La lezione del tarassaco

Torna ad affacciarsi signora Primavera ed ecco che nel giro di una settimana ci fa girar la testa, di nuovo. L’avevamo scordato il profumo dei fiori nell’aria e all’improvviso i colori, così chiassosi e ribelli. Poi d’un colpo, in una notte e un giorno, appare il tarassaco. Ed è giallo, per un attimo, tutto il mondo.

C’è una cosa che ci insegna il tarassaco ed è
il senso della trasformazione: nulla accade se non accade prima dentro

La parola ‘cambiamento‘ viene dal greco antico: trova le sue radici nel verbo kamptein, che significa “curvare, piegare, girare intorno”.
Il cambiamento ti capita fra capo e collo,
è un tormento a volte, o
un ostacolo;
spesso non lo decidi, anzi forse quasi mai capita di darsi a lui in piena consapevolezza. Si tratta di un colpo di testa, al meglio delle ipotesi. Oppure, appare fugace e perentorio come un mal di schiena, il mal di pancia, il trasloco, la fine del lavoro, o un contratto stracciato: il cambiamento ti prende alla sprovvista.
Mica sempre è brutto, sai. Il cambiamento può anche essere una cosa bella: un lavoro nuovo, sposarsi, cambiare casa, il cane, un figlio, un dipinto appena fatto, la cosa che non sapevi di saper fare, una passione appena trovato, la fresca idea di un nuovo progetto. Eppure fa sempre un po’ paura, perché il cambiamento è così: ti affacci ed è sempre al di là del parapetto: al di là delle tue intenzioni, possibilità, al di là del noto per l’ignoto c’è questo tuffo nel pozzo buio del non-so.
Il cambiamento
è qualcosa che si mette sulla nostra strada e ci costringe a
girare la testa, il collo verso una nuova
direzione, che non è quella abituale. Ecco, la radice dolorosa e miracolosa del cambiamento: esce dall’abituale, ci costringe. Ci butta fuori di casa anche quando fa freddo, ci sposta di peso e a volte non risparmia un calcio, ci sprona e se serve costringe. E allora succede: lentamente accade. Muovo, mi muovo di nuovo
lentamente
prima il collo, poi gli occhi. Ci vuole un attimo per abituare lo sguardo, focalizzare l’orizzonte. Sempre è necessario il momento in cui tornare a metter(si) a fuoco: una vecchia storia scovata in un deserto africano l’aveva narrata al mondo dicendo che è il tempo di cui abbiamo bisogno perché l’anima ci raggiunga, affinché lo spirito delle nostre radici profonde raggiunga il posto in cui abbiamo camminato. Sì, perché dove ci troviamo, il punto in cui siamo nel presente, non sempre corrisponde al luogo in cui siamo rimasti, con il cuore o con la mente.

Il punto in cui siamo nel presente non sempre corrisponde al luogo in cui siamo rimasti, con il cuore o con la mente: ci vuole tempo, ecco il difficile viaggio del cambiamento

Prendo la curva, mi piego. Mi costringo, fanno male le ginocchia: le giunture, come le chiamavano, perché quelle segnano il punto del collegamento mancante; fra le due ossa non c’è più un ponte, mi manca la connessione. Devo fare un salto.
Trovo un altro sguardo,
un’altra direzione.

La trasformazione no,
è un’altra cosa, a dirlo è la parola stessa. Il termine ‘trasformazione’ viene dal latino: trans-forma, “attraverso la forma”.
La trasformazione viene da dentro.
È questa la lezione di coraggio del tarassaco, lui che nasce sole,
con mille braccia gialle
e diventa vento, soffione leggero destinato a disperdersi nell’aria lanciando in giro semi e desideri. Nulla accade se non accade prima dentro, ecco la lezione dentro la metamorfosi del tarassaco: se fai attenzione, se ci guardi bene bene, tutto è già lì. Tutto è cambiamento perché si trasforma, impercettibilmente, ogni momento. Attimo dopo attimo, anzi attimo per attimo. Attraverso l’attimo. Il tempo ci scorre addosso e ci vive da dentro.

La realtà
cambia
quando
si trasforma
il mondo dentro.
Allora sì, che là fuori
mille impronte gialle
diventano strade nell’aria.

