Perdersi in Austria

Da Venezia al Tirolo lungo la strada verso Merano e Innsbruck fino a Salisburgo: perdersi in Austria

Il bosco delle biglie sul Glungezer a 1.560 metri

Merano e i giardini di Sissi,
camminare fra gli alberi
girare in monopattino per Innsbruck, soprattutto se sei un piccolo viaggiatore intergalattico

Passeggiare in una sera di fine estate lungo il lago di Seefeld, dove
sempre se sei un piccolo viaggiatore intergalattico, ti interesserà esplorare il parco giochi,
La casa capovolta a Terfens, una ventina di minuti da Innsbruck.

Salisburgo, la città di Mozart
passeggiare sul colle dei cappuccini
la vista della città
da lontano, la fortezza Hohensalzburg
e poi scendere dai vicoletti
dalla piazza del duomo
attraversare il ponte Staatsbrucke
sul fiume Salzach
fermarsi sulle gradinate al sole

in una giornata di pioggia a Salisburgo il Museo dei giocattoli per sperimentare i giochi antichi
e la Casa della natura, il Museo della natura e della tecnica di Salisburgo
dove immaginare la vita segreta degli universi marini e quelli di altri mondi, nello spazio lontano.
A Salisburgo ci sono anche il Museo delle Marionette, nell’antico soffitto della Fortezza Hohensalzburg,
il Museo di arte moderna, il Museo di storia militare,
il WasserSpiegel, Museo dell’acqua nel serbatoio sul colle Mönchsberg per andare alla scoperta del sistema di rifornimento idrico di Salisburgo
il museo del Natale (a proposito, nel cuore più antico della città, non distante dalla Casa di Mozart c’è un piccolo negozio dove è Natale tutto l’anno),
il museo della birra Stiegl, dove si visita il birrificio privato più grande dell’Austria
la casa natale del poeta Georg Trakl, figlio di un commerciante di ferramenta di Salisburgo e morto a ventisette anni all’ospedale militare di Cracovia all’inizio della prima guerra mondiale
e poi Hangar-7, il Museo degli aerei, all’aeroporto di Salisburgo, dove i Flying Bulls di Salisburgo recuperano e restaurano rari velivoli storici

Ultimo giorno di luglio

Fra i sorrisi di una giornata semplice e bellissima….
le mani stanche e soddisfatte di quando metti a posto cose, stanze, situazioni – oggi la legnaia – che ti lasciano la polvere addosso e l’anima leggera
la meraviglia di quelle giornate in cui hai la sensazione di aver fatto tanto e aver vissuto ogni ora, sarà perché ti sei svegliato alle sei con il profumo di caffè e le fette calde tostate e la marmellata di ciliegie e il burro e poi il riposino sul divano a metà mattina e tutti gli orari strani e scombinati che sono la cosa bellissima della vita in generale e dell’estate in particolare
un piccolo viaggiatore intergalattico che non si arrende al tramonto. ‘namo, dai – andiamo
Dove?
Là. LLLà
A fare benzina, papà
Indossare la felpa di un amico
I giochi, le scale e gli scivoli
La casetta con i libri del book sharing
La fontanella con la testa a forma di pesce e l’acqua che si accende e spegne
La luce arancione del tramonto che scende fra i crinali delle montagne ritagliate come sagome di carta
E poi?
“Biletta! Apta!” la birretta e l’acqua con le bolle
Uno talallo – un tarallo, uno! gli aghi di pino, le sdraio di tela e legno ma in versione gnomo per i bambini piccoli che ci si mettono sopra e si sentono grandi
La luna, i libri da sfogliare mentre si aspetta
Il buio blu e le prime stelle
Tornare a casa con la testa piena di sogni e sorrisi

L’ultimo pensiero della giornata: quanto vogliamo imporre noi la nostra visione e quanto decidiamo di lasciarci contaminare? Che siano i figli, il cane, il gatto, i compagni di vita o la coinquilina che diventa per sempre, la famiglia è un sistema in cui tutti dovrebbero, e possono, influenzare l’altro. E allora non solo dare le regole, specie ai più piccoli, ma anche lasciarci inondare dalle loro prospettive sul mondo e da quello che la vita ci lascia scoprire ogni giorno, anche e soprattutto nelle situazioni che non avremmo mai immaginato

