L’estate dei tuoi tre anni

Tu che ti svegli nel cuore della notte per scendere in cucina a bere e io che senza farni vedere per un attimo giro le spalle e accendo in fretta una candelina da piantare in un biscotto. L’espressione della tua faccina, sorpresa e commossa, adulta e bambina, infinitamente senza tempo mentre mi volto e nel buio della cucina ti dico “buon compleanno” e ti canto gli auguri. Tu che dici – per me…! – con gli occhi che luccicano, io che mi commuovo di te commosso

Maggio, la festa del tuo compleanno: giorni avvolti nella pioggia che cade fitta, papà a casa dal lavoro e le candeline sempre, dalla colazione ai toast. Tu che ci obblighi a cantarti auguri su auguri

Il mare, il mare così potente e immenso. Correre in spiaggia la prima sera che arriviamo lì, al tramonto così arancione e rosa, accaldati con i piedi che affondano nella sabbia fredda. L’acqua salata che occupa tutto l’orizzonte, la schiuma, le stelle e le onde da rincorrere: tu e una bambina vi rotolate e ridete forte

Le nuove amicizie, che ci sono per voi piccoli e anche per noi grandi perché a volte ci fate intrecciare e scoprire anime affini

Dormire per tutto il pomeriggio e lasciare il sole fuori dalle tapparelle, ordine cibo al ristorante e mangiarlo per merenda seduti sul letto a guardare cartoni animati anche se non si fa, poi stare in spiaggia a giocare fino a quando non c’è più nessuno perché se ne sono andati tutti, spiare l’arrivo del blu che confonde cielo e mare, ritrovare le stelle, camminare a piedi nudi e fare picnic notturni, seduti sul pattino del bagnino e sullo scivolo che adesso non hai più paura di scendere a tutta velocità

Il momento in cui l’estate sembra solo all’inizio, come l’infanzia, come una mattina ancora piena di promesse

Vuoi che ti accarezzo? – mi chiedi tu che impari a poco poco la grande lezione della gentilezza. E siccome la pronuncia è ancora incerta mimi con la mano cosa significa “carezza”

L’estate in cui ogni giorno impari qualcosa in più sull’arte dell’arrampicarsi: mi alleno, spieghi

Usare le altalene per stare a testa in giù

I nonni, papà e tutte le persone per cui provi così tanto amore che a volte è troppo e allora ti arrabbi e li rifiuti

Osservare le persone, le strade, i dettagli. Voler sperimentare tutto, fare tardi, non arrendersi mai, non bastare e non bastarsi

La prima volta che inventi una storia, una canzone, una spiegazione. E inizi a dire “lo so io” e provi a spiegarti e spiegarci il mondo. Alla fine dell’estate sei tu a raccontarmi storie mentre andiamo in passeggino

Le bottiglie dei colori, che per ora finiscono sempre sulla pelle

Gli urli a volte tremendi, la fissazione che hai per farti prendere in braccio: ha tutta l’aria di sembrare un capriccio ma ogni volta penso quanto passerà in fretta questo periodo in cui so sollevarti e allora mi godo il tuo nasino che affonda fra i miei capelli e l’abbraccio tenace, tu che ora sai attaccarti forte come una scimmietta

La passione per i tortellini, le tette, la sabbia, l’acqua, il mare

Tu che ami giocare a nascondino e senza saperlo capovolgi le regole perché il tuo gioco è la grande gioia di essere subito trovato. E “adesso dici, dov’è il mio bambino?” mi suggerisci di dire

La pineta, i piedi nudi, l’odore della resina. Uscire per la passeggiata sempre con una corda in mano, un filo da inseguire

La nostra cana con cui condividi sempre il tuo cibo e che beve solo dal tuo secchiello azzurro, che tu puntualmente rovesci

Il profumo dei fiori viola della lavanda e delle foglie di rosmarino, menta fresca e salvia, da stropicciare fra le dita

Stare a pancia sul salterello, fra l’aroma dolcissimo dei fiori di non so che e i cieli di luglio ancora così luminosi e rosa, qui siamo tranquilli – lontano dai rompipalle, dici tu che ogni giorno capti nuove parole

Il sole del mattino sui piedi e sui gomiti, a letto fra le lenzuola

I grilli, i trattori che tu saluti con il braccio e le lucciole, che all’inizio ti addormentavi prima e poi hai imparato ad aspettare: la volta che siamo andati a vedere le lucciole, con stivaletti e torcia, di notte, a inseguirle fra i prati