In viaggio dalla terra al cielo e dall’aria alla terra, di nuovo, i semi di ciò che agiamo diventano pensieri che si fanno azioni e viceversa. Come i semi del tarassaco di cui è buono tutto, dalle foglie amare che in montagna si mangiano nell’insalata o cotte in padella sulla stufa, ai petali gialli da bere nell’infuso. Nel giro di una sera e una mattina i prati si ricoprono di giallo, di nuovo. Soffiamo nell’aria i nostri desideri, credevamo di averli persi a un certo punto

e invece, eccoli lì. Sono fioriti i nostri pensieri. Si sono fatti colore. Noi non ce n’eravamo accorti, non ci facciamo mai caso, eppure sono sempre stati lì, intorno a noi: ad aspettare nel buio, attendere un varco, resistere al difficile e nutrirsi del domani, bere le tempeste e scoprire la luce dove non c’era. Il tarassaco ci insegna a soffiare via i nostri desideri, con tutte le nostre forze, lanciare i nostri sogni al mondo. E poi ritrovarli, dentro.

La lezione del non ti scordar di me

Si regalavano prima di partire per un lungo viaggio, come protezione, e secondo Plinio il Vecchio questo piccolo fiore azzurro era un rimedio universale contro tutto ciò che rende cupa la vita.
In Canada è il simbolo con cui si ricordano i soldati caduti durante la prima guerra mondiale, ma anche i malati di Alzheimer; in tutto il mondo, i bambini scomparsi.
il potere dei piccoli è smisurato, sussurra il nontiscordardime
compare in mezzo alla primavera e a un tratto riempie i prati di infiniti occhi azzurri. È persistente, questo piccolo fiore, si aggrappa alla vita, resistente e tenace al punto da essere considerato erbaccia per il suo potere infestante. È piccolo, sì. Ma crea una moltitudine. Ci ricorda che un singolo pensiero può diventare potente. Di sé fa moltiplicazione ed è così che rivoluziona il mondo intero, tutto intorno

✏️ myosotis alpestris blu, non ti scordar di me

Reinaldo Arenas, poeta

“La bellezza è sempre stata pericolosa”
Reinaldo Arenas

Reinaldo Arenas è morto a New York il 7 dicembre 1990, con le luci di Natale già accese per le strade e il viavai del venerdì, la settimana finita alle spalle e davanti il lungo ponte di un week end di festa.

Sul biglietto d’addio ha scritto: «Vi lascio in eredità tutte le mie paure, ma anche la speranza che presto Cuba sia libera». Vi lascio in eredità tutte le mie paure.

Lui, nato ad Aguas Claras in un giorno d’estate, il 16 luglio 1943, ci aveva messo quasi vent’anni per scappare dalle sue paure. Ma forse a fuggire veramente non ci si riesce mai, perché le paure ci inseguono, come l’ombra di Peter Pan eterno fanciullo.

Imprigionato, torturato, costretto ai lavori forzati, il poeta Reinaldo vede distruggersi la carta e impara a memoria i suoi versi. Scambierà la libertà con una “i”: sul passaporto Arinas invece di Arenas.

Reinaldo Arenas era cubano. Perseguitato, scrisse più volte le sue poesie: le sue raccolte, nascoste, distrutte, ritrovate, inviate, pensate, scritte e riscritte sulla pelle, alla fine le aveva imparate a memoria, limate, come succede quando scrivi e ti tocca riscrivere, scegli meglio, impari. E forse sono le parole ad aver scritto lui, alla fine.
Non si è mai arreso a essere ciò che non era. È riuscito a scappare alla fine. Morirà, anche. Alla fine, come tutti. Ma la cosa importante è che la libertà non si arrende: non si arrende la poesia, non si arrende la bellezza. È per questo che i poeti, gli artisti e i letterati sono ribelli della peggior specie: non riescono ad arrendersi al grigio e alla banalità, a chi vorrebbe trasformare i giardini selvaggi in aiuole ben ordinate.
Ognuno con ciò che ha, essere come si è
dare al mondo quello che siamo, così come siamo
è la bellezza più grande
è più difficile e in fondo semplicissima,
puro coraggio

A proposito, dalla autobiografia di Reinaldo Arenas, Antes que anochezca, il film “Prima che sia notte” (2000) di Julian Schnabel con Javier Bardem