E poi. Papà che guarda le stelle. La finestra aperta e l’aria della notte quasi fredda, le montagne scure all’orizzonte. Una musica lontana. Tu che appoggi la mano sul mio braccio mentre dormi. Un libro bello. La lanterna accesa. Il segnalibro della Pimpa con le foglie e l’autunno che è già dopodomani

 

Ultima settimana di luglio

Sbattere le palpebre al sole
Rovesciare il latte a colazione
La doccia, i piagnistei, i mugulii e la borsa da infilare sulle spalle
I sentieri d’estate
Il fiatone e il sudore
I tunnel creati dai rami verdi degli alberi e tu che me li fai notare, tunnel!
Arrivare nel posto dei cavalli e salutarli con il pane secco
Beccare proprio il momento finale della costruzione di un muretto di sassi lunghissimo e vedere l’orgoglio di soddisfazione negli occhi di chi l’ha costruito, con uno sguardo così limpido e leggero che arriva fino all’orizzonte
Il sole delle undici, che inizia a rallentare e fermarsi in mezzo al cielo
Tornare con te addormentato su una spalla e Kukla, una zampa dopo l’altra, che ci affianca stanca
Aprirsi una birra gelata e mentre tu dormi sul divano raccogliere la salvia, l’odore forte fra le dita
Le cicale di mezzogiorno

Lunedì 25 luglio ’22, ultima settimana di luglio

Mare al mattino

Mare al mattino, poesia di Konstantinos Kavafis, 1915

Fermarmi qui. Per vedere anch’io un po’ di natura.
Luminosi azzurri e gialle sponde
del mare al mattino e del cielo limpido:
tutto è bello e in piena luce.
Fermarmi qui. E illudermi di vederli
(e davvero li vidi un attimo appena mi fermai);
e non vedere anche qui le mie fantasie,
i miei ricordi, le visioni del piacere.

Poeta e giornalista, Konstantinos Petrou Kavafis ha un nome greco, ma nasce e vive nella città di Alessandria d’Egitto. I suoi genitori erano greci della comunità ellenica di Istanbul e avevano quella che oggi si chiamerebbe ditta di import-export. Tuttavia il papà morì e Kostantinos, insieme alla sua famiglia, emigrò nelle lontane terre nebbiose del Regno Unito, dove visse a Londra e Liverpool. Ma ad Alessandria tornò, quando aveva sedici anni, e lì trascorse gli anni di tutta la sua vita. Visse a cavallo di due secoli, l’Ottocento e il Novecento.

Nel 1801 i britannici sconfiggono i francesi nella battaglia di Alessandria, presso le rovine di Nicopoli: è l’ultimo respiro dell’impero ottomano, durato dal 1299 al 1922 per 623 lunghi anni. In questo ultimo periodo di anarchia Alessandria, che nell’antichità fu un’immensa metropoli e un’importante centro culturale, era stata dimenticata. Sommersa dalla polvere del tempo dell’antico centro, con il ricco quartiere degli artigiani, il faro e la storica biblioteca, celebre in tutto il mondo, ea rimasta una cittadina di quattromila abitanti circa.

Il pascià Mehmet Ali era un capo militare dell’esercito ottomano e in seguito sarà considerato il padre fondatore dell’Egitto moderno per aver abbattuto il regime neo-mamelucco. Era nato nella città di Kavala, Qawāla, in Macedonia, che al tempo faceva parte dell’Impero ottomano, da una famiglia albanese e i suoi genitori erano originari di Coriza, una città dell’Albania circondata dalle montagne della Morava e infatti il suo nome significa proprio questo, “collina”, gorica, diminutivo di gora, “montagna”, in tutte le lingue in cui è chiamata (almeno tre, aromeno, bulgaro, greco, macedone, turco). Mehmet Ali era il secondogenito di un mercante di tabacco e suo padre si chiamava Ibrāhīm Agha, invece sua madre, Zeynep, era la figlia dell’ayan di Kavala, Çorbaci Husain Agha. In lingua araba “ayan” significa persona di spicco e nell’impero ottomano alla classe degli ayan appartenevano persone con grandi cariche di potere, a capo di corporazioni artigiani o militari. Da ragazzo Mehmet Ali prestò servizio nell’unità di Kavala, dove era cresciuto, ma suo padre, proprio come il padre del poeta Konstantinos Petrou Kavafis, morì in giovane età, così fu entrò nella famiglia di uno zio, crescendo insieme ai suoi cugini. Insieme a una famiglia tutta di militari crebbe di ruolo in ruolo fino a diventare secondo comandante per poi partire, volontario, con i soldati mercenari albanesi. Fino in Egitto, a rioccupare quelle terre di lingua araba dopo il ritiro di Napoleone Bonaparte.