Senti che silenzio, mi fai notare ogni tanto

La guerra dei gavettoni a Ferragosto, che tu non sapevi cosa fossero

Oggi fa motto caddo, dici tu, molto caldo, e parli una lingua tutta tua fatta tutta di T, come il tuo nome che provi a scrivere dappertutto

Fare tardi al parchetto e andare via quando è già buio, stanchissimi, mezzi addormentati con le guance piene di polvere e gelato sciolto

La volta che io mi sono arrabbiata e ti ho urlato di spostarti perché eri tutto appiccicoso e tu, offeso e disperato, “non sono appittitoso”. Tutte le volte che tu esageri, che io esagero, che urliamo e poi facciamo pace

La volta che abbiamo impastato insieme il pane, aspettando papà dal lavoro, e quella del pomeriggio in cui ci siamo messi alla finestra aperta davanti al temporale, ad ascoltare l’acquazzone

Guarda – mi dici orgoglioso, per farmi vedere che ora ci arrivi – al lavandino, alla fontana, al tavolo. E ogni giorno le tue gambette si allungano e tu diventi più alto

La seggiolina imbottita, rossa, a dondolo – un tempo piaceva anche a me, mi han detto – tu l’hai posizionata davanti a una certa finestrella della soffitta perché ogni tanto ti ci siedi e proprio da quel punto riesci a vedere tutta la montagna e le luci lontane

Il profumo di menta del fieno fresco e lanciarsi dentro

Dondolarsi in amaca, fortissimo con papà

Voler usare le forbici da giardinaggio per tagliare erba, siepe e rose

Regalarmi ogni giorno un fiore. Una sorpresa per te, mia mami. Amici nel mondo, dici a me e papà e ha l’aria di essere la più segreta e bellissima delle cospirazioni

Papà che ti insegna a costruire, si arrabbia se distruggi, fa finta che non gli importi quando non lo abbracci, ti bacia di notte mentre dormi

Io che ti pettino mentre dormi. Tu che parli nel sonno, a volte per ore. Poi ti metti a sedere nella notte, metti la testa sul mio braccio e allora io smetto di fare quello che faccio e rimaniamo così.

Holi, festa dei colori all’inizio di primavera

In India Holi è alla fine dell’inverno e preannuncia la nuova stagione, l’arrivo della primavera: segna un giorno di festa in cui celebrare la vita, fare pace, pregare e ripartire riparando ciò che ha bisogno di nuova luce.

La festa di Holi inizia di notte, davanti al fuoco. Tra le fiamme danza il demone Holika Dahan, la cui storia è stata raccontata tanto e tanto tempo fa sulle pagine dei sacri libri dei Veda. Holikā Dāhana significa “Holika che brucia”, in sanscrito, che è la lingua in cui sono scritti i Veda. La storia racconta che Shiva ridusse in cenere il demone Holika con il suo terzo occhio: ogni anno si rivive questo rito ballando e pregando intorno al fuoco.

Non è l’unica leggenda, di storie ne circolano moltissime. A seconda della regione geografica può variare il racconto e il contesto, eppure questo rito di accendere un fuoco nella notte a me ricorda i falò che anticamente bruciavano alla fine dell’inverno anche nelle nostre campagne, che oggi rimangono in forma di rito e festa. E Holika Dahana, questo demone che brucia nelle fiamme, in fondo mi sembra che suggerisca a ognuno di noi di incontrare i suoi demoni: l’ombra si incontra nell’oscurità, la notte che a qualsiasi età sa scatenarci dentro emozioni primordiali. I demoni della rabbia, tristezza, paura ci mettono in guardia sui nostri umani, umanissimi, limiti: è sulla soglia, al confine di noi, che sappiamo prenderci cura della nostra pelle e rimetterci in pace con tutto ciò che – non- possiamo. Sì, abbiamo dei limiti. Anche la vita li ha. Questo meraviglioso viaggio ha un inizio e ha una fine. Al termine dell’inverno il seme, che è rimasto rinchiuso mesi nella oscura terra, muore e si trasforma: alcuni si fonderanno con il fango e la pioggia, nella terra, altri diverranno pianta. La morte, la nostra paura più grande e ineludibile, si fa tangibile e nel sole della primavera che si affaccia celebriamo di nuovo la vita, con emozione, altrettanta paura e vulnerabilità, con tenerezza e col respiro in sospeso

In India e in Nepal nei giorni prima di Holi si accendono pire e il fuoco brucia, simbolo di purificazione e rigenerazione. Al mattino del giorno di Holi si gioca con le polveri colorate simbolo di questa festa, che ogni anno torna all’inizio di marzo, in giorni simili ma diversi poiché in India si segue il calendario lunare.

