Spiegare la Pasqua ai bambini

Il seme sembrava morto nella terra, invece guarda che meraviglia: è (ri)nato, anche quest’anno. Ci vuole coraggio, il coraggio dei sogni, per ricordarci che rischiare, e persino morire, non sempre è la fine di tutto. Anzi, è sempre dalla fine di qualcosa che nasce ogni nuovo inizio.

Quando ero una bambina la maestra di nonsopiùcosa in classe aveva spiegato che gli uomini primitivi non avevano affatto idea di cosa ci fosse dopo la morte o che si potesse immaginare un’altra esistenza, solo con il cristianesimo questo fu insegnato grazie alla figura di Gesù. Davvero questi esseri umani antichi non ebbero alcuna idea riguardo la morte? E allora quand’è che nella storia compare il concetto di “reincarnazione”? Io, già allora con la testa eternamente fra le nuvole, mi facevo queste domande e, a dire il vero, la spiegazione ricevuta mi sembrò subito stranissima. Manciate di anni dopo e pagine dei libri sfogliati e esami universitari fatti, mi sono accorta che i miei dubbi avevano un’ottima ragione d’essere. Le religioni sono incredibilmente più mescolate e sfaccettate di così, anche se ancora oggi in molti non lo credono, non lo sanno o semplicemente non ci vogliono far caso. Non solo: nulla, proprio nulla ancora oggi possiamo dire su quegli uomini, quelle donne e quei bambini di un tempo, un tempo così lontano che si perde nel vortice dei numeri. Non possiamo dire nulla perché non abbiamo le loro parole e i pensieri che li hanno attraversati rimarranno un mistero che si è perso fra le foglie di foreste ormai scomparse e il vento della storia. Possiamo solo immaginarli, in piedi, davanti alla notte a scrutare le stelle e il blu inchiostro dove affonda la luna, come noi secoli dopo ancora facciamo. Di se stessi e del loro passaggio sulla Terra hanno lasciato un’impronta lieve, come le mani e le figure disegnate nelle grotte di tanti luoghi d’Europa dove ancora si conservano, al riparo dalla luce. Non sapremo mai che cosa sognavano, quale messaggio avrebbero voluto lasciare; non conosceremo le loro vite, né le gioie e le paure. Eppure, da soli, in silenzio davanti alla notte anche noi sperimentiamo lo stesso senso di grandiosa bellezza e insieme un filo di spavento dentro all’immenso che, anche stasera, rimane ignoto, misteriosamente e irrevocabilmente sconosciuto. Io me li sento vicini questi donne, uomini e bambini di un tempo, un tempo che forse in fondo al cuore non è così distante perché sono sicura che se ci potessimo guardare negli occhi ritroveremmo uno sguardo di una scintilla comune. Io so che quegli uomini e quelle donne erano molto più vicini alla morte di quanto noi stessi lo siamo: combattevano l’inverno, il gelo, la fame perenne. Tu pensa il sole all’improvviso più caldo, i rami che si ricoprono della dolcezza dei fiori; tu senti sulla pelle il calore del gelo che si scioglie e immagina lo stupore di ritrovare piante e fiori dove poco fa c’era neve e fango. Forse è proprio da qui che nasce la prima meraviglia: la consapevolezza che dopo la morte c’è vita di nuovo e non si tratta di congetture o metafisica. In natura la vita dopo la morte accade ogni anno, quando la primavera arriva dopo l’inverno. Perché questo preambolo? Per dire che non sempre bisogna credere ai grandi solo perché sono grandi. A volte, anche gli adulti sbagliano. Sbagliano gli scienziati e lo sanno, anzi sono sempre pronti a imparare dagli errori perché la base della scienza è proprio questa: osservare, fare ipotesi e poi confrontarsi con ciò che accade. Sbagliando abbiamo imparato tantissimo; abbiamo fatto scoperte incredibili e ogni giorno continuiamo a scoprire cose nuove esplorando. Quindi tu non smettere di farti domande e non credere mai quando qualcuno ti dice “le cose stanno così”.