Ad Alessandria d’Egitto il Chedivè Mehmet Ali costruì la sua casa e favorì la rinascita della città grazie a grandi lavori pubblici: fu lui a ordinare di scavare il Canale Mahmūdiyya, una nuova via di comunicazione con il Nilo, terminato nel 1820 e riutilizzare il porto occidentale. Nel 1856 fu costruita anche una ferrovia che collegava Alessandria d’Egitto con Il Cairo. Nel frattempo si rafforzavano le fortificazioni. Prima i greci, nel 1827, poi una coalizione di inglesi, francesi e russi, nel 1828, minacciarono la città. All’orizzonte, nel 1882, si vide arrivare una flotta anglo-francese: si scatena una rivolta e vengono massacrati quattrocento europei che vivevano ad Alessandria. L’ammiraglio britannico, sir Frederick Beauchamp Seymour, e più tardi Lord Alcester, dopo aver lanciato un ultimatum, bombardano i forti dal mare, senza far sbarcare le truppe. Dopo altri giorni di rivolte e uccisioni in strada il Regno Unito invia una spedizione militare e occupa il Paese. Durante l’occupazione inglese Alessandria diventa sede navale militare. Dopo la seconda guerra mondiale, con la campagna nord-africana del 1940-1943 e la decisiva battaglia di El-Alamein, il destino della città cambia con il colpo di stato militare egiziano del 1952, quando il colonnello Nasser prende il potere e il trattato anglo-egiziano del 1954 fissa i termini del ritiro delle truppe britanniche.

Mehmet Ali, nato in Grecia e morto ad Alessandria, vissuto fra due secoli, il Settecento e l’Ottocento; Konstantinos Kavafis, nato e morto ad Alessandria d’Egitto, greco, vissuto a cavallo di due seeoli, l’Ottocento e il Novecento. Uno un uomo del comando militare, l’altro un poeta, che nascerà vent’anni dopo la morte del comandante: ad accomunarli una città. Alessandria d’Egitto.

Perdersi in Garfagnana

Al passo delle Radici San Pellegrino in Alpe è il valico che separa Emilia Romagna e Toscana, provincia di Modena e Lucca. C’è un cartello a ricordarlo proprio nel punto al crocevia dove la selva romanesca si apre. C’era un bar, uno di quei posti di legno e quella vecchia atmosfera di una volta, scampata al passato, con il bancone alto e i tavolini che socchiudevo gli occhi ed ero ancora in un tempo fatto da altri anni, cartoline in bianco e nero. Adesso la porta è sprangata, ha chiuso da un paio di anni.
Dietro la curva c’è san Pellegrino, se te lo lasci alle spalle e tieni la destra segui l’indicazione per Lucca e inizi a scendere. Giù, giù, curva dopo curva, come Alice quando cade nella tana del Bianconiglio attraverso il vuoto e le strade costruite, pezzo per pezzo, da chi su queste strade ci sputa sudore, catrame e fatica
terrapieni, argini
a combattere contro le frane e il rumore del Tempo che passa e sconquassa, abbatte, logora.

La provinciale 72, ex statale 324, mette in comunicazione la Garfagnana toscana e il tratto modenese dell’Appennino, la valle del fiume Secchia che nasce alle pendici dell’Alpe di Succiso e si tuffa nel Po dopo un lungo viaggio dalle sorgenti di montagna fino alle città di pianura. Da Montefiorino la provinciale 32, che si snoda lungo la via per Frassinoro, incrocia al Passo delle Radici la statale 486 che arriva da Modena passando per Sassuolo e la statale 12, da Pavullo nel Frignano. Tutte qui, una rete che fa un nodo: si congiungono con la vecchia 324 a Imbrancamento e questo nome dal suono importante e vagamente inquietante, dentro ha il suono di mille campanacci e urli, chiasso e caos: a questo incrocio i pastori diretti nelle terre toscane riunivano le pecore in un unico gregge prima di passare al di là.

