〰️ cosa stai facendo? 〰️ uh, una bottiglia! 〰️ e poi, cosa stai facendo adesso? 〰️ un pesce! Sì, è proprio un pesce 〰️ Mammi, i pesci di solito non vivono nelle bottiglie.
Piccoli esercizi di immaginazione per atti di contemplazione zen
Immagina un uovo. Sta dentro a una bottiglia. Nasce un oca e l’oca cresce nel recipiente di vetro. Adesso l’oca è uscita. Riesci a immaginarlo? 🎯 Quello dell’oca è un celebre koan. Riko domanda: se un uomo mette un pulcino d’oca in una bottiglia e lo nutre facendolo crescere lì dentro come si fa a far uscire l’oca senza ucciderla e senza rompere la bottiglia? Il maestro zen Nansen risponde battendo forte le mani: Riko!… Vedi, l’oca è fuori!
Che cos’è un koan?
Il koan viene scambiato per un indovinello. Ma non lo è. È una storia. Oppure no. Una domanda. Ma non per risolvere una situazione, spesso il problema è irrisolvibile. Si tratta dell'”avviso pubblico” (questo è il significato letterale della parola koan) di un caso paradossale. Nell’antica Cina il koan divenne un altro modo per imparare. E liberare la mente dagli schemi. Oggi lo definiremmo ‘pensiero divergente’, una modalità che segue altri binari rispetto a quello che ci si aspetta. Non sempre quello che immaginiamo diventa realtà. Eppure iniziare a immaginare è mettere un piede nel possibile. E cominciare a pensarlo, dare una forma.
La scuola che sogno è un’ora di immaginazione al giorno, per tutti quanti, tutta la vita. Sì, tutta la vita. Un’ora al giorno.
Un’ora per sognare, immaginare, stare con i gomiti appoggiati e viaggiare oltre al riquadro della finestra. Un’ora per impastare, tagliare, seminare, disegnare. Un’ora per chiudersi nel mondo di sé – e chissà dove ci porterà – come si augurava cent’anni fa Virginia Woolf solo che non è un luogo ma un tempo.
La nostra stanza è il nostro Tempo, quello fatidico che prendiamo per noi anche a costo di rubarlo, fosse anche solo per un momento. È il tempo per ridere e per piangere, per travestirsi e dimenticarsi, per rifarsi delle cose brutte e reinventarsi la bellezza.
C’è un archivio di istanti da qualche parte, dove condividiamo la memoria del mondo per immaginarci la vita. Immaginazione, la parola magica che trasforma il presente in futuro. IMMAGIN/AZIONE. Ne abbiamo bisogno per crescere sognatori. E non è vero che a un certo punto si smetta di crescere: ci trasformiamo, attimo per attimo. Ogni giorno è un viaggio che non conosco.
Edmund Hillary e Tenzing Norgay – credits: Royal Geographical Society
Adesso immagina di allacciarti gli scarponi, fuori è ancora buio. Ti tremeranno le gambe oggi, mentre ti arrampicherai su per quelle rocce. Ma lo sai, lo sai che ce la farai. Lo sai da quando eri il più gracile degli altri ma a sedici hai scoperto di essere anche il più resistente. Perché la vera forza è quella della tenacia. Chi si arrampica lo sa. Lo sa chi esplora nuovi mondi, chi non demorde, chi continua a sognare.
Tenzing Norgay fotografato da Edmund Hillary – credits: Royal Geographical Society
Ecco, adesso immagina il mondo visto da lassù. Il sole in faccia. Il bianco accecante. Il ghiaccio e la neve. L’infinito che ti toglie il respiro dopo la fatica immensa. L’energia che ritorna nell’adrenalina della felicità. È il 29 maggio 1953.
