9 novembre

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Nove novembre 1944, liberazione di Forlì,
mia nonna paterna, che non ho mai conosciuto, portò con sé un prosciutto per nutrire i suoi cari (mio nonno, mia padre e mia zia) durante lo sfollamento. Tutti avevano fame, ma in campagna trovarono sempre qualcosa da mangiare, e mia nonna fu inflessibile nel difendere il prosciutto: quello sarebbe servito solo nel momento peggiore.
Il fronte si avvicinava, ma il momento peggiore poteva sempre essere il giorno dopo.
Alla fine il fronte passò… il momento peggiore non arrivò mai, o forse arrivò e mia nonna non lo seppe riconoscere.
Il prosciutto andò a male. Lieto fine e forse una morale da imparare da questa storia.

La foto qui fu scattata da un membro dell’equipaggio di un B-26, un certo Croote, sudafricano.
La casa dove sarei nato anni dopo, al Foro Boario di Forlì è sotto la nuvola bianca (al centro) sollevata dalle bombe appena cadute, ma i miei, e il prosciutto che andò a male, erano sfollati a qualche chilometro di distanza.
Luca Pazzi

10 giugno

“Il 10 giugno 1940 era un bel giorno di primavera, quasi estivo. Probabilmente la dichiarazione di guerra, che Mussolini avrebbe proclamato dal fatidico balcone di Palazzo Venezia e che venne trasmessa via radio, era già stata annunciata preventivamente. Mio padre, infatti, aveva trasferito la radio, di marca CGE nel nostro cortile interno per poterla fare udire anche alle famiglie dei Rossi e dei Sacchetti, che non la possedevano e le cui finestre si affacciavano sul cortile stesso. A pomeriggio inoltrato si sprigionò dall’apparecchio, al massimo del volume, la voce del duce che soverchiando e azzittendo il coro degli evviva dei tanti accorsi nella piazza, annunciava che erano state consegnate le dichiarazioni di guerra alla Gran Bretagna e alla Francia e che di conseguenza il conflitto era di fatto iniziato. Esordendo con l’ormai famoso e fatidico incipit: “Combattenti di terra, di mare, dell’aria, Camicie Nere della rivoluzione…ascoltate: l’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria, l’ora delle decisioni irrevocabili”. Al momento di menzionare i due nemici Gran Bretagna e Francia si levò dalla folla plaudente un “booooh” come quello che ora è di grande attualità negli stadi calcistici, rivolto a qualche sfortunato giocatore di colore. Ma, mentre dall’apparecchio radio giungeva un prolungato e fragoroso applauso misto a grida di approvazione, dalle finestre dei Rossi e dei Sacchetti non pervenne nessun commento. Mio padre rimase silenzioso e assorto mentre gli occhi di mia madre e di mia nonna si appannarono in un accenno di lacrime trattenute. Da poco più di vent’anni era terminata la Prima guerra mondiale: sia per mio padre, che l’aveva vissuta in prima persona al fronte, sia per mia madre e mia nonna che avevano trepidato per fratelli e figli gettati nella mischia: il ricordo era ancora troppo cocente per poter accettare con gioia una nuova carneficina. Ora cominciava un rinnovato tempo di angosce per nipoti, parenti, amici, che presto sarebbero partiti per i vari fronti e se fortunati sarebbero rientrati solo dopo cinque lunghi anni. La dichiarazione di guerra non giunse certamente come un fulmine a ciel sereno. Già da tempo ne erano apparsi i primi sintomi