Adesso ci sei, in una manciata di km segui la linea che si fa strada fra gli alberi. Un po’ più in là, sul fondo di questo imbuto magico di montagna che scende, troverai piccoli paesi e campanili e campi al sole. Intanto la luce del tramonto fa risplendere il profilo delle Apuane sullo sfondo, accidentate come un coltello seghettato, irregolari e belle, così strafottenti e segrete con le loro storie che appartengono a un altro territorio, fatto di una parlata e leggende diverse, che oggi sembra tutto vicino ma un tempo, a piedi e con gli animali, erano giorni di viaggio, notti all’addiaccio, luna e stelle sulla testa, respiro di freddo del vento di notte. Intanto il tramonto si fa rosa, arancione, viola indaco.

La strada provinciale 71, i patriarchi di Pratofosco: tre vecchi figuri che noterai per la saggia imponenza, li incontrerai seguendo il sentiero dopo una quarantina di minuti. Immersi nel silenzio, Castagno di Pratofosco, Faggio degli Stefanelli, 180 anni stimati, e Castagno del Volpiglione, albero monumentale della venerabile età fra 500 e 600 anni. Tu pensa, aver vissuto e sentito sulla pelle cinquecento inverni, essere morti cinquecento volte e rinati in estate, provato di nuovo le mille foglie che ti riempiono le braccia di verde e aver detto addio per cinquecento autunni, mentre tutto il mondo cambiava e lentamente scompariva. Lì vicino il piccolo oratorio di Boccaia, una preghiera nel silenzio, e giù sempre più dopo la curva ecco la frazione di Chiozza, con la torre campanaria nel centro del borgo e il fiume Esarulo, sull’antica via Vandelli, dove era un castello che oggi non esiste più e già nel 952 si menzionava questo centro abitato che ancora sopravvive. A Mozzanella, che nel Seicento venne distrutto dagli Estensi con un incendio, scorre il torrente Corvino e gli atti dell’archivio arcivescovile di Lucca raccontavano di un eremo di frati agostiniani. La montagna, il profilo delle rocce. Terra, prati infiniti che cambiano colore durante le stagioni dell’anno; boschi, alberi, case di pietra e legno, il ritmo lieve di una pace secolare. Dopo Castiglione di Garfagnana, incastonato su un contrafforte fra castagni e faggi, il ponte medievale dei Molini, un arco a sella d’asino nel verde del dirupo, visto dall’alto.

Castelnuovo di Garfagnana è a qualche chilometro, sempre dritto, tu vai a destra, direzione Aulla. Si cammina in bilico in un magico incrocio fra Garfagnana e Lunigiana, là dove fra poco si aggiungerà, a poca distanza, un’altra provincia ancora: La Spezia. La regione Liguria e i suoi borghi sono lì, tu non lo pensavi possibile invece sei a un centinaio di km da Modena e ottanta da La Spezia. Pieve Fosciana, Pontecosi, Villetta, Sillicagnana, San Romano in Garfagnana e Fortezza Verrucole, con la passeggiata che guarda tutto dall’alto, e poi Piazza al Serchio, con la locomotiva al centro, proprio lì in mezzo alla strada e alla piazza, una locomotiva a vapore memoria delle ferrovie – vennero costruite cinquanta locomotive come questa fra il 1922 e il 1923 – che una volta prestava servizio sulla linea Aulla Lucca connettendo Valle del Serchio, nel versante della Garfagnana, e Valle dell’Aulella, Lunigiana. Intorno castagni, faggi e cerri, è il Parco Naturale dell’Orecchiella, dove si nascondono cervi e caprioli.