“Non sono le montagne ciò che conquistiamo, ma noi stessi”
Edmund Hillary
Edmund Hillary, neozelandese, e lo sherpa Tenzing Norgay raggiungeranno la vetta dell’Everest, per la prima volta. Restano sulla cima per quindici minuti prima di ridiscendere. Per evitare le speculazioni e guerre politiche decideranno insieme di non rivelare chi dei due per primo mette piede sull’Everest (sarà l’autobiografia di Tenzing a svelarlo dopo trent’anni): non è importante, dirà Edmund, non è importante chi arriva primo. Importante è chi c’è al tuo fianco quando hai paura e rischi di cadere. Perché senza darsi una mano a certe vette non si arriva, ecco una storia che potremmo imparare.
L’avventura del viaggio in nave dall’Europa all’America nelle prime grandi traversate oceaniche
Il transatlantico Cristoforo Colombo fu costruito dalla società Ansaldo a Genova nel cantiere navale di Sestri Ponente e varato il 10 maggio 1953. La nave verrà smantellata a Taiwan nel 1983!
SS Great Britain è considerato il primo transatlantico: costruita a Bristol, fece il suo primo viaggio il 26 luglio 1845 e all’epoca fu la nave più grande al mondo. Fu il primo piroveliero a propulsione mista (vela e vapore) ad attraversare l’Atlantico (ci mise 14 giorni!). Adesso è una nave museo ormeggiata a Bristol.
Il piroveliero americano Savannah a propulsione mista fu la prima nave a vapore a fare la traversata dell’ Atlantico: era l’inizio dell’estate 1819, fra 24 maggio e 30 giugno.
Il piroveliero britannico Archimedes (in onore del noto inventore!), costruito a Londra nel 1838, è stata la prima imbarcazione a essere mossa da un’elica a vite.
La vite idraulica di Archimede era stata studiata da Archimede di Siracusa, vissuto nel III a.C., e forse era già utilizzata nei giardini pensili di Babilonia. Con l’invenzione del motore a vapore il sistema di propulsione a elica incontra una nuova potenza. Real Ferdinando, poi Ferdinando I, sarà la prima nave a vapore italiana, costruita a Napoli sulla spiaggia di Vigliena. A proposito, un prototipo fu varato da Claude de Jouffroy nel 1783, ma il primo battello a vapore viene progettato da James Watt e guidato da Robert Fulton lungo il fiume Hudson nel 1807: si chiamava North River Steamboat o North River, comunemente nota come Clermont, ed è considerata la prima nave al mondo ad aver sperimentato con successo l’uso della propulsione a vapore per il trasporto sull’acqua.
La Storia è un posto incasinato dove tutto accade contemporaneamente. Siamo noi la mappa, è scritta e arrotolata dentro a un DNA infinito. Siamo storie nella Storia: viaggiamo attraverso lo spazio e non siamo altro che viaggiatori del tempo, persi nella geografia del nostro divenire…
3 giugno 1960 Genova – New York andata e ritorno
Nata nel 1904 a Batna, in Algeria, lei vede il mondo all’alba di un nuovo secolo, che ormai per noi è già il passato. Tu immagina solo per un attimo, se puoi, la guerra, l’amore, gli anni della ricostruzione: sappiamo così poco, in fondo, della vita di chi ci ha preceduto, e quasi nulla dei loro pensieri, dei dubbi, degli amori e delle delusioni, dei sogni giovanili e di quello che ne è stato.
E poi eccola, un giorno, sembra quasi di essere lì. Una figura piccola e sottile, perché lei era così, una donnina da nulla con una grande forza. Il vento in faccia che scompiglia i capelli; il ponte nell’ora silenziosa del dopo pranzo, quando l’azzurro accecante punge gli occhi con il luccichio delle onde e la gola pizzica di libertà. I giorni della guerra sono passati, sotterrati i morti di ieri anche se ieri non passerà mai, no, non potrà capirlo mai chi non ha vissuto una guerra, come ti sa cambiare la morte e come ti può trasformare l’orrore, la morte in faccia di chi conosci, la morte che esplode e dissangua. Davanti adesso c’è un mondo da immaginare di nuovo.
Diciamo ai bambini di essere “bravi”, di fare i bravi. Ma in realtà nessuno di noi è bravo o non-bravo. Siamo tutto, siamo tutti. La parola “gentile” in origine significava “appartenente alla stessa famiglia”, ecco se pensiamo di appartenere a un’unica famiglia forse possiamo diventare più gentili. E non si tratta solo dell’umano. Apparteniamo alla tribù, così variopinta, così diversa nelle forme e nella manifestazione, che si trova qui in viaggio sul pianeta Terra.
Siamo alberi, siamo pioggia e fiume, siamo mare, siamo umani, siamo tigre, siamo lepre. Siamo sogni, siamo attesa, amore, passione, rabbia. Quando siamo gentili è perché vediamo la bellezza dentro l’altro che siamo noi e ci ricordiamo che apparteniamo tutti alla stessa grande famiglia di viaggiatori in questo immenso sconosciuto universo.
Riflettevo tempo fa, abbiamo questa idea di dover tirare fuori il meglio da noi stessi e dal mondo. Invece basterebbe vedere quanto siamo già tutto questo e oltre, altro. Eravamo bellissimi, quando abbiamo iniziato a percorrere questa strada, appena precipitati su questa sfera azzurra chiamata Terra. Siamo bellissimi e nessuno ce l’ha mai detto.
Sarebbe bello imparare il non-fare nel fare. Allora potremmo lavorare e pulire, cucinare o passare l’aspirapolvere con la stessa leggerezza di quando i bambini lavano le tazze della colazione giocando con l’acqua per mezz’ore intere. Potremmo dipingere, cucire, pettinare, sbrogliare, saltare, sguazzare, senza occhio per l’orologio. Potremmo perdere il tempo, goccia dopo goccia, e poi miracolosamente, ritrovarlo. Nell’istante in cui tutto accade improvvisamente la perdita si ricostituisce e la ferita, come insegna la colata d’oro dell’arte kintsugi, diventa esperienza: nel tempo dell’attesa lavora il desiderio, nel tempo di dipana il filo dell’esistenza.
La domanda è questa e non ci sono scappatoie. Che cosa voglio del mio tempo? Perché le cose da fare sono tante, è vero; sono tante anche quelle che sembrano belle, buone giuste. Eppure non c’è tutto il tempo del mondo: non avrai tutto il tempo del mondo, nessuno di noi lo ha.
E allora succede di doverci pensare e riflettici bene, sul tuo tempo, perché ne va del filo che intesse la vita intera. Inseguilo quel filo, tienilo fra le dita e guardalo.
Dove mi porta il filo del tempo? Nel Taoismo wu-wei è “non-azione”. Le cose verranno a noi, dicono i saggi di ogni tempo in tutto il mondo: tutto arriva al momento giusto, né prima né dopo. Ciò che non è affatto semplice, invece, è l’attenzione. Un po’ come quelle ragazze nella notte, raccontate in una pagina antica della Bibbia cristiana, che attendono lo sposo; attendono con una lampada e dell’olio, ma se ne usi troppo, al momento sbagliato, non ci sarà per l’attimo fatale in cui servirà. C’è sempre un attimo fatale, in cui all’improvviso ti devi svegliare e alzare: il momento catartico in cui esserci, non si sa quando ed è per questo che dobbiamo stare svegli.
Io me l’immagino così. In piedi, nella notte. Non vedi là fuori, cosa accade nell’oscurità: è il buio della coscienza. Attendi. Sai di avere una luce, è lì accanto; ce l’hai dentro. Per qualcuno sarai la luce, un faro nella notte: qualcuno lo è stato per te. Poi c’è l’attimo decisivo in cui la fiamma inizia a brillare, si sveglia la consapevolezza ed ecco che accade l’incontro con l’altro, che hai sempre sognato di incontrare. L’altro che in fondo sei tu, null’altro che Tu
Che cosa significa “attendere”? Che cosa facciamo mentre aspettiamo? Oggi mi hai detto di sentirti – molto triste, quando papà è al lavoro. Anche a me dispiace quando non c’è, ho risposto io. Davvero, davvero anche a te dispiace? Mi hai chiesto tu, con la faccia dipinta di sorpresa. Certo. Al tempo stesso so che a volte si seguono strade diverse per poi ritrovarsi; si fanno altre cose, si sta da altre parti: poi ci si incontra di nuovo e sarà bellissimo fare nuove cose insieme, portando quelle incontrate su altre strade e direzioni. Come barche esploratrici, come ataviche tartarughe marine nella corrente, seguiamo il flusso: andiamo, alla scoperta. Ogni giorno.
Ogni giorno è un viaggio che non conosco.
Intanto, cosa si fa quando si aspetta? Si fa o non si fa? Un concetto antico, che abbiamo perso, è quello della veglia. Le ragazze di quel racconto biblico vegliavano, nella notte. Le donne un tempo vegliavano spesso, nelle lunghe ore di buio invernale. Si diceva perfino, nel linguaggio popolare, “andare a veglia”, a vejgghh, nel dialetto di queste montagne dell’Appennino. “A veglia” si ricamava e cuciva, ci si incontrava e si aggiustavano le cose rotte, anche i rapporti; ci si fidanzava e ci si conosceva, si passava tempo insieme, gomito a gomito. Ecco, il tempo: forse era il tempo la ragnatela che stava dietro a questo filare, di parole e di ore. Oggi la parola passatempo è quella più vicina e che ha sostituito il concetto antico della veglia, ma il passatempo è spesso solitario e dentro ha questo “passare” che finisce un po’ per sfilacciare il tessuto del tempo, invece di rafforzarlo.
Wu-wei è “quando agire, quando non agire”. Il cinese Lao Tzu, considerato il fondatore del Taoismo, ha scritto: «Ecco come bisogna essere! Bisogna essere come l’acqua. Niente ostacoli – essa scorre. Trova una diga, allora si ferma. La diga si spezza, scorre di nuovo. In un recipiente quadrato, è quadrata. In uno tondo, è rotonda. Ecco perché è più indispensabile di ogni altra cosa. Niente esiste al mondo più adattabile dell’acqua. E tuttavia quando cade sul suolo, persistendo, niente può essere più forte di lei». Allenarsi a stare in questo significa allenarsi a stare nella condizione che in cinese è ming, “chiarezza”. Come l’acqua del fiume: quando ci metti i piedi dentro e allora devi fermarti un attimo e attendere che la polvere si posi per vedere di nuovo chiaro.
Sarebbe bello imparare il non-fare nel fare. Allora potremmo lavorare e pulire, cucinare o passare l’aspirapolvere con la stessa leggerezza di quando i bambini lavano le tazze della colazione giocando con l’acqua per mezz’ore intere. Potremmo dipingere, cucire, pettinare, sbrogliare, saltare, sguazzare, senza occhio per l’orologio. Potremmo perdere il tempo, goccia dopo goccia, e poi miracolosamente, ritrovarlo. Nell’istante in cui tutto accade improvvisamente la perdita si ricostituisce e la ferita, come insegna la colata d’oro dell’arte kintsugi, diventa esperienza: nel tempo dell’attesa lavora il desiderio, nel tempo di dipana il filo dell’esistenza. Siamo, in ogni istante. Anche quando lo dimentichiamo, credendo di attendere qualcosa o qualcuno. Sei adesso. Anche il tempo è adesso, lo tieni in una mano: a ogni respiro lo soffi via e te lo riprendi, con una magia che è la vita stessa.
“Pensi di poter prendere il controllo dell’universo e migliorarlo? L’universo è sacro. Non puoi migliorarlo. Nella ricerca della conoscenza, ogni giorno guadagniamo qualcosa. Nella ricerca del Tao, ogni giorno perdiamo qualcosa. Facciamo sempre meno finché non raggiungiamo la non-azione. Il Tao rispetta la non-azione, eppure nulla rimane incompiuto”