Il significato della parola “Pasqua”

La parola Pasqua ha un senso bellissimo: viene dal greco e prima ancora dalla lingua aramaica. Significa “passaggio”, passare oltre. Il passaggio è stato storico, ha avuto un’esistenza geografica e sociale quando il popolo ebraico decide di opporsi alla schiavitù e infine riesce a partire, in una notte, e abbandonare l’Egitto passando attraverso il Mar Rosso prodigiosamente aperto. Il passaggio è personale, del corpo e dell’anima, diventa scelta politica, quando Gesù, che secondo diversi studiosi è figura storicamente esistita, vive la morte per celebrare la vita e contrapporsi alla morte in vita. In fondo, Gesù è un ribelle. Adesso immagina un posto come la Palestina, dove c’è il deserto e si innalzano le montagne; un posto dove la sera illumina un paesaggio fatto di piccoli villaggi fra i pendii ricoperti di ulivi e alberi da frutto. Ma aleggia la guerra, l’occupazione dell’antica Roma, allora potenza invincibile, e il senso soffocante di una società rigidamente schierata in cui donne e uomini sono profondamente divisi; uomini ricchi e sapienti da una parte, persone umili dall’altra. Gesù è nominato sia nel libro sacro alla religione ebraica, la Torah, sia nel Corano; entrambi lo definiscono un saggio profeta e se profeta è uno che sa vedere il futuro, allora si può immaginare la potenza del cambiamento di un visionario ribelle che all’improvviso, a quel vecchio mondo, inizia a dire una sola parola ma fondamentale: amore. Amore, la legge che tutto muove. L’amor che move il sole e l’altre stelle, scriverà secoli dopo Dante Alighieri, quando amore non sarà più parola proibita. In fondo, la primavera e la libertà condividono molto, la stessa aria di dolcezza di quando, dopo il gelo che ti blocca, finalmente si aprono i polmoni e riesci a respirare liberamente. La prima volta che respiri, dopo una dittatura, è come una boccata d’aria pura, di ossigeno e sole, dopo il ghiaccio dell’inverno. Ti sembra di vivere per la prima volta, rinascere se è possibile. La primavera tornerà, le primavere dell’anima tornano sempre, ancora e ancora: i sognatori lo sanno.

Le feste di primavera nel mondo

In Iran si festeggia Nowruz, il capodanno persiano, una delle feste più antiche. La parola nowruz significa “giorno nuovo” e questa festività ricorre fra il 20 e il 22 marzo, proprio i giorni in cui, dall’altra parte del Mediterraneo si festeggia l’inizio di primavera, che coincide con l’equinozio. La parola equinozio viene dalla lingua latina, equus, equo, infatti segna un cambiamento nel ciclo del tempo: si verifica quando la durata del giorno e della notte è all’incirca uguale, ovvero dodici ore ciascuno (guarda un po’, anche lo stesso numero degli apostoli). In India, dove si segue un calendario lunare come nel mondo arabo, nei giorni intorno al 18 marzo si celebra Holi, la festa dei colori, che inizia la notte prima, quando intorno al fuoco si ricorda il momento in cui venne sconfitto il demone Holika Dahana, che brucia nelle fiamme. In coincidenza con la festa cristiana di Pasqua in Thailandia a metà aprile c’è Songkran, il 13 aprile, una festa estremamente in cui ognuno è invitato a uscire per strada e ci si bagna reciprocamente, facendo vere e proprie guerre d’acqua con ogni mezzo, da pistole ad acqua a secchiate, a ogni età. Songkran è la festa per l’inizio del Nuovo Anno.

Il nuovo anno. Dall’altra parte del Mare Nostrum, il Mediterraneo, i popoli del Medio Oriente e dell’Estremo Oriente festeggiano l’inizio del nuovo anno tra la fine di gennaio e marzo. Anche per i popoli antichi era così. Il nostro Natale, vicino ai giorni del solstizio d’inverno, segna il periodo più buio e freddo dell’anno, soprattutto fra le montagne europee. Ma il punto più oscuro dell’anno segna anche il momento in cui, lentamente, la luce torna ad aumentare. Fra il mese di febbraio e marzo la terra è ricoperta dalle ultime nevicate, il sole diventa ogni giorno più forte e caldo. Vento e luce scioglieranno le ultime nevi: sotto, la terra fredda nasconde i semi caduti in autunno o seminati alla fine dell’estate; sono già lì, rimasti addormentati per mesi, al buio nell’incubatrice naturale di una pancia cosmica che li ha protetti e cullati per tutto l’inverno, nell’attesa delle condizioni giuste. Adesso è il momento di sbocciare.

Il senso della primavera in natura

Basta l’arrivo dei primi giorni di sole ed ecco che in un attimo sui prati compaiono i fiori di primavera più coraggiosi: primule (non ha caso chiamate così perché sono fra le prime a comparire), violette, crocus bianchi e viola, bucaneve, margheritine. I rami si ricoprono di gemme che fra un paio di mesi porteranno la meraviglia dello spettacolo profumato dei ciliegi in fiore, in Giappone chiamato sakura, insieme alla fioritura dei meli selvatici, peschi e peri, o i cespugli come il biancospino. Fra le spine delle rose si intravedono già i nuovi butti,a breve si trasformeranno in boccioli.