La storia del re Hiranyakashipu

Desidera la vita eterna Hiranyakashipu ma non può chiedere l’immortalità. Il dio Brahma gli concede cinque desideri: non morirà “né fuori né dentro la sua residenza, né di giorno né di notte, né in cielo né in terra, né a causa di un essere inanimato o un animale”. Hiranyakashipu nel cuore nasconde uno sterminato odio verso il dio Visnu a causa dell’uccisione di suo fratello. Nel suo regno proibisce il culto di Visnu tuttavia a disobbedire è proprio suo figlio. Prahlada, infatti, cresce devoto a Visnu: dopo aver cercato di dissuaderlo e convertirlo il re prova a uccidere il figlio, ma alla fine sarà lui a morire. Considerato un demone dalla mitologia indiana, Hyranyaksha verrà sventrato e divorato dagli artigli di Narasimha, incarnazione di Visnu, né essere inanimato né essere vivente, al crepuscolo, quindi né notte né giorno, sulla soglia del suo palazzo, né dentro né fuori. Anche Visnu cadrà preda dell’ira e solo il saggio, mite Prahlada riuscirà a fermare la sua incontenibile rabbia.

Il lato ombra dietro al demone

Machig Labdrön, maestra e asceta nata intorno al 1055, in Tibet diede forma a una pratica spirituale che si diffonderà con il nome Chöd, letteralmente “separazione, rottura, o tagliare”.

“I nostri demoni sono ciò di cui abbiamo paura. Come diceva Machig, qualsiasi cosa blocchi la nostra libertà interiore è un demone. Machig parlava anche di dei-demoni. Gli dei sono le nostre speranze, ciò che ci ossessiona, che desideriamo intensamente, i nostri attaccamenti”

Tsultrim Allione, “Nutri i tuoi demoni”

Che differenza può esistere fra la speranza e ciò che speranza non è più? Forse solo un margine sottilissimo, e ciò nonostante evidente. Potremmo definirla aderenza alla realtà, eppure non può essere solo questo. I sognatori sanno che a volte per custodire e portare in porto una grande impresa è necessario battersi anche contro ciò che è ragionevole. Ma quando la speranza di qualcosa diventa ossessione allora l’idea ci tiene prigionieri: succede anche in amore, o nella passione per qualcosa. Fingere che non sia importante non è la strada: non si smette di amare solo perché lo si vuole, non si smette di essere arrabbiati o tristi solo perché si butta l’ombra da una parte. Anzi, nell’oscurità l’ombra diventa più grande.

Facciamo un esperimento, scrive Tsultrim Allione nel suo libro, che forma daresti al tuo dolore? Una sedia vuota di fronte a noi: ci sediamo. Chiudo gli occhi. Respiro. Che forma ha… l’emozione che sto provando? Se dovessi disegnare che colori userei? Scopro che a seconda del tempo diversi sono i miei demoni, alcuni bellissimi, altri che mettono terrore solo a guardarli. Perché c’è sempre un filo di paura a guardare negli occhi un demone, ma forse proprio quel filo ci porta davanti alla vita e alla morte, alle cose importanti dell’esistenza.

A volte, più spesso di quanto pensiamo, guardi un demone negli occhi e scopri che quello sguardo lo conosci, lo conosci bene. E ricordiamocelo, anche la parola “felicità” ha a che fare con i demoni: dal greco eudaimonia, eu-buono, daimon, demone. Che ad accompagnarci e possederci sia un demone benefico. Abbracciare il demone, quello più pungente e oscuro, forse significa proprio questo, addomesticare e trovare un punto di connessione con il selvaggio che è in noi, una zona fra ombra e luce dove tendere la mano e trovare il contatto, al di là della rabbia, della tristezza e della paura.

Luce e ombra danzano insieme

A chilometri e chilometri dall’India e dalla turbolenta storia di Hiranyakashipu viene in mente Serse, il re della Persia, figlio di Dario, che nel 485 a.C sale sul trono e vuole conquistare la Grecia. Serse aveva una flotta potente e un esercito di duecentomila soldati di tantissime diverse nazionalità: nel giugno del 480 aC attraversa lo stretto dei Dardanelli, allora chiamato Ellesponto. A causa di un traditore, Efialte, che confida l’esistenza di un sentiero segreto, l’esercito persiano riesce a sorprendere alle spalle gli Spartani, che per due giorni alle Termopili avevano resistito eroicamente insieme al comandante Leonida: piuttosto che arrendersi i greci combattono fino alla morte. Intanto Serse continua la guerra e riesce a invadere una terra dopo l’altra, Focide, Beozia e Attica. In settembre raggiunge Atene; la città e il porto del Pireo vengono incendiati. L’ateniese Temistocle, alla guida della flotta greca, attira le navi persiane nella baia di Salamina, dove le imbarcazioni greche, più piccole e veloci, hanno un vantaggio. Serse osservava la battaglia da un trono posto ai piedi del monte Egaleo: in dodici ore la flotta persiana viene distrutta.