Nella località Rimessa di Agliano, proseguendo lungo la provinciale 51, ecco che ti affacci sul Lago di Gramolazzo. Insieme al Lago di Vagli, famoso per essere il paese sommerso, si tratta di un bacino artificiale creato nel Novecento per lo sfruttamento di energia idroelettrica da parte della SELT Valdarno, oggi Enel. Ci sono le canoe sul Lago di Gramolazzo, si pesca e si nuota. La mattina inizia pigra, con la passeggiata sul bordo lago e la spiaggia di sassolini, fra le dita dei piedi pesciolini che guizzano via leggeri. A parte il camping c’è una piccola spiaggia libera all’inizio del paese. Se giri l’angolo, proprio prima del ponte, c’è il piccolo bar di Vittoriano che fa anche da osteria. Mentre aspetti da bere guarda a destra e vedrai, appesa al muro, una fotografia in bianco e nero incorniciata. Facce felici, giovani e rotonde, piatti di spaghetti: è il 31 dicembre del ’64, il primo giorno in cui si inaugurava il ristorante, in occasione del matrimonio di una cugina. Anche se in realtà è da ancora prima che si dà da bere e da mangiare perché c’era già un negozio di alimentari negli anni Trenta, era del nonno di Vittoriano, il papà della ragazza che si vede nella foto e ora è di là in cucina, seduta in questo luglio di cinquant’anni dopo, a guardare la vita che passa. Fuori, nel giardino inselvatichitico dal tempo, due mosche legnaiole dalle ali azzurre e un macaone, quelle farfalle dalle ali bellissime con i disegni geometrici bianchi, gialli e neri. L’odore forte della menta selvatica invade tutto: ce ne portiamo via qualche radice e vediamo se nascerà.

A Gabicce Mare

in uno spazio tempo a metà via fra Cesenatico degli anni Ottanta e i matrimoni lampo di Las Vegas vive
Gabicce

a Gabicce non si dorme mai e si mangia a stento,
i “ciucciamonetine” sono alti un metro e mezzo o poco più,
conoscono bagnini e baristi, con cui hanno traffici segreti: è tutto uno scambiarsi soldini e monetini per avviare i temibili giochi, che sono
ovunque. Impossibile andarsene dalla spiaggia: bimbi! esclama il piccolo viaggiatore con il dito puntato
e del mare chissenefrega

il centro del mondo è la spiaggia,
giochi: giochi è la prima parola con cui ci si sveglia la mattina e mentre si aprono gli occhi suona imperioso un monito interiore:
là, fuori
fuori. Giochi!

C’è il camper di Adriano al bagno 28, si narra che quando arrivò i piccoli viaggiatori intergalattici facevano la fila. Me lo dice il bagnino Francesco, che per passione legge grossi volumi di economia in lingua inglese all’ombra. Al sole delle due resistono solo le signore più abbronzate, indefesse con il cappellino sulla fronte: loro, quelli piccoli, non si arrendono

scotta la sabbia? no
correre! dicono, e se ne vanno correndo mentre i grandi si salutano in fretta e lasciano i discorsi a metà.
Abbiamo tutti gli stessi giocattoli, molto simili, cambiano i colori e qualche forme. TrattoLe! I trattori sono i preferiti, ruspe, palle che il vento disperde continuamente e
ovviamente, secchiello e paletta.

Sono oggetto di lunghe contrattazioni fra i più piccoli, secchiello e paletta. Una palestra con cui i più volenterosi imparano, e insegnano, l’uso dei possessivi e della filosofia politica: mio, tuo, suo, condivisione, riappropriazione, appropriazione indebita, prestito, riscossione etc. Gli stronzi di solito iniziano a intuirsi già a questa età, hanno modi di fare che rivedrai a diciotto o quarant’anni, solo con più rughe.

Ma a volte è da un graffio e uno spintone che nasce un’amicizia. Perché tu, che cammini su questo pianeta da un po’, te ne andresti. Invece loro no: i giovani viaggiatori dello spazio, neo neanderthaliani, stanno ripercorrendo la storia dell’umanità in breve. Sono convinta che sia un’informazione impressa nel DNA, esce allo scoperto all’inizio del viaggio sulla Terra. Mio! No! Tu! IO! dicono “io” per dire “tu” e “tu” per dire “io”, si lanciano urli e danno spintoni, ma poi tornano, proprio come preistorici Neanderthal ribadiscono le posizioni, le discutono, si guardano dritto negli occhi, si lanciano sabbia e si depistano, si perdonano, si baciano, si odiano, si fanno la guerra e fanno pace