Guglielmo Milani, detto Mino

Guglielmo Milani, detto Mino, studia medicina ma fugge dalla storia di famiglia già scritta con una laurea in Lettere e la tesi sui briganti. Inizia a collaborare con il Corriere dei Piccoli e poi il Corriere dei Ragazzi, il Corriere che allora esisteva anche cosí, per il popolo dei bambini, e faceva cultura, cultura vera per gli affamati di storie belle, di mondo e di informazione.
Mino scriverà articoli, romanzi, fumetti: più di quaranta titoli di racconti e libri per ragazzi, alcuni usciti a puntate come oggi non si usa più, fatti di storia, guerre, lezioni di vita. Se n’è andato a Milano a 94 anni, pochi giorni dopo il suo compleanno.

Ecco, dovremmo ritrovare il coraggio di raccontare ai bambini storie importanti. Storie di bellezza, morte, verità invece delle favolette con cui ci shakeriamo il cervello. Perché i piccoli viaggiatori interstellari hanno un senso dell’osservazione incredibile, intelligenza fine e curiosità senza limiti. E francamente, negli ultimi tempi, li stiamo offendendo con i libretti e i cartoni animati che a volte proponiamo loro.

Siamo viaggiatori del Tempo

Noi siamo desideri viventi. Nasciamo e moriamo orizzonte. Curiosi, ci alziamo e muoviamo ogni giorno di un passo verso un destino che chiamiamo VITA. Credendo che la meta sia il viaggio andiamo avanti, a testa bassa, invece è la vita il VIAGGIO. Il viaggio è la vita.
E allora ci fermiamo, di colpo. A guardare questo tempo, a viverlo. E nell’infinito riscopriamo la MERAVIGLIA. Dentro lo stupore la curiosità che ci fa alzare in piedi, anche a fatica, anche sui gomiti.
Noi siamo desideri viventi e trasformiamo la realtà attraverso quello che vorremmo che fosse. Siamo evoluzione mutevole dell’IMMAGINAZIONE della realtà. Immaginazione l’universo che abbiamo dentro e ci permette di realizzare il mondo fuori
immagin/azione
fantasia
il nostro canale di comunicazione
tra fuori e dentro
a guidarci
un sogno
custodito
nel profondo
oceano
cielo
dentro
tutto inizia con un sogno.
Siamo viaggiatori, siamo le mappe che ci portiamo dentro. Visionari e pazzi,
fino all’ultimo respiro
r/esisteremo

Viaggiamo attraverso lo spazio, eppure non siamo altro che Viaggiatori del Tempo. Siamo le nostre mappe, storie nella Storia. Respiriamo e camminiamo, sopravvivendo grazie alla capacità di immaginare nuovi mondi da esplorare

A salvarci è l’immaginazione, una capacità ancestrale, preistorica. Combiniamo fantasia e curiosità per lanciarle verso il prossimo orizzonte, legando insieme il mondo dentro e quello fuori. Siamo anime, soffi vitali che attraversano il tempo.
E viviamo in un attimo

13 mesi

Un paio di riccioli tirabaci spuntati il giorno dopo il tuo primo compleanno,
un molare cresciuto in tre notti, l’ultima settimana di giugno
tu che urli all’improvviso e io che ti aiuto a dormire in verticale, i denti fanno meno male

la mia spalla è ancora il cuscino che ti rilassa di più
anche se fa caldo, pelle sulla pelle
forse un giorno dimostreranno che è vero,
ossitocina antidolorifico si trasmette così
attraverso ossa, muscoli e pelle.

Io che dovrei concentrarmi ma non importa
Ti guardo dormire e mi basta
Con la mano sinistra piegata afferri la mia

Ami giocare con l’acqua
aprire i bidet e non solo il nostro.
In ogni casa cerchi un bidet e ridi forte quando esce l’acqua.

Muovi i primi passi
ogni giorno sei più veloce
anzi, mi sembra che
dopo ogni riposino
ti svegli con nuove competenze
uno sguardo rinnovato e
equilibri più stabili.