Erodoto racconta che per consentire il passaggio del suo esercito sull’Ellesponto Serse aveva fatto costruire un ponte sullo stretto vicino alla città di Abido, in Asia Minore, e un altro, nello stesso periodo, fu costruito presso il monte Athos. Una tempesta distrusse il ponte e Serse decise di punire il mare, con trecento frustate e maledizioni. La cultura greca definirà gesti come questo un’azione legata all’hybris: è l’arroganza di chi pecca commettendo azioni ingiuste senza comprendere il giusto limite, per il piacere di umiliare. Ancora una volta, il limite. Serse non è invicibile, anzi ironicamente il mare sarà teatro della sua sconfitta definitiva. Saturno è destinato a essere sconfitto e da suo figlio: il Tempo non si può arrestare, l’umana lezione è un lento imparare i cicli della natura. Hiranyakashipu non può essere immortale. Eppure, dentro ha un dolore che non dà pace, per la morte del fratello: la tristezza, quando non viene riparata, si trasforma in un demone di rabbia che tutto vorrebbe possedere e distruggere. Persino Visnu, il grande dio Visnu, signore che preserva e custodisce l’equilibrio del mondo, non è immune dalla rabbia.

Attraverso le polveri colorate di Holi possiamo ricordare a noi stessi, di nuovo, che tutto è in grado di trasformarsi. Mai come in questo tempo dell’anno in cui non è più inverno e ancora non è primavera ogni cosa è mobile, nella natura e in noi. In Europa è il momento delle ultime nevicate e dei primi coraggiosi fiori; la forza della luna piena, il sole che sta per ritornare, forte sulla pelle e nell’anima; l’attesa dei semi e delle piante messe a dimora. Ce la faranno? (Ri)nasceranno? La morte danza con la vita, la vita danza con la morte. Sempre. Ogni giorno è un viaggio di cui non conosco la fine né l’inizio. Solo, viviamo. Danzando. Celebrando i colori che sono dentro di noi e che iniziamo a ritrovare là fuori, fra gli alberi e la natura che inizia una nuova stagione.

Cose che si fanno d’inverno

Le piccole cose capaci di renderci felici durante il tempo invernale. Giorni lunghi, lunghissimi che poi ci si volta indietro e ancora una volta sembrano passati in fretta. I giorni dell’inverno sono quelli in cui avremmo voglia di casa e di rotolarci fra le coperte e invece magari bisogna svegliarsi presto e uscire quando è ancora buio – che succede anche questo – e poi scopri comunque che può essere bellissimo, passato il primo momento più difficile, l’aria in faccia e il mondo che si sveglia, ognuno a modo suo, le giornate di nebbia infinita, guardare fuori dai vetri di uffici e scuole, sognare, immaginare, preparare biscotti e nuove idee…

Cose che si fanno d’inverno

Ascoltare musica e se si può i dischi, con il vecchio mangiadischi arancione o un nuovo giradischi per tornare a sentire il fruscio dei 45 e 33 giri, imparare a posizionare la puntina… piano piano, nel punto giusto

macinare i chicchi di caffè e immergere il naso nel profumo forte, scaldare le fette di pane nel tostapane e preparare colazioni sontuose con marmellata, burro salato o formaggio. E poi i pancakes: il cesto dei pancakes della domenica, quando svegliarsi è più dolce e papà con la frusta impasta tutto poi cuoce per tutti

i caffè lunghissimi e i piedi nudi sul divano, mangiare biscotti dalla scatola e non importa per le briciole

passare da una stanza all’altra, giocare e fare caos e poi riordinare tutto e trasformare anche il riordino in un nuovo gioco, in cui trovare cose e riscoprire oggetti perduti

disegnare, dipingere con gli acquarelli, leggere libri belli, guardare film e inventare storie

spiare il Tempo dalla finestra, che come diceva lo scrittore Joseph Conrad «Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?»