e poi te ne vai, un po’ più in là.
C’è il bagno Marisa al 23, dove incontri il gruppetto degli amici con cui proprio ti trovi. Succede a ogni età, affinità elettive, qualcuno le chiama, o più semplicemente la capacità di allenarsi a riconoscere quelli con cui ti piace fare gruppo: un esercizio che forse è il più importante di tutti e per tutta l’esistenza. Forse è proprio da questo allenamento che nasce il desiderio e la forza di non accettare passivamente la classe, la scuola, o i colleghi del lavoro ma di andare a cercare le situazioni e le persone con cui sentiamo di star bene; sapere che sì, è sempre possibile trovarle. Soprattutto se continui a camminare ed esplorare, sapendo che è un viaggio, che ti fermerai con qualcuno e non è affatto detto che saremo amici, non possiamo essere amici di tutti: questa è una grande e meravigliosa verità.

Vogliamo appiattire i bambini dicendo ‘sii amico di tutti’, ‘i giocattoli sono di tutti’. Ma tu non daresti la tua borsa o il vestito a cui tieni a chiunque. Dentro, anche se sei alto meno di un metro, intuisci che c’è qualcosa di storto, qualcosa che non torna in queste parole. No, non possiamo essere amici di tutti: bisogna imparare a sentire. E scegliere. E sperimentare, vivere, metterci alla prova. Curiosare. Uscire dal proprio spazio e vedere che effetto fa. Provare a giocare insieme, sbirciarsi a vicenda.

C’è Luca che ha cinque anni, anzi sei, ma non so quando sono nato in ogni caso o venerdì o sabato o domenica perché al mio compleanno è sempre festa, c’è Maria Sole che è sua sorella e di anni ne ha tre e Anastasia, la grande, che ne ha nove e suo papà, bravissimo a costruire piste giganti, che ogni tanto scappa a fumare, quando può – ancora un’altra ? – dice lei e scuote la testa. C’è Ettore che, la sua mamma sospira, spero si stanchi e vada a dormire. E poi Domenico che ha il costume con i teschi e gli occhi azzurrissimi: sono in quattro fratelli, ognuno distante cinque anni dal precedente o successivo. E poi Simone, che passerebbe la vita su uno scoglio o in acqua a nuotare come un pesce.

Tutti festeggiano le pagelle, comunque sia andata, e l’inizio di una nuova stagione dell’anno e della vita: le vacanze, desiderio di un anno intero. In barba alle preoccupazioni su ragazzini curvi sugli schermi, a Gabicce mare impera, incontrastato, il vecchio gioco delle biglie

le biglie sono palline di plastica colorata con dentro un’immagine, una figurina di carta diversa così ognuno può riconoscere la sua. Ogni giorno si fanno piste immense, dotate di tunnel, salite, discese ardite e fossati: questo impegna all’incirca tutta la mattina; poi si svolge la gara di biglie. Subito dopo è l’atto finale di distruzione perché le buche vanno richiuse altrimenti una persona può cadere e si rompe una gamba, soprattutto i vecchi, e poi il bagnino si arrabbia: questo lo sanno tutti i bambini. Per i più piccoli una delle cose più difficili da capire è perché alla cura estrema a non rompere mura e parapetti e tunnel in un attimo si sostituisca la furia cieca della distruzione. Tant’è, succede anche nella vita. E di solito, in spiaggia come nel quotidiano, solo chi ha costruito ha il diritto di rompere: diritto che si accaparrano i più grandi, che tanto si sono impegnati con secchi, sabbia, leganti e leggi dell’architettura dei ponti.

ogni giorno è diverso, ma solo se lo vuoi. Perché
se non fai programmi e ti lasci portare dalle sensazioni
può darsi che ieri ti farai un caffettino e uscirai tardi, senza orologio finendo per tornare tardissimo, al tramonto, con un cartoccio di spiedini di gamberi e calamari, la sabbia fra le dita dei piedi e ovunque, la pelle rossa di sole e appena il tempo di fare una doccia prima di addormentarsi
oggi hai lasciato aperta la tapparella e ti sei alzata presto, beato chi ama svegliarsi all’alba e cammina nella spiaggia ancora umida fra i colori che dipingono l’inizio del mondo

domani non sappiamo che sarà,
non lo sappiamo mai a dire il vero solo che cerchiamo di darci orari, tempistiche, programmi,
giusto per star tranquilli
giusto per occupare il tempo

e ci perdiamo il gusto,
il gusto di vivere attimo per attimo, che
ogni attimo ti dice di cosa c’è bisogno in questo momento
proprio questo, adesso e qui

tutto questo sembra estate, ma è ancora primavera,
gli ultimi giorni di primavera
a Gabicce Mare.

