, ma in fondo ha a che fare con lo stare, il ritmo nel nostro mondo fra le onde della vita, il modo in cui ci guardiamo e guardiamo gli altri.

C’è sempre qualcuno convinto che il periodo più felice dell’ esistenza sia stato quelo in cui eravamo piccoli, molto piccoli. Ma non lo ricordiamo. Ci mettiamo tutta la vita a ritornare lì e ripartire col senno di poi. Non ci siamo mai più mossi da lì, in fondo. Ci mettiamo una vita intera a tornare a essere ciò che siamo sempre stati. È che non lo ricordiamo.

Siamo tutti viaggiatori intergalattici, arrivati qui da chissà dove, su questo pianeta, una biglia azzurra che viaggia nel vuoto e non sta mai ferma, come il nostro cuore, appeso al miracolo di un segreto elettrico che lancia impulsi e si rigenera, a ogni sospiro. E noi con lui.

Ce ne andremo, non sappiamo quando ma sappiamo già che il viaggio qui ha una fine. Non ricordiamo come e quando siamo arrivati, ce lo hanno raccontato altri. Di questo viaggiare, invece, e del suo destino finale ci ricordiamo ogni giorno, se non vogliamo fingere di dimenticare.

Viaggiamo attraverso lo spazio, eppure non siamo altro che viaggiatori del tempo. Andiamo alla scoperta della geografia di ciò che siamo stati e cercando, scavando fra le strade perdute, gli errori e la bellezza, con lo sguardo verso l’orizzonte di domani, è così che ci scopriamo sognatori.

sognatori, una parola bellissima. Abbiamo bisogno di scoprirci sognatori perché il mondo ha bisogno di poesia, bellezza, giustizia, misericordia. La vita ne ha bisogno. Per crescere abbiamo bisogno di immaginazione. E di immaginarci.

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Il viaggio del colombaccio

Fra le montagne dell’Appennino intorno a Frassinoro, provincia di Modena, un tempo i cacciatori aspettavano un certo giorno di ottobre, per la precisione il giorno otto, per restare con il naso all’insù e attendere il passaggio del colombaccio. Proprio in questa data, una moltitudine di stormi fendeva l’aria fredda di montagna prima di continuare il suo viaggio. Oggi le date diventano più sfalsate e sfocate, complice anche il clima. Ma ottobre continua a segnare il momento in cui appaiono i colombacci, pronti a inseguire l’orizzonte.

Secondo l’European Journal of Wildlife Research i colombacci che abitano il Nord Europa volano lungo la rotta dell’Atlantico, mentre dalla Russia sud-orientale e Ucraina solcherebbero il Mar Nero. I cieli italiani vedono il passaggio di colombacci che dall’Ungheria e zone dell’Est Europa si dirigono verso l’Africa. Alcuni non partono affatto e sono ormai diventati residenti ufficiali di metropoli come Parigi, Londra o Brussels, dove vivono nei grandi parchi cittadini.

Tu immagina di respirare forte e poi prepararti al grande volo. L’aria si fa sempre più fredda lassù, in cima. Bisogna stare compatti, spendere meno energie possibili e come se non bastassero le correnti d’aria, i rovesci improvvisi o la stanchezza, è necessario fare attenzione ai cacciatori. Batticuore. Batti, cuore.

Stare all’erta, sempre. Il viaggio è lungo e pericoloso

Il colombaccio appartiene alla famiglia dei Columbidi, come la colomba e il piccione, simile ma più piccolo: è grigio, con un collare bianco e il petto cangiante dai riflessi viola e verdi. Sembra che gli uccelli sappiano portare felicemente a termine, ogni anno, la migrazione grazie a un orientamento micidiale, capace di combinare mappa del territorio, correnti e sensi. Uno fra tutti l’olfatto.

Ha una vista acuta – è in grado di avere una visuale a 270° – e un udito particolarmente sensibile ai suoni acuti. La stagione degli amori è in primavera: il colombaccio è monogamo; le uova le covano mamma e papà, alternandosi. Mangia soprattutto semi ed è ghiotto di mais, bacche e qualche volta piccoli vermi. Ama la vita in gruppo e nello stormo ci sono ruoli ben precisi. Viaggia in piccoli gruppi, che a volte si mescolano fra loro.

Dai cieli dell’Europa il colombaccio sorvola le città dall’alto. Attraversa boschi, laghi e case sul Mar Nero e si lascia alle spalle l’Est volando fino in Medio Oriente, in Tunisia, Algeria e Marocco

Nell’antico poema del Gilgamesh, così come nella Bibbia, è la colomba a cercare la fine del diluvio e trovare il segno della speranza per un nuovo futuro. Dopo la battaglia di Verdun, nel 1917, la femmina di piccione Cher Ami divenne un’eroina della Grande Guerra, insignita della Croix de guerre per aver salvato la vita di moltissimi uomini. Si calcola che nei suoi dodici viaggi compiuti da Verdun a Rampont volasse per 30 km in 24 minuti.

I piccioni nell’antica Roma erano il simbolo di Venere, dea dell’amore. Sembra che il piccione abbia un istinto finissimo a ritrovare la sua dimora anche quando molto lontano: oggi sappiamo che possiede un olfatto estremamente percettivo.

Sarà nell’olfatto il segreto della migrazione? Anna Gagliardo, presso l’Università di Pisa, nelle sue ricerche studia questa ipotesi. Un’altra, formulata da Mark Wild, dell’Università di Auckland, riguarda la relazione fra colombi e magnetismo. Durante un esperimento con colombi non ammaestrati gli animali sono stati privati dell’olfatto: solo un sesto di loro è riuscito a tornare e solo dopo ventiquattro ore.

Se il “naso” è così importante, puoi solo immaginare quale incredibile shock debba essere stato ritrovarsi così, catapultati in cielo, con la sensazione di “un pezzo in meno”. Sentirsi persi. Il senso di panico di quando la tua mappa improvvisamente si rompe, spezzata come un foglio di carta strappato e ormai inservibile. Non tutti i dolori sono acuti, alcuni si muovono in silenzio.

Da uno studio condotto nell’Università di Keio, in Giappone, sarebbe emerso che i piccioni, in grado di riconoscere e mantenere in memoria per anni un numero spropositato di immagini (circa 1200), saprebbero distinguere un dipinto di Chagall o Van Gogh per poi individuarne l’appartenenza di altri dello stesso autore guardando lavori mai visti prima.

Tu immagina di volare. Dall’Europa del nord, dai boschi di acero e faggio, alla terra rossa e infinita dell’Africa. C’è il mare in mezzo, oscuro e blu. Le navi. Colline, porti, città, montagne. Tu immagina cosa deve essere la vita, e il mondo, visti da lassù. Quante cose da ricordare, quanti dettagli a cui prestare attenzione, quanti dati da cui lasciarsi sorprendere. Quante immagini che rimarranno nel cuore, sempre. E magari, mentre ti addormenti la sera, chiudi gli occhi e di colpo ritornano tutte queste fotografie stampate nella mente. Viaggiare anche mentre dormi, rivivere. Immaginare.

I piccioni volano sui tetti de Il Cairo, nello Yemen e persino sui campi profughi siriani: vengono allevati e curati per le corse. Nel mondo arabo le gare dei piccioni hanno una tradizione antichissima. Questi uccelli compaiono dipinti sulla roccia delle antiche piramidi: la civiltà egizia li conosceva e li allevava già allora, millenni fa.

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