indossare sciarpa e cappello di lana e poi uscire fuori, con l’aria fredda che soffia sulle dita e sulle guance

osservare i rami degli alberi disegnati dal ghiaccio, le case e le aiuole: pensare a quando ci sarà così sole che diremo – si muore di caldo- e indosseremo pantaloni corti e infradito e magliette e sembrerà così strano ripensare a queste giornate qui, immerse nella nebbia e strizzate nel gelo, sembrerà strano tanto oggi sembra strano e innaturale immaginare che fra qualche mese saremo in questa stessa strada, svestiti e con le braccia abbronzate, circondati di fiori e alberi pieni di verde

fare picnic in salotto, con tanto di tovaglia da stendere sul tappeto e tramezzini e frutta

ascoltare la pioggia che cade di notte e se nevica rimanere minuti interi incantati a osservare il pulviscolo della tormenta di fiocchi attraverso la luce gialla dei lampioni sotto casa

accendere fili di luci per tutta casa e mica solo a Natale, arrotolati lungo le scale e sul soffitto della cucina, per scaldare le stanze di casa e il cuore

rispolverare i giornali vecchi e i libri che non si ha ancora avuto tempo di leggere perché non è vero che accumulare è peccato: ci sono momenti in cui troviamo cose, oggetti, libri e sogni e li mettiamo da parte, in angolo della testa e dell’anima, poi arriva il giorno giusto e allora li apriamo ed esploriamo, succede così di tenere fra le mani sorprese che avevamo preparato per noi stessi, senza saperlo, infiniti momenti fa

preparare il tè delle cinque e se non è a quell’ora poco importa, l’importante è fermarsi e sorseggiare piano. Piano piano, che il tempo: il Tempo, questo nessuno ce lo regala, ce lo dobbiamo prendere e a volte anche rubare, disegnare per noi e per ciò che amiamo, per trovare spazio per glia abbracci e cuscini sul divano, parole da scrivere e raccontare, piante da annaffiare

e non importa se è inverno, forse fioriranno anche i gerani se li lasciamo dentro alle finestre. Per fare finta che l’estate sia già tornata, o forse mai passata: la bella stagione del cuore, che non importa quanto freddo faccia, è un battito di farfalla dentro, un arcobaleno nella pioggia

svegliarsi e riaddormentarsi. Perché almeno una volta durante l’inverno dobbiamo concederlo a noi stessi, di non sentire la sveglia e continuare a sognare e rotolarci fra le coperte quando ormai è troppo tardi per fare tutto.

Fiori di primavera

Germogli di bucaneve, come ogni anno di fianco alla porta di casa

Fiori di primavera o di fine inverno? Mentre la neve si scioglie sui prati fra i sentieri fa sobbalzare il colore intenso dei nuovi fiori, ci lasciamo sorprendere da profumi che credevamo dimenticati e nuove sfumature dell’anima. Qui dove abitiamo noi, nell’Appennino Tosco-Emiliano, provincia di Modena, i primi fiori di primavera a spuntare sono le primule, che fanno rinascere di giallo il mondo.

Alla fine dell’inverno appaiono le violette, in mucchietti che mi ricordano i gruppi di vecchie amiche, strette strette negli sciallini minuscoli spalla contro spalla a chiacchierare e commentare ciò che è stato dell’inverno. Poi il crocus, che colora la terra di bianco e sfumature viola, ricordo delle vacanze di Pasqua quando andavo con mia nonna a camminare in questi prati.

Crocus

L’ho avvistato per primo fra tutti quest’anno, una piccola esplosione viola fra il color terra delle foglie secche. Il crocus è temerario e di frequente è il primo a sbocciare, fra la fine dell’inverno e l’inizio di primavera. Appartiene alla famiglia delle Iridacee (Iridaceae) e il suo nome viene dalla lingua greca, Kròkos. Questo piccolo fiore, viola o bianco, è citato fra le pagine dell’Iliade: significa filo di tessuto. All’interno sono ben visibili i lunghi stigmi che nel suo cugino più celebre, il Crocus sativus (comunemente noto come zafferano!) vengono sfruttati in cucina.

Il piccolo crocus durante la stagione primaverile sa trasformare i prati in un dipinto. Nell’Appennino tosco-emiliano il crocus spunta ovunque, fra le zolle di terra brulla e l’erba ingiallita scampata alla fine dell’inverno insieme ai piccoli cespugli di violette e le primule. Cresce in Europa, ma si trova anche in in Africa nord-occidentale e in Asia occidentale, fra le vallate dei Monti Altaj, un posto magico, dove anticamente nacque lo sciamanesimo. I popoli che vivevano in Altaj, o Altai, consideravano sacre le montagne. Siamo in Asia, sui monti che svettano dal deserto dei Gobi alla Siberia occidentale all’incrocio fra Russia, Mongolia, Cina e Kazakistan.