Ami
le olive verdi
il melone
il prosciutto cotto
i tortelloni e i tortellini
giocare con la palla anche se non sai ancora bene come lanciarla
urlare a Kukla
appenderti alla rete del giardino per vedere chi passa
molestare i fiori e lanciare la terra e rovesciare vasi
arrampicarti su letti e divani rotolarti
guardare il mondo a testa in giù

Il viaggio di Annemarie Schwarzenbach

Sono passati ormai due mesi o due mesi e mezzo, e già appartengono al passato. Eppure è sempre la stessa estate, di cui sto vivendo ora la fine a Kabul, la capitale dell’Afghanistan, ed è sempre lo stesso viaggio che mi ha portato fin qui attraverso innumerevoli frontiere, capitali e stazioni di ogni genere. La targa dei Grigioni e la piccola croce bianca svizzera sulla mia Ford mi ricordano che tutto si è svolto come da programma e nel modo in cui l’ho descritto nel mio diario. E a volte è utile. Forse il mio senso della realtà non è molto sviluppato, forse mi manca il sicuro e tranquillizzante istinto per i fatti tangibili della nostra esistenza terrena, non sono sempre in grado di distinguere i ricordi dai sogni e spesso scambio i sogni, che tornano a ripresentarsi in colori, odori, associazioni improvvise, con l’inquietante e familiare certezza di un passato dal quale il tempo e lo spazio mi dividono come e non più di un leggero sonno, nelle prime ore del mattino.

“La nostra vita assomiglia a un viaggio…” e così il viaggio mi sembra, più che un’avventura e un’escursione in luoghi insoliti, un’immagine concentrata della nostra esistenza: residenti in una città, cittadini di un paese, vincolati a una posizione o a una classe sociale, appartenenti a una famiglia e a una stirpe, e legati agli obblighi di una professione, alle abitudini di una “vita quotidiana” intessuta da tutte queste circostanze, ci sentiamo spesso fin troppo sicuri, crediamo di aver costruito la nostra dimora fissa, siamo facilmente portati a credere a una stabilità che agli uni rende problematico invecchiare, agli altri fa apparire catastrofico ogni cambiamento del mondo esterno. Dimentichiamo che si tratta del corso della vita, che la terra è in perpetuo movimento e che l’alta e la bassa marea, i terremoti e gli eventi lontani dalla nostra realtà visibile e tangibile toccano tutti: mendicanti, re, figure dello stesso, grande gioco. Lo dimentichiamo, apparentemente per amore della pace della nostra anima, la quale però è costruita su granelli di sabbia. Lo dimentichiamo per non sentire la paura. E la paura ci rende ostinati; chiamamo realtà solo ciò che possiamo toccare con mano e ci riguarda direttamente e neghiamo la violenza del fuoco quando è in fiamme la casa del vicino, ma non la nostra. C’è la guerra in altri paesi? A dodici ore o a dodici settimane appena dalle nostre frontiere? Dio ce ne guardi, l’orrore che talvolta ci assale, lo percepiamo anche leggendo i libri di storia, e resta immutato, qualsiasi cosa ce ne separi, nel tempo o nello spazio.

Il viaggio, però, svela un poco del mistero dello spazio. Una città dal nome magico e irreale, Samarcanda la dorata, Astrakhan o Isfahan, la città dell’olio di rosa, diventa reale nel momento in cui entriamo e la rendiamo viva con il nostro respiro. Il selciato di Damasco riecheggia dei nostri passi, le colline di Erzurum brillano nella luce della sera, i minareti di Herat si elevano in fondo alla pianura. Ma un’epidemia di colera ci trattiene in Iran e quel che un attimo prima era fuggevole visione, una pausa per riprendere respiro, diventa un episodio, un periodo di esistenza vissuta. A Kabul facciamo amicizie, mettiamo su casa, incontriamo un russo che cuoce il pane all’europea e il Gulam Haidar, che vende stilografiche, buste per posta aerea e Veramon. Abbiamo già le nostre abitudini quotidiane, ritroviamo la strada di casa al buio, e forse dipende solo da un caso se non passiamo il resto della nostra vita qui: qui o altrove, sulle rive del mar Caspio, per esempio, dove il clima è infernale, il caviale costa quattro soldi e la malaria è gratis.

Annemarie Schwarzenbach, “Dalla parte dell’ombra
il Saggiatore, Milano 1990
pp. 223-224