La primavera è il momento in cui si nasce. Nella natura accade ancora così, ogni anno si rinnova il tempo del nuovo, proprio come il nuovo anno che anche noi, nelle società umane, desideriamo ricordare e celebrare. Nell’aria tornano a volare coccinelle, api e qualche mosca vagabonda. Nei boschi a breve nasceranno i piccoli cerbiatti e i caprioli; nelle stalle questo è il tempo dei giovani vitellini e capretti. Si nasce quando ci sono più probabilità per sopravvivere e per l’estate si sarà già sufficientemente forti per essere indipendenti. Madre Natura insegna che nulla è per caso. La vita cerca e insegna la vita. Grazie alle piogge primaverile, che ogni tanto si trasformano in acquazzoni tempestosi, la terra riceve nutrimento e in un attimo, non appena ricompare il sole, il bosco si accende di una tonalità di verde unica, ricco di clorofilla e vibrante del nuovo fogliame che nel giro di qualche settimana ricoprirà gli alberi.

Un tempo, nelle campagne italiane così come in molti altri luoghi d’Europa, si accendevano i falò. Talvolta i fuochi venivano accesi in gennaio, oppure in maggio o in giugno a seconda del posto e della tradizione a cui era legato. Accendere i falò era un’antica usanza contadina e aveva anche un risvolto pratico perché serviva a ripulire la terra, senza contare la funzione della cenere che, grazie ai microelementi come magnesio, calcio e rame, fa da concime e fertilizzante naturale. Sembra che il rito dei falò, che oggi rimane in alcuni luoghi come la festa dei Falò di Rocca San Casciano in Emilia Romagna, si perda nella notte dei tempi e arrivi fino agli antichi Liguri, i Longobardi e i Celti.

Esercizio di immaginazione

Scende la sera, la giornata sta finendo. Ora pensa a un mondo molto più buio del nostro: un mondo senza elettricità, in cui il freddo è molto più freddo di ora, senza comodità, e la notte infinitamente più lunga. Adesso immagina l’inverno, con il freddo sulle mani e nell’anima, un lungo inverno che sembra non passare mai; la fame, le giornate che finiscono in fretta, l’immobilità. Ora il buio di un’intera vallata di colpo si anima con la fiamma di tantissimi piccoli fuochi, falò disseminati ovunque che fanno sorridere. Falò intorno a cui prendersi per mano, ballare, tornare a sognare e iniziare a innamorarsi. Piano piano torna la luce, ogni giorno di più e il primo giorno in cui si sente di nuovo il sole sulla pelle è una festa davvero. I prati producono nuove erbe da mangiare; gli uccelli selvatici e le galline, che durante l’inverno sono in ferma, tornano a fare le uova. L’aria si riempie di nuovi profumi.

Antiche storie sulla creazione

Il buio, il fuoco. L’acqua, come la festa thailandese di Songkran. In modo diverso, i popoli del mondo celebrano la luce che torna a far vivere la natura e le speranze. Che di questo ha bisogno la vita qui sulla Terra per continuare: luce, fotosintesi, acqua e aria. L’uovo, simbolo ancestrale, non solo ricorda il periodo dell’anno in cui le risorse naturali tornano ad abbondare e nascono i nuovi nati. L’uovo cosmico, associato al mistero della creazione, celebra l’esistenza che è e sempre sarà, il mistero racchiuso all’interno che si apre al mondo, l’istante del miracolo in cui la Vita torna magicamente a fluire. Nell’antico Egitto il dio della Terra, Geb (maschile!), sposo di Nut, dea del Cielo (femminile!), era rappresentato con un’oca sul copricapo, mentre in India Brahma nasce da un uovo cosmico da cui ha origine tutto il mondo. In quanti modi noi, come umanità, abbiamo immaginato la creazione: tu quante storie conosci sulla creazione? Se ci fermassimo solo un attimo potremmo forse scoprire che ogni racconto è immerso in un’atmosfera tutta sua: ha coordinate geografiche e spaziali diverse. Immagina di essere una donna o un uomo di millenni fa, senza internet né libri, e provare a spiegare il mondo, a te o a un bambino: quante incredibili storie abbiamo saputo vedere osservando la natura misteriosa del pianeta.