Primula

I petali di primula si possono aggiungere anche all’insalata. Ma la vera sorpresa è avvistarle alla fine dell’inverno, quando i prati sono ancora secchi e il loro colore è il primo a manifestare signora Primavera che torna a camminare sulla Terra. Infatti il nome primula, dal latino, viene dalla parola primus, primo: è il primo fiore a sbocciare dopo l’inverno e per questo la primula è il simbolo della rinascita di primavera.

Violetta

Il genere Viola appartiene alla famiglia Violaceae, diffuso in ogni continente: comprende circa quattrocento specie. La violetta è il fiore della città di Toulouse, nel sud della Francia, dove si produce un aperitivo a base di questo fiore. Come si riproduce la violetta? In due modi. I fiori più in alto vengono impollinati dalle api e dagli insetti, così viaggiano nell’aria, mentre negli altri, più in basso, si verifica l’autoimpollinazione. Questo significa che questi semi cadono vicino alla pianta madre e presentano un corredo genetico simile a lei. Non è meraviglioso pensare a questo processo immaginando che alcuni figli vadano lontano, a esplorare il mondo, e altri si fermino qui, vicino a noi. Figli o… azioni. Possiamo pensare ai semi dei fiori come ai nostri gesti: i nostri pensieri e le azioni che compiamo ogni giorno volano e riproducono ciò che siamo.

Alla fine dell’inverno ogni anno attendo, con trepidazione e curiosità, i bucaneve. Perché la natura ritorna, con magica puntualità, da anni, così tanto che noi non abitavamo in questa casa e non eravamo nemmeno nati. C’è un unico piccolo gruppo di bucaneve, qui in giardino; non sono che tre o quattro eppure da più di cinquant’anni, tornano, alla fine dell’inverno, sempre di fianco alla porta di casa. E io ogni anno spio il loro arrivo.

Bucaneve

Il bucaneve, Galanthus nivalis, è della famiglia delle Amaryllidaceae: galanthus, così viene chiamato anche in lingua inglese, da due parole greche: gala, latte, e anthos, fiore. Fra i parchi del Regno Unito in questa stagione è ovunque: se ti trovi a camminare fra i parchi di Londra nel mese di febbraio vedrai un tappeto di minuscoli bucaneve, ai piedi delle querce. In Irlanda il bucaneve era il simbolo della festa di Imbolc, una festa antichissima che poi in epoca cristiana divenne la Candelora. Sai che il bucaneve inglese ha un legame con l’Italia? Fu la regina Elisabetta a introdurre i primi bucaneve in Gran Bretagna, dalle montagne italiane.

Tarassaco o dente di leone

All’improvviso il giallo delle prime primule sembra diventare scialbo. D’un colpo, in una notte e un giorno, è nato il tarassaco: il suo giallo rende tutto ciò che era prima sbiadito.

C’è una cosa che ci insegna il tarassaco ed è il senso della trasformazione: nulla accade se non accade prima dentro. Rifletto su questo ogni volta che osservo il tarassaco. Com’è diverso a seconda del momento della sua esistenza, vero?

Leggi qui: la lezione del tarassaco

La raccolta delle erbe selvatiche di primavera, un tempo così comune, è diventata una pratica dimenticata. Tuttavia, dagli studi emerge che il livello di zuccheri presenti nel nostro sangue presenta un aumento preoccupante e altrettanto preoccupante nella nostra alimentazione è la carenza delle erbe amare e del loro potere detossinante.

Rosmarino

Anche il rosmarino, Salvia rosmarinus, all’inizio di primavera si trasforma. Non sono meravigliosi i suoi fiori azzurri e viola?

Viola canina o viola selvatica

Lamium purpureum o falsa ortica

Spinacio selvatico

Noto con altri nomi, come buon enrico o farinello, lo spinacio selvatico o spinacio di montagna è ottimo nella frittata, nel risotto e nelle zuppe. Si tratta di un’erba spontanea preziosa per il sistema immunitario, ricca di vitamine e sali minerali, un tempo particolarmente importante in un momento dell’anno, la fine dell’inverno, in cui c’era meno disoponibilità di verdura fresca e fonti di vitamina. Al contrario, attualmente ciò di cui più il corpo risente è la carenza di un elemento che già nell’Ayurveda o in medicina cinese viene abbinato al potere disintossicante delle erbe di primavera. Sono le erbe come il tarassaco, o dente di leone, l’ortica e l’aglio orsino che da secoli venivano raccolte nei campi e per tempo immemorabile sono state protagoniste nella cucina di primavera, svolgendo un ruolo importante perché oltre che nutrimento e fonte di vitamine, aiutavano la depurazione dell’organismo e la pulizia dell’intestino. Oggi viviamo sempre più lontani dalla natura, per questo la raccolta delle erbe selvatiche di primavera, un tempo così comune, è diventata una pratica dimenticata. Tuttavia, dagli studi emerge che il livello di zuccheri presenti nel nostro sangue presenta un aumento preoccupante e altrettanto preoccupante nella nostra alimentazione è la carenza delle erbe amare e del loro potere detossinante.