premonitori. Dopo la collaudata autarchia e le disposizioni dell’Unione Nazionale Protezione Aerea per la creazione dei rifugi antiaerei, già nel mese di febbraio era entrata in vigore la carta annonaria, con tutte le relative restrizioni alimentari e di generi di primo consumo. Credo che fosse operante anche l’ammasso obbligatorio e le due cose contribuirono subito alla creazione di un fiorente mercato nero. Era iniziata l’era del surrogato. Si surrogava tutto: il caffè era sostituito con orzo, ceci, cicoria, e fagioli; il carcadè del Setif, ignobile intruglio rossastro, aveva la presunzione di sostituire il tè che peraltro, essendo una bevanda tipica della perfida Albione, non era particolarmente apprezzato. Al cioccolato subentrava la nonna della Nutella fornita sempre dalla Ferrero, ma a base di sole nocciole, carruba, e qualche altro additivo per aggiungere colore e sapore. Purtroppo, quello che rimase originale fu l’infernale “Ferro-China Bisleri” amarissimo ricostituente che mia madre mi obbligava a ingurgitare perché “mi faceva crescere bene”. Fortunatamente fui preservato dall’ancor più infernale olio di fegato di merluzzo, il cui ricordo è rimasto negli incubi di tanti miei coetanei. Il cuoio per le suole, riservato ai militari, ma spesso neppure a loro, era sostituito da una specie di cartone pressato, dal sughero e anche da vecchi copertoni di auto e moto riciclati e ovviamente super consunti. La lana era diventata poi lanital mentre su suggerimento della sarta Spagnoli molti si erano gettati nell’allevamento dei conigli d’angora che, prima di chiudere la loro esistenza gloriosamente in padella, fornivano una morbida lana. Per le signore e signorine le calze di seta si erano trasformate in un mito, si dovevano accontentare di quelle di rayon,materiale, che pur avendo la mia età, fino allora non aveva goduto di grande fortuna, ma per forza maggiore divenne di moda per quel determinante capo di abbigliamento femminile. All’epoca nessuna donna avrebbe mai osato presentarsi in pubblico, anche in piena estate, senza calze. Considerato che non erano ancora state inventate le calze tubolari, la tecnica di fabbricazione contemplava una lunga riga di giuntura che seguiva posteriormente tutta la lunghezza della gamba. L’ossessione della riga dritta era costante tra tutte le donne. Non era, infatti, difficile vedere signore e signorine, di spalle a una vetrina, controllare la riga nel riflesso dei vetri. Per quanto riguarda la riga verso la fine del conflitto, quando ormai non erano più reperibili neppure le calze in rayon, molte donne si facevano disegnare sulla gamba nuda una lunga riga, per dare l’impressione d’indossare calze regolari con le famose scarpe ortopediche. La carne, anch’essa contingentata, veniva distribuita a piccole dosi e le macellerie chiudevano nei giorni di mercoledì, giovedì e venerdì e negli stessi giorni non poteva essere servita nei ristoranti. Lavoravano le tripperie, dove si poteva trovare solo trippa e la macelleria di bassa scelta, che distribuivano le interiora degli animali come fegato, cuore, milza, polmoni e anche carne di animali non macellati secondo le regole, ma morti per malattia o infortuni. Le severe regole sanitarie, con cui conviviamo oggi, allora non albergavano neppure nei sogni”