A proposito della mitologia indiana, anche qui, dall’altra parte rispetto al nostro mondo, esiste una trinità: si tratta di Brahma, Visnu e Shiva, che corrispondono a tre aspetti differenti del divino. Brahma è considerato il creatore, Visnu il dio e il principio conservatore che mantiene inalterato l’ordine del mondo e Shiva il distruttore. In un certo senso, fanno venire in mente anche il grande ordine del tempo, che noi scandiamo in passato, presente e futuro. Secondo alcune fonti sembra che Gesù abbia viaggiato fino in India negli anni in cui non si ha notizia di lui,  e che in alcuni monasteri della città santa di Lhasa, per secoli inaccessibile, sia rimasta testimonianza del suo passaggio. Nessuno saprà fino in fondo ciò che è stato della sua esistenza e come avrebbe voluto tramandare i suoi insegnamenti, eppure forse la sua lezione principale resta questa: se ci guardiamo intorno c’è un’unica grande Storia di cui continua a parlare il mondo; la racconta la terra, con le sue trasformazioni e le stagioni , la raccontano i fiori e gli uccelli che ritornano dalle migrazioni invernali per tornare a fare i nidi e deporre uova che porteranno a nuove generazioni.

Anche gli esseri umani, da una parte all’altra del globo, osservano e continuano a celebrare la vita, in modi diversi che ciò nonostante contengono un filo colorato. Lo vediamo quel filo: è sottile e colorato come quello di un aquilone pronto a lanciarsi nel cielo blu al soffio del vento di primavera, è la magia della Vita che ritorna, ancora e ancora, anno dopo anno, a rinnovare il patto e ricordarci che siamo vivi. Il seme sembrava morto nella terra, invece guarda che meraviglia: è (ri)nato, anche quest’anno. Ci vuole coraggio, il coraggio dei sogni, per ricordarci che rischiare, e persino morire, non sempre è la fine di tutto. Anzi, è sempre dalla fine di qualcosa che nasce ogni nuovo inizio, in fondo la morte è lo spazio di silenzio e calma, la stasi, di cui c’è bisogno affinché fra una pausa e l’altra si possa scrivere il ritmo di una nuova musica.

Holi, festa dei colori all’inizio di primavera

In India Holi è alla fine dell’inverno e preannuncia la nuova stagione, l’arrivo della primavera: segna un giorno di festa in cui celebrare la vita, fare pace, pregare e ripartire riparando ciò che ha bisogno di nuova luce.

La festa di Holi inizia di notte, davanti al fuoco. Tra le fiamme danza il demone Holika Dahan, la cui storia è stata raccontata tanto e tanto tempo fa sulle pagine dei sacri libri dei Veda. Holikā Dāhana significa “Holika che brucia”, in sanscrito, che è la lingua in cui sono scritti i Veda. La storia racconta che Shiva ridusse in cenere il demone Holika con il suo terzo occhio: ogni anno si rivive questo rito ballando e pregando intorno al fuoco.

Non è l’unica leggenda, di storie ne circolano moltissime. A seconda della regione geografica può variare il racconto e il contesto, eppure questo rito di accendere un fuoco nella notte a me ricorda i falò che anticamente bruciavano alla fine dell’inverno anche nelle nostre campagne, che oggi rimangono in forma di rito e festa. E Holika Dahana, questo demone che brucia nelle fiamme, in fondo mi sembra che suggerisca a ognuno di noi di incontrare i suoi demoni: l’ombra si incontra nell’oscurità, la notte che a qualsiasi età sa scatenarci dentro emozioni primordiali. I demoni della rabbia, tristezza, paura ci mettono in guardia sui nostri umani, umanissimi, limiti: è sulla soglia, al confine di noi, che sappiamo prenderci cura della nostra pelle e rimetterci in pace con tutto ciò che – non- possiamo. Sì, abbiamo dei limiti. Anche la vita li ha. Questo meraviglioso viaggio ha un inizio e ha una fine. Al termine dell’inverno il seme, che è rimasto rinchiuso mesi nella oscura terra, muore e si trasforma: alcuni si fonderanno con il fango e la pioggia, nella terra, altri diverranno pianta. La morte, la nostra paura più grande e ineludibile, si fa tangibile e nel sole della primavera che si affaccia celebriamo di nuovo la vita, con emozione, altrettanta paura e vulnerabilità, con tenerezza e col respiro in sospeso

In India e in Nepal nei giorni prima di Holi si accendono pire e il fuoco brucia, simbolo di purificazione e rigenerazione. Al mattino del giorno di Holi si gioca con le polveri colorate simbolo di questa festa, che ogni anno torna all’inizio di marzo, in giorni simili ma diversi poiché in India si segue il calendario lunare.