Alliaria

Se avvisti questa pianta spontanea prova stropicciare leggermente una delle sue foglie fra le dita. Sa di aglio, vero? Si chiama alliaria ed è un’altra delle erbe di primavera buona da mangiare. Puoi pestare le foglie o sminuzzarle e usarle per l’insalata o la bruschetta.

Trifoglio

La fioritura del prunus

In Giappone la fioritura dei ciliegi, chiamata sakura, è uno spettacolo che diventa rito collettivo. La parola hanami letteralmente rimanda all’azione del “guardare i fiori”, un gesto di attenzione: un atto di comtemplazione trasformato in rito collettivo. Sulle montagne dell’Appennino fiorisce il genere prunus, che comprende oltre trecento specie di piante. Fiorisce il ciliegio e insieme a lui l’amareno, da cui nasceranno, all’inizio dell’estate, piccoli frutti rossi dal sapore aspro. Da bambini, in vacanza sui monti, raccoglievamo con le nonne le rosse amarene, che venivano coperte con alcol e zucchero per farne barattoli da lasciare sui davanzali al sole, che sarebbero diventati doni per le mamme e i papà, in attesa del loro arrivo in agosto, all’inizio delle ferie.

Orchidea selvatica

Il periodo migliore per vederla è maggio, anche se in luoghi come la Sardegna è facile avvistarla anche in marzo: l’orchidea selvatica.

Muscari neglectum

Cerastium peverina

Farfaraccio

Osservare un fiore nel tempo è una riflessione sul cambiamento. Alcuni fiori non sembrano gli stessi, a distanza di qualche giorno o settimana. Ma in fondo non succede anche a noi? Ci trasformiamo, giorno dopo giorno. Siamo sempre gli stessi, ma anche nuovi, ogni istante, anche se non ci facciamo caso o non ce ne rendiamo conto.

Anemone dei boschi

Attenzione all’anemone…

Bellissimo, ma velenoso.

Anemone giallo

Myosotis, non ti scordar di me

Erba di san Lorenzo o bugola

Ha tanti nomi lei: erba Lorenza o erba di san Lorenzo, bugola, morandola, ma il suo nome scientifico è Ajuga reptans. Assolutamente non per uso interno a meno che non si tratti di integratori preparati da professionisti perché possiede un’azione epatotossica, un tempo le sue foglie venivano raccolte e strofinate sulle ferite infatti ha proprietà cicatrizzanti.

In attesa dell’estate…

Fragaria, fragola

Che meraviglia le piccole piante di fragoline di bosco: è la fine di aprile e quest’anno stanno spuntando ovunque. Non sempre accade perché dipende anche dall’umidità.

Nel mese di giugno le fragoline selvatiche sono facili da trovare nel folto del bosco, ma anche fra i prati e ai bordi dei sentieri tra ombra e sole. Si possono raccogliere e congelare o… mangiare fragola dopo fragola, magari con un cucchiaio di gelato. C’è un vecchio film del 1957 che parla di ricordi d’infanzia, tempo e cambiamento:Il posto delle fragole“, scritto e diretto da Ingmar Bergman girato in Svezia vicino alla città di Lund.

“La verità è che io vivo sempre nella mia infanzia, giro negli appartamenti in penombra della mia infanzia, passeggio per le silenziose vie di Uppsala, mi fermo davanti alla Sommarhuset ad ascoltare l’enorme betulla a due tronchi. Mi sposto con la velocità di secondi. In verità, abito sempre nel mio sogno e di tanto in tanto faccio una visita alla realtà”
Ingmar Bergman

Margheritina o pratolina

L’arte del vedere

Vedere è un’arte, sai? Sì, perché non basta vedere o poter vedere: saper vedere è un allenamento e un’ispirazione, va coltivata ogni giorno e quanto spesso ce ne dimentichiamo. A vedere si impara, ecco perché si tratta di un esercizio quotidiano. Nella storia della medicina i casi di chi ha potuto vedere grazie a un intervento chirurgico ci hanno fatto scoprire che fenomeni come la prospettiva non sono un fatto scontato bensì una costruzione: noi vediamo con il cervello e la nostra vista si allena nel tempo. La visione che abbiamo, del mondo e anche di noi stessi, delle forme, dei colori e di come percepiamo le cose è il risultato di tanti fattori: del nostro carattere e delle nostre unicità, della cultura che respiriamo e della storia in cui siamo collocati. È il nostro universo di senso. Se ci fermiamo su questo pensiero – il modo in cui ognuno di vede è unico – allora può accadere un’incredibile rivoluzione e a partire da questo possiamo persino iniziare a costruire la nostra visione, che non ha solo a che fare con la vista perché diventa il modo che abbiamo per chiederci quali sono i nostri sogni, le direzioni in cui ci interessa andare, la strada che stiamo percorrendo giorno dopo giorno.

Neve nel Vermont

Se ti capitasse di pasare per Cleveland al museo di arte, Cleveland Museum of Art, troveresti appeso questo quadro di Mary Altha Nims. Era nata nel Vermont all’inizio dell’Ottocento, 1817 e si occupava di pittura su velluto, theorem painting.

Chissà, Mary Altha Nims che faceva in quel giorno di neve. Io me la immagino dopo una tazza di tè per colazione, con gli stivali che affondano nella neve a guardare per un attimo l’orizzonte mentre la tempesta si arresta per un attimo e la voglia di uscire è troppa. Poi, per uno strano scherzo della mente ritornare fra le pareti di casa e restare là fuori nella neve: sedersi alla finestra e guardare la casa dall’esterno, attraverso se stessa nella neve, Alice allo specchio.

E allora prendere i pennelli, la tela e il bianco: lasciare l’impronta della giornata candida e tempestosa, che rimanga sulla carta e nella memoria. Perché certe immagini si può solo abbracciarle e cullarle così, strette al cuore. Come le giornate d’inverno bianche di nebbia e nevicate, con il fuoco del camino che scalda l’anima; un senso di immobilità e immaginazione che pervade ogni cosa.

Giugno

primo giorno di giugno, il “mese delle ali di cicala”, uno dei nomi di giugno in Giappone.
La guerra in Ucraina è al giorno 97, fra tre saranno cento: è passato febbraio con gli ultimi strascichi di inverno, sono sgocciolati via marzo e aprile con la Pasqua, che quest’anno si è magicamente sovrapposta fra cristiani cattolici, ortodossi e la fine del Ramadan. Scivolato via maggio, con gli acquazzoni che sconquassano e il sole che già fa immaginare l’estate, è un nuovo mese

il 24 di giugno, san Giovanni, è il momento di raccogliere i fiori di camomilla, si diceva un tempo.
Questo è il mese del solstizio e dei fuochi, che celebravano la danza del sole e la natura che di nuovo cambia e incontra una nuova fase. Il mese delle vacanze estive, del grano e dell’amore.

Nella notte infinita del 24 si davano appuntamento le streghe e forse ancora lo fanno, nascoste tra foreste antiche e giungle di cemento. Torneranno le lucciole, a breve, aleggeranno luminose sui prati di notte, mentre i pipistrelli ci sfiorano con un brivido.
E nei falò si bruciavano le ossa per scacciare i diavoli e si ballava intorno cantando la notte e prendendosi per mano, furtivi. La stagione dell’amore sì, del grano da tagliare, dei papaveri che inondano il mondo di rosso e del caldo che ferma il mondo. Ma proprio quando il sole è al massimo già inizia a calare e il buio, lentamente tornerà a farsi posto nelle ore di luce.

Questa è la lezione del solstizio e dell’estate, l’ombra è là dove la luce risplende di più. E un po’ prende la gola, questa inquietudine leggera. È il senso della fine che sta in tutte le cose, che di giorno ce la dimentichiamo ma il tramonto la ricorda.
Con la cenere dei fuochi di san Giovanni ci si strofinava per togliere il malocchio e la sfortuna, un tempo. La mattina, nell’acqua di san Giovanni fatta di fiori lasciati a riposare alla luce della luna, le ragazze leggevano il loro futuro e poi si lavavano il viso con la rugiada, che gli antichi Romani pensavano avesse moltissime proprietà. È tempo di raccogliere le noci, ancora verdi, per preparare il liquore nocino.

Mia nonna guardava alla finestra il sole e sapeva che in un certo punto, lì lungo il profilo sul crinale delle montagne, tramontava in giugno, in un altro punto a settembre. E così, l’estate aveva una durata che si misurava nello spazio, sulla punta delle dita e con lo sguardo. Che in fondo questo è la vita, ricordarsi ogni tanto di fermarsi
e avere tempo per guardare dove finisce il Tempo