Domenico Alvisi
“Storia minima di un balilla mancato” (Pendragon)

24 maggio

La guerra era iniziata il 28 luglio ’14. La primavera dopo, il 24 maggio 1915, l’Italia entra in guerra. Gli austriaci, in attesa da settimane, sferrano un attacco. Il primo a essere colpito è Timau, villaggio della Carnia sulle Alpi. Diverrà il fronte di una strenua resistenza contro l’avanzata austro-ungarica. Manca tutto. Penosamente, la vita in trincea si trascina giorno dopo giorno. Il comando chiede aiuto alla gente del posto: lì intorno, nei borghi di pietra nascosti nel cuore della montagna, sono rimaste le donne, con i bambini e i vecchi.

E loro arrivano. Impavide, dritte sui sentieri di montagna con una gerla di vimini sulle spalle, le donne arrivano fino alle trincee. Portano cibo, medicine, munizioni. Le portatrici carniche scalano le montagne, non le ferma né il sole né la neve e tantomeno la paura. Al ritorno spesso il carico è ancora più pesante perché trasportano fino ai paesi, giù a valle, i corpi dei feriti, o di chi ormai aspetta solo una sepoltura.

Nel 1973 Maria Plozner Mentil e a tutte le Portatrici della Carnia verranno insignite del cavalierato

1 febbraio 2021, colpo di stato in Birmania

In Myanmar c’è un colpo di stato. Su Wikipedia hanno già creato una nuova pagina,
Colpo di Stato in Birmania del 2021
“è stato un colpo di Stato militare messo in atto dalle forze armate birmane la mattina del 1º febbraio 2021 per rovesciare il governo di Aung San Suu Kyi, che è stata arrestata” (e attualmente non si sa dove sia)

Nel frattempo sul viale principale della città una ragazza fa lezione di aerobica. C’è da dire che in Asia è frequente (con grande stupore di noi occidentali). Accade ovunque, di solito la mattina e al tramonto. Qualcuno arriva, in un parco o in una piazza in cui lo spazio lo permetta, e accende uno stereo collegato a una cassa: inizia l’ora della ginnastica e chiunque, gratuitamente, può unirsi.
In questo caso la lezione diventa virale. Perché sulla stessa strada dove Khing Hnin Wai, insegnante di aerobica, si muove a ritmo di musica iniziano a passare i convogli militari.
Il golpe è in atto. Il video riprende.

Essere proprio lì, nel posto giusto al momento giusto.
Là dove accade la Storia.
E non vederla.
Suona ironico. O magari notare qualcosa fuori posto con la coda dell’occhio ma non farci poi troppo caso, quante volte succede.
La realtà ci avvisa e invece andare oltre, proseguire come niente fosse.
E intanto niente è più uguale, ma tu fai finta che sia un giorno come un altro.
Ignori i rumori e anche il tuo sesto senso che ti direbbe di muoverti, fare qualcosa.
Agire un gesto imprevisto invece di rispettare il programma.

Uscire dalla zona di comfort a volte è anche questo, il coraggio di interrompere il programma
e agire. E per farlo, guardarsi intorno e chiedersi che cosa accade nel mondo, intorno a noi.

Perché in fondo non c’è maggior cecità che vedere solo ciò che accade a noi stessi

21 aprile

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È l’alba del 21 aprile 1945. Nelle prime ore del mattino la città di Bologna si sveglia con il rombo dei carri armati che attraversano le strade. Sono le unità alleate del 2°Corpo Polacco dell’8a Armata Britannica, della Divisione USA 91a e 34a, i Gruppi di combattimento Legnano, Friuli e Folgore e la brigata partigiana “Maiella”.
Non avranno bisogno di sparare un colpo, Bologna era già libera.

Nel corso della mattinata i bersaglieri del battaglione Goito percorrono via Rizzoli fra gli strepiti della folla, mentre nel pomeriggio entrano nelle mura le Brigate partigiane Giustizia e Libertà di Montagna e 7a Modena.
La notte prima fascisti e tedeschi, su ordine del generale Von Senger, abbandonano la città. Mentre fuggono i tedeschi si lasciano alle spalle i cadaveri di Sante Vincenzi e Giuseppe Bentivogli, abbandonati nelle campagne e ritrovati il giorno dopo. Sorpresi dagli attacchi della 2a Brigata “Paolo” Garibaldi nei pressi di San Giorgio di Piano, nella ritirata verso nord furono in molti a morire, tedeschi e partigiani.

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Bologna dopo il bombardamento aereo del 25 settembre 1943
Bombardiere B17 americano
Bombardiere B17 americano

Di bengala ne ho visti pochi, ma quando è capitato ho rilevato la loro grande capacità di illuminare il cielo quasi “a giorno”. “Pippo” era un piccolo aereo che di notte volava seminando paura fra i tedeschi e i civili. Quando si sentiva di sera il suo caratteristico rumore si spegnevano le luci e si rimaneva chiusi in casa. Nemici di Pippo erano i riflettori che con il loro fascio di luce potevano renderlo visibile bersaglio per le contraeree. Né i bombardieri, né i caccia, né Pippo si interessarono mai della Tombazza

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Ala distrutta di Palazzo d’Accursio dopo i bombardamenti del 1943
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Biblioteca dell’Archiginnasio: Bologna, 29 gennaio 1944

Spesso comparivano in cielo i caccia che potevano mitragliare o lanciare piccole bombe. Quale riparo contro il mitragliamento? Semplice: la trincea a 7, che avevamo naturalmente scavata ben esposta e ben visibile dagli aerei in aperta campagna. Ma in quale parte si doveva stare? In quella perpendicolare o in quella nella direzione dell’aereo? Si discusse fra noi bambini di questo e non ricordo se chiarimmo il dubbio
Tratto da Ricordi della seconda guerra mondiale