La storia del re Hiranyakashipu

Desidera la vita eterna Hiranyakashipu ma non può chiedere l’immortalità. Il dio Brahma gli concede cinque desideri: non morirà “né fuori né dentro la sua residenza, né di giorno né di notte, né in cielo né in terra, né a causa di un essere inanimato o un animale”. Hiranyakashipu nel cuore nasconde uno sterminato odio verso il dio Visnu a causa dell’uccisione di suo fratello. Nel suo regno proibisce il culto di Visnu tuttavia a disobbedire è proprio suo figlio. Prahlada, infatti, cresce devoto a Visnu: dopo aver cercato di dissuaderlo e convertirlo il re prova a uccidere il figlio, ma alla fine sarà lui a morire. Considerato un demone dalla mitologia indiana, Hyranyaksha verrà sventrato e divorato dagli artigli di Narasimha, incarnazione di Visnu, né essere inanimato né essere vivente, al crepuscolo, quindi né notte né giorno, sulla soglia del suo palazzo, né dentro né fuori. Anche Visnu cadrà preda dell’ira e solo il saggio, mite Prahlada riuscirà a fermare la sua incontenibile rabbia.

Il lato ombra dietro al demone

Machig Labdrön, maestra e asceta nata intorno al 1055, in Tibet diede forma a una pratica spirituale che si diffonderà con il nome Chöd, letteralmente “separazione, rottura, o tagliare”.

“I nostri demoni sono ciò di cui abbiamo paura. Come diceva Machig, qualsiasi cosa blocchi la nostra libertà interiore è un demone. Machig parlava anche di dei-demoni. Gli dei sono le nostre speranze, ciò che ci ossessiona, che desideriamo intensamente, i nostri attaccamenti”

Tsultrim Allione, “Nutri i tuoi demoni”

Che differenza può esistere fra la speranza e ciò che speranza non è più? Forse solo un margine sottilissimo, e ciò nonostante evidente. Potremmo definirla aderenza alla realtà, eppure non può essere solo questo. I sognatori sanno che a volte per custodire e portare in porto una grande impresa è necessario battersi anche contro ciò che è ragionevole. Ma quando la speranza di qualcosa diventa ossessione allora l’idea ci tiene prigionieri: succede anche in amore, o nella passione per qualcosa. Fingere che non sia importante non è la strada: non si smette di amare solo perché lo si vuole, non si smette di essere arrabbiati o tristi solo perché si butta l’ombra da una parte. Anzi, nell’oscurità l’ombra diventa più grande.

Facciamo un esperimento, scrive Tsultrim Allione nel suo libro, che forma daresti al tuo dolore? Una sedia vuota di fronte a noi: ci sediamo. Chiudo gli occhi. Respiro. Che forma ha… l’emozione che sto provando? Se dovessi disegnare che colori userei? Scopro che a seconda del tempo diversi sono i miei demoni, alcuni bellissimi, altri che mettono terrore solo a guardarli. Perché c’è sempre un filo di paura a guardare negli occhi un demone, ma forse proprio quel filo ci porta davanti alla vita e alla morte, alle cose importanti dell’esistenza.

A volte, più spesso di quanto pensiamo, guardi un demone negli occhi e scopri che quello sguardo lo conosci, lo conosci bene. E ricordiamocelo, anche la parola “felicità” ha a che fare con i demoni: dal greco eudaimonia, eu-buono, daimon, demone. Che ad accompagnarci e possederci sia un demone benefico. Abbracciare il demone, quello più pungente e oscuro, forse significa proprio questo, addomesticare e trovare un punto di connessione con il selvaggio che è in noi, una zona fra ombra e luce dove tendere la mano e trovare il contatto, al di là della rabbia, della tristezza e della paura.

Luce e ombra danzano insieme

A chilometri e chilometri dall’India e dalla turbolenta storia di Hiranyakashipu viene in mente Serse, il re della Persia, figlio di Dario, che nel 485 a.C sale sul trono e vuole conquistare la Grecia. Serse aveva una flotta potente e un esercito di duecentomila soldati di tantissime diverse nazionalità: nel giugno del 480 aC attraversa lo stretto dei Dardanelli, allora chiamato Ellesponto. A causa di un traditore, Efialte, che confida l’esistenza di un sentiero segreto, l’esercito persiano riesce a sorprendere alle spalle gli Spartani, che per due giorni alle Termopili avevano resistito eroicamente insieme al comandante Leonida: piuttosto che arrendersi i greci combattono fino alla morte. Intanto Serse continua la guerra e riesce a invadere una terra dopo l’altra, Focide, Beozia e Attica. In settembre raggiunge Atene; la città e il porto del Pireo vengono incendiati. L’ateniese Temistocle, alla guida della flotta greca, attira le navi persiane nella baia di Salamina, dove le imbarcazioni greche, più piccole e veloci, hanno un vantaggio. Serse osservava la battaglia da un trono posto ai piedi del monte Egaleo: in dodici ore la flotta persiana viene distrutta.

Erodoto racconta che per consentire il passaggio del suo esercito sull’Ellesponto Serse aveva fatto costruire un ponte sullo stretto vicino alla città di Abido, in Asia Minore, e un altro, nello stesso periodo, fu costruito presso il monte Athos. Una tempesta distrusse il ponte e Serse decise di punire il mare, con trecento frustate e maledizioni. La cultura greca definirà gesti come questo un’azione legata all’hybris: è l’arroganza di chi pecca commettendo azioni ingiuste senza comprendere il giusto limite, per il piacere di umiliare. Ancora una volta, il limite. Serse non è invicibile, anzi ironicamente il mare sarà teatro della sua sconfitta definitiva. Saturno è destinato a essere sconfitto e da suo figlio: il Tempo non si può arrestare, l’umana lezione è un lento imparare i cicli della natura. Hiranyakashipu non può essere immortale. Eppure, dentro ha un dolore che non dà pace, per la morte del fratello: la tristezza, quando non viene riparata, si trasforma in un demone di rabbia che tutto vorrebbe possedere e distruggere. Persino Visnu, il grande dio Visnu, signore che preserva e custodisce l’equilibrio del mondo, non è immune dalla rabbia.

Attraverso le polveri colorate di Holi possiamo ricordare a noi stessi, di nuovo, che tutto è in grado di trasformarsi. Mai come in questo tempo dell’anno in cui non è più inverno e ancora non è primavera ogni cosa è mobile, nella natura e in noi. In Europa è il momento delle ultime nevicate e dei primi coraggiosi fiori; la forza della luna piena, il sole che sta per ritornare, forte sulla pelle e nell’anima; l’attesa dei semi e delle piante messe a dimora. Ce la faranno? (Ri)nasceranno? La morte danza con la vita, la vita danza con la morte. Sempre. Ogni giorno è un viaggio di cui non conosco la fine né l’inizio. Solo, viviamo. Danzando. Celebrando i colori che sono dentro di noi e che iniziamo a ritrovare là fuori, fra gli alberi e la natura che inizia una nuova stagione.

Fiori di primavera

Germogli di bucaneve, come ogni anno di fianco alla porta di casa

Fiori di primavera o di fine inverno? Mentre la neve si scioglie sui prati fra i sentieri fa sobbalzare il colore intenso dei nuovi fiori

Fiori di primavera

Crocus

L’ho avvistato per primo fra tutti quest’anno, una piccola esplosione viola fra il color terra delle foglie secche. Il crocus è temerario e di frequente è il primo a sbocciare, fra la fine dell’inverno e l’inizio di primavera. Appartiene alla famiglia delle Iridacee (Iridaceae) e il suo nome viene dalla lingua greca, Kròkos. Questo piccolo fiore, viola o bianco, è citato fra le pagine dell’Iliade: significa filo di tessuto. All’interno sono ben visibili i lunghi stigmi che nel suo cugino più celebre, il Crocus sativus (comunemente noto come zafferano!) vengono sfruttati in cucina.

Il piccolo crocus durante la stagione primaverile sa trasformare i prati in un dipinto. Nell’Appennino tosco-emiliano il crocus spunta ovunque, fra le zolle di terra brulla e l’erba ingiallita scampata alla fine dell’inverno insieme ai piccoli cespugli di violette e le primule. Cresce in Europa, ma si trova anche in in Africa nord-occidentale e in Asia occidentale, fra le vallate dei Monti Altaj, un posto magico, dove anticamente nacque lo sciamanesimo e i popoli che vivevano qui consderavano sacre le montagne. Qui si trovano le vette più alte della Siberia e il confine fra Russia, Mongolia, Cina e Kazakistan.

Ma io alla fine dell’inverno ogni anno attendo, con trepidazione e curiosità, i bucaneve. Perché la natura ritorna, con magica puntualità, da anni, così tanto che noi non abitavamo in questa casa e non eravamo nemmeno nati. C’è un unico piccolo gruppo di bucaneve, qui in giardino; non sono che tre o quattro eppure da più di cinquant’anni, tornano, alla fine dell’inverno, sempre di fianco alla porta di casa. E io spio il loro arrivo.

Bucaneve

Il bucaneve, Galanthus nivalis, è della famiglia delle Amaryllidaceae: galanthus, così viene chiamato anche in lingua inglese, da due parole greche: gala, latte, e anthos, fiore. Fra i parchi del Regno Unito in questa stagione è ovunque: se ti trovi a camminare fra i parchi di Londra nel mese di febbraio vedrai un tappeto di minuscoli bucaneve, ai piedi delle querce. In Irlanda il bucaneve era il simbolo della festa di Imbolc, una festa antichissima che poi in epoca cristiana divenne la Candelora. Sai che il bucaneve inglese ha un legame con l’Italia? Fu la regina Elisabetta a introdurre i primi bucaneve in Gran Bretagna, dalle montagne italiane.

L’arte del vedere

Vedere è un’arte, sai? Sì, perché non basta vedere o poter vedere: saper vedere è un allenamento e un’ispirazione, va coltivata ogni giorno e quanto spesso ce ne dimentichiamo. A vedere si impara, ecco perché si tratta di un esercizio quotidiano. Nella storia della medicina i casi di chi ha potuto vedere grazie a un intervento chirurgico ci hanno fatto scoprire che fenomeni come la prospettiva non sono un fatto scontato bensì una costruzione: noi vediamo con il cervello e la nostra vista si allena nel tempo. La visione che abbiamo, del mondo e anche di noi stessi, delle forme, dei colori e di come percepiamo le cose è il risultato di tanti fattori: del nostro carattere e delle nostre unicità, della cultura che respiriamo e della storia in cui siamo collocati. È il nostro universo di senso. Se ci fermiamo su questo pensiero – il modo in cui ognuno di vede è unico – allora può accadere un’incredibile rivoluzione e a partire da questo possiamo persino iniziare a costruire la nostra visione, che non ha solo a che fare con la vista perché diventa il modo che abbiamo per chiederci quali sono i nostri sogni, le direzioni in cui ci interessa andare, la strada che stiamo percorrendo giorno dopo giorno.

Piano piano… Osservare la natura per vivere senza fretta

Tu immagina una giornata di nuvole e la pioggia forte in giardino, il lento viaggiare delle chiocciole e il volo della libellula che nasce e vive sull’acqua. Senti sulla pelle il sole che ti asciuga le ali, la terra che ti avvolge quando strisci nel buio. Allenati alla metamorfosi del tarassaco e della farfalla, che vibrano nel cambiamento ascoltando le stagioni.

Ogni stagione della nostra esistenza ce l’abbiamo scritta dentro

C’è un cielo immenso là sopra e noi crediamo di essere grandi invece siamo piccolissimi, minuscole creature di terra, acqua e aria che a volte con la terra, l’acqua e l’aria si mescolano e allora diventano immense. Diventiamo senza confini quando ci arrendiamo al piccolissimo, disintegriamo le mappe e i Paesi, ne facciamo brandelli.

Diventare esploratori del momento è l’avventura senza fine

Ecco, non si è esploratori: esploratori si diventa. Non si è coraggiosi, coraggiosi si diventa. Noi non ci arrendiamo al già fatto bensì al non detto strappiamo una promessa: la parola, il seme, il sogno. Il futuro di questo attimo da afferrare adesso è il presente che si fa nelle nostre mani. Lo impastiamo. Lo guardiamo. A piedi nudi lo dipingiamo, questo adesso di cui vogliamo trovare scoperta e meraviglia.

Qui stiamo sfogliando questo libro: “Piano piano… Osservare la natura per vivere senza fretta. 50 storie” di Rachel Williams con illustrazioni di Freya Hartas (Giunti editore) cinquanta storie, una per ogni pagina, una per ogni frammento raccolto nel mondo là fuori: una fotografia da dipingere e impressionare, disegnare e raccontare, rimodellare per inventare la vita ascoltando il cuore.

Il ginepro: da una passeggiata di Vita Sackville West ‘Un giardino per tutte le stagioni’

… ho visto un ginepro rampicante, del tipo frondoso, crescere in Scozia su terreno ricco di torba, intento ad arrampicarsi selvaggiamente per una distesa boscosa sotto le betulle bianche.

Me ne sono portata a casa una bracciata di rametti, e li ho scaldati nel mio caminetto, agitandoli poi per la stanza come fossero vecchi steli di lavanda o rosmarino, fragranti quanto l’incenso, ma molto più rinfrescanti e meno pesanti nell’aria.

Dopo alcune ricerche ho scoperto trattarsi del ginepro comune, reso nano dal cervo e dai conigli che lo mangiano d’inverno.

Formava un bel tappeto fitto e scuro sotto il chiarore delle betulle bianche.

Piccoli ruscelletti gocciolavano formando un’irrigazione naturale. Le loro bollicine si sollevavano come perle scoppiettanti sui ciottoli semi sommersi.

Mi ha fatto desiderare di possedere non un giardino più o meno formale, ma uno completamente informale, con un bosco selvaggio ai margini

da “Un giardino per tutte le stagioni” di Vita Sackville West

Passeggiata nel bosco

Passeggiata nel bosco di un sabato d’inizio autunno: le foglie, i colori, l’ora alla fine di un mattino che sa di sole e nebbia in arrivo,

‘namo, dice lui
senza sapere che dice una parola che esiste in altri luoghi e invece lui la dice un po’ per abbreviare e un po’ perché è pur sempre uno straniero, un viaggiatore intergalattico che afferra a spizzichi e bocconi, qua e là
e afferrando inizia a formulare concetti, farsi capire, spiegare e spiegarsi
comunicare, da buon ospite di questa terra, piccolo uomo fra stranieri che fanno discorsi in lingue complesse, pieni di sensi doppi e tripli, deviazioni e angoli ciechi

‘namo, dai
insieme
tutti

mammi, papà, io, dudi

dove?

‘namo là.

Ovviamente.

E allora andiamo.

C’è la pineta e il bosco che si apre alle sue spalle, silenzioso.
Il mattino del sabato e uscire tutti insieme, ognuno alla sua velocità
La lagotta dudi non ne può più di stare in casa e allora corre, corre più forte di tutti
poi si gira e ci aspetta, abbaia ai caprioli e torna indietro
sfreccia nel prato, ci sfiora di gran corsa

il piccolo viaggiatore cammina ma si lamenta perché con le sue gambette, diventate grandi ma pur sempre piccole, ogni micro passo rende la passeggiata super
io b(r)accio, io piccolo
poi gli facciamo notare dei funghi prataioli nati così, selvatici, e allora la sua passione si ridesta
non si sente la stanchezza quando la curiosità supera tutto

camminare, osservare le piante intorno a noi
mettersi in tasca qualche foglia e ripromettersi di cercare i nomi
respirare il bosco, l’aria silenziosa del mattino

Inseguendo farfalle…

Nasce bruco tra le foglie sotto le piante di violetta e viola, che ama particolarmente.
Vola per tutta l’estate,
attraversando l’aria adagio,
assomiglia a un frammento di carta colorata portato via dal vento
la farfalla Speyeria aglaja,
arancione
della famiglia dei Nymphalidae:
“Grande Perla”,
piccole macchie rotonde e escure sulle sue ali color tramonto

e poi c’è la cavolaia
che minaccia gli orti e depone le uova sotto le grandi foglie verdi dei cavoli
leggiadra se ne va,
leggera e candida

la vanessa del cardo, invece
ha stupito tutti perché ci si è accorti che
compie un viaggio lunghissimo
dall’Europa all’Africa:
come la monarca, una farfalla migratrice.
Nasce sulle piante di cardo selvatico,
si trasforma in fretta e alla prima generazione ne seguono altre due.
La terza generazione di farfalla del cardo in autunno è crisalide.
Passerà l’inverno così, crisalide,
per poi nascere in primavera. Intanto,
fra aprile e maggio
la prima generazione parte.
Partirà di nuovo in autunno,
e così via:
il flusso di un movimento incessante che culla il cambiamento.

Nel pensiero antico la farfalla è il soffio, il respiro vitale dell’essere umano. Fra i popoli più diversi, dagli Aztechi all’antica Roma, si diceva che nel momento della morte con l’ultimo respiro se ne andava lo spirito della persona, che prendeva ali di farfalla. Ecco perché una farfalla che arriva all’improvviso vicino, raccontavano le nonne, porta il ricordo di un nostro caro che viene a salutarci.

Ma la farfalla con la sua metamorfosi ci insegna anche una preziosa lezione sulla trasformazione. Trans-forma, attraverso la forma: il cambiamento profondo è trans-forma, avviene con un processo che parte da dentro. Non è negando ciò che siamo stati che ci trasformeremo in ciò che aneliamo essere: è il mondo dentro che accade e fa cambiare, deflagrare e mutare il mondo fuori, lo investe e ridisegna.

Dalla crisalide impariamo che esiste un momento per tutto: anche quando, apparentemente, stiamo fermi
ci muoviamo.
Anzi, spesso proprio questo è difficile.
Stare fermi,
rinchiudersi in un bozzolo
osare
lasciare il mondo fuori
per concentrarsi sul dentro

è l’unico modo per sentire la propria voce.
Perché i sogni, come le trasformazioni grandi
hanno una vocina sottile:
bisogna aspettare
farsi amico il Tempo e
restare attaccati alla terra,
nutrire le radici.
Le ali, arriveranno.
E prenderemo il volo insieme all’anelito di dove ci porta il cuore,
senza più pensare a chi siamo e se sappiamo o no volare