Cosa fare nel non-fare

Il non-fare è un’attitudine zen, un esercizio di vita.

Accade in una mattina qualunque. Mi siedo.
Tu spegni la musica ed è una buona idea.
Il silenzio.

Nel silenzio accadono magie, come nell’ora del silenzio,
quando il sole è a picco e la luce è così forte da fermare il mondo
per un attimo
tutto si placa.

Cosa fare nel non-fare: di come un momento di contemplazione si trasforma meditazione e fermando il tempo sentire la vita e sentendo la vita scoprire cosa vogliamo farne

La meditazione non è immaginazione, dicono.
Al tempo stesso, tante tecniche di meditazione indicano un suono o un’immagine come stimolo da cui partire.
La mente ha bisogno di un focus.
Focalizzare, mettere a fuoco, e nel mettere a fuoco, come nel gesto di chi muove la rotella di un binocolo, entra in gioco il mettere limiti che è necessità visiva. Decido cosa voglio vedere, restringo il campo. Mi con-centro, entro nel cerchio: ci faccio un salto dentro e mi immergo.
Focalizzare implica mettere un limite, trovare dei confini.
.
Anticamente, i sacerdoti e astronomi del mondo etrusco, tracciavano dei gesti nel cielo con il loro bastone sacro. Quella porzione ritagliata dallo spazio del cielo diventava uno schermo dove leggere gli auspici, buoni o cattivi. Si sa molto poco, in verità, di questa civiltà avvolta nell’ombra, eppure è da lì che viene la parola “contemplazione”.

Quando l’Oriente medita, l’Occidente contempla

Immagino un uomo, in piedi davanti al cielo. Inspira, espira. Resta assorto.
In attesa. In attesa di un segno.
Si fonde, per un attimo. Poi torna in sè. fa un passo indietro.
Lui è l’osservatore che osserva la scena. Il messaggio si sprigionerà
all’improvviso, quando ormai non ci stavi più pensando.

Originariamente, la parola contemplazione ci porta al fermarsi: il momento in cui mi fermo è un istante catartico.
Contemplare è anche il gesto solitario di un pastore con la schiena appoggiata a un tronco, con il bosco che lo abbraccia e davanti il gregge che si muove nel riverbero del sole, su un prato infinito. Chiude gli occhi per un attimo, lui. Succhia un filo d’erba.
Inspira, espira.

I pensieri scorrono attraverso la testa, sono mille campanelli che suonano, è una radio piena di voci che non sta mai zitta.
Continua a respirare. Passano i pensieri d’amore e quelli sulla morte, passano i pensieri sulle cose da fare e quelli sull’infelicità o la felicità, scorrono via: sono pesci in una piccola boccia angosciante se ti ci fermi troppo a lungo, sono pesci che guizzano in un oceano immenso, se li vedi e li lasci andare E mentre dico “oceano” e “vasto” anche il respiro si dilata e mi sembra che anche il cuore abbia più spazio, dentro ai polmoni si fa spazio un mare di luce grande e quieto.

Un pensiero che fa paura, o che angoscia, è come un piccolo crampo. Si sente subito, laggiù da qualche parte in fondo al cuore o alla pancia, dentro allo sterno, come un sasso in un piede o la spina di una rosa conficcata nella carne.
Ha un peso specifico importante anche se è piccolo, ogni pensiero d’angoscia.
Esiste, esiste anche questo
paura, angoscia, morte

poi quel pesce scuro e ingombrante, fila via
anche se lo trattenevi con le mani se n’è andato
lontano, ora lo guardi dall’alto
solo una piccola sardina in mezzo a un branco immenso, ecco cos’era

c’è così spazio, fra un pesciolino e l’altro
se mi concentro su quello, sullo spazio
vedo l’acqua
sento l’onda
immensa,
senza limite

è una corrente che trascina,
come il respiro

dentro e
fuori,

come in mare, nell’aria
la corrente entra
onda,
dalla testa ai piedi mi sommerge,
attraverso ogni arteria
va
l’ossigeno
un fuoco che brucia,
pervade di energia
mi illumina