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Chiesa del Sacro Cuore di Bologna nel 1944

“All’ippodrono ci sono le corse domani”, sembra fosse questo il segnale trasmesso dalla BBC sull’attacco diretto alla città da parte alleata e la repentina risposta italiana: era il 10 aprile 1945

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Basilica di San Francesco a Bologna
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Bombardamenti sulla stazione di Bologna

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Le immagini della liberazione di Bologna

Un sax in cambio di una cinepresa: la figlia di Luciano Bergonzini racconta di suo padre, che da ragazzo suonava il sassofono e il giorno della liberazione porta lo strumento con sé. Lo darà a un soldato americano che in cambio gli consegna una cinepresa. Le istantanee raccolte da Luciano Bergonzini insieme alle fotografie di Ansaloni saranno le uniche immagini di quel 21 aprile 1945, rimasto nella storia per la liberazione di Bologna.

Siamo liberi

Dai fascisti veniva lugubremente chiamato il “posto di ristoro dei partigiani”: lungo il muro esterno, sulla scalinata di fronte al Nettuno, venivano fucilati i combattenti per la resistenza e lì le donne iniziarono a portare mazzi di fiori. Nello stesso luogo, di fianco a quello che oggi è l’ingresso della Biblioteca cittadina Salaborsa, è il Sacrario dei partigiani.

All’epoca Piazza Maggiore era Piazza Vittorio Emanuele II. Quando arrivano le truppe alleate i partigiani controllano tutti i punti nevralgici cittadini e hanno già preso possesso di Prefettura, Questura, Comune, Pirotecnico, del carcere e delle caserme. Onorato Malaguti, che in seguito diventerà primo segretario generale della camera del lavoro, alla testa di un corteo arriva fino a Piazza Maggiore, sale su un tavolino da caffè salutando i concittadini: “I nazifascisti sono stati cacciati e non ritorneranno mai più. Ma se Bologna è libera non è così per tutta l’Italia. La guerra deve continuare contro i tedeschi e i fascisti fino alla loro completa sconfitta”.

Liberazione di Bologna nella pellicola di Edo Ansaloni, archivio Rai

“The Forgotten Front”, il fronte dimenticato

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In occasione del 75esimo anniversario della Liberazione esce “The Forgotten Front” di Paolo Soglia e Lorenzo K. Stanzani sulla Resistenza a Bologna, prodotto da Orso Rosso Film con il sostegno della Regione Emilia-Romagna Film Commission. Il film è stato realizzato con preziosi materiali d’archivio inediti, patrocinato da Comune di Bologna, Cineteca di Bologna e sponsor Hera. Vista l’eccezionale situazione di questa primavera in quarantena a causa dell’emergenza Covid-19 la visione al cinema si trasferisce direttamente a casa.

“The Forgotten Front”, il fronte dimenticato, racconta le fasi della guerra dal ’43 al ’45 sulla linea Gotica, l’occupazione tedesca della città durante la Repubblica di Salò e la lotta di Liberazione. Il titolo, The Forgotten Front, riprende un’espressione utilizzata dal New York Times in data 11 dicembre 1944, quando l’avanzata alleata in Italia si ferma a causa dell’inverno: la Resistenza italiana è sola a combattere i nazifascisti. Il documentario è stato realizzato con filmati d’epoca e una lunga indagine fra archivi italiani e stranieri. Per ovvie ragioni rarissimo il materiale dei GAP, di cui si tenta di riscostruire la storia e le azioni.
Le riprese dei bombardamenti e della Liberazione sono quelle realizzate dal giovane cineamatore Edo Ansaloni. La colonna sonora originale di Marco Pedrazzi è stata eseguita dall’orchestra del Teatro Comunale di Bologna.

“The Forgotten Front” sarà in streaming su MYmovies da martedì 21 a sabato 25 aprile 2020. È possibile acquistare il biglietto online al costo di 3 euro, sarà valido per 24 h.

Qui è possibile acquistare il biglietto per la visione del film “The Forgotten Front”

Storia e memoria di Bologna

Quando si udiva il rumore delle formazioni aeree le vedevo poi apparire da Est e potevo seguire il loro procedere ordinato, sia pure sempre con timore che cadesse qualche bomba. Il monotono rumore dei numerosi motori, che ricordo ancora, unito al pensiero che andavano a bombardare, annunciava pessime notizie. Al loro passaggio si accompagnava spesso il lancio di pagliuzze argentate che noi bambini raccoglievamo e che poi imparammo che servivano per ingannare i radar. Quando i bombardamenti avvenivano su Bologna, a poco più di 20 km da me, avvertivo confusi i rumori degli scoppi delle bombe e di sera vedevo anche i lampi e il cielo tinto di fuoco

Sul sito Storia e Memoria di Bologna, creato intorno al Museo Civico del Risorgimento con sede espositiva a Casa Carducci, è possibile sfogliare i giornali dal 1915 al ’44, mese per mese, e visionare le collezioni digitali sulla Grande Guerra.

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21 aprile 1945, Molino Parisio a Bologna (Ansaloni) Gli scatti sono immagini tratte dal progetto “Storia e Memoria di Bologna”, visibili sul portale, e sono proprietà dell’archivio del Museo del Risorgimento di Bologna | Museo della Certosa

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Piazza di porta Ravegnana a Bologna
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Liberazione di Bologna: piazza Maggiore
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Via Rizzoli, 21 aprile 1945

Vuoi approfondire? Qui una bibliografia sulla seconda guerra mondiale a Bologna suggerita dalla Biblioteca Salaborsa

Qui alcune tracce per lo studio della seconda guerra mondiale anno per anno

Per camminare nella storia di Bologna e studiare la seconda guerra mondiale passo dopo passo…
Museo Memoriale della Libertà – San Lazzaro di Savena (BO)
Museo Civico del Risorgimento – Bologna, Piazza Carducci 5
Museo della Resistenza – Istituto Parri, Bologna

Ricordo di Rocco Antonio Messina, medico e poeta

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Di Luca Pazzi

 

Io la polmonite l’ho già avuta a 13 anni. Ricordo ancora oggi la sensazione di malinconia che provavo la sera con la febbre nella penombra della mia camera, ancora oggi ricordo proprio quei momenti nel letto e i pensieri che affollavano la mia testa, pensieri di dolce malinconia, anche se ero ancora poco più che un bambino.

Decisiva fu la diagnosi di Rocco Antonio Messina, medico del Dispensario che stava per essere chiuso, essendo la tisi a quel tempo praticamente debellata. Ricordo che andammo a fare una lastra nello studio che aveva presso questa struttura e dopo poco la lastra fu sviluppata, lui la mise su una superficie luminosa e puntandolo con la parte terminale della pipa ci indicò subito un puntino nero piccolissimo, il focolaio dell’infezione appunto. A quel punto iniezioni su iniezioni di antibiotico e bistecche su bistecche che mia madre mi costrinse a mangiare e dopo un po’ ne uscii. Il dottor Messina poco dopo divenne il nostro medico di famiglia che non cambiammo più.

Rocco Antonio Messina era una persona gioviale e non si curava molto del protocollo, era noto per dare del tu allegramente a tutti nelle telefonate di lavoro e nella vita. Ciao caro, ciao cara. Mi piaceva, sempre con la pipa in bocca ovviamente spenta durante le visite. Qualche anno dopo notai che aveva un candelabro nel suo studio, visibile ma non certo esibito. Poi seppi che era un candelabro ebreo, anche mio padre lo aveva notato e ne avevamo parlato.

In occasione della sua morte venni a sapere dai giornali la sua storia, che era incredibile e che egli stesso tenne nascosta per molti anni. Nato a Polistena, un paesino della Calabria sulle prime pendici dell’Aspromonte, catturato dai tedeschi e poi fuggito per miracolo poco prima dello sbarco alleato in Sicilia, fuga in cui una sua coetanea rimase uccisa dal fuoco dei tedeschi. Come poi arrivò a Forlì non lo so, e anche il documento di cui sono entrato in possesso non lo dice. Scopro solo oggi che era anche un poeta, ovvero passò molti anni celando nella poesia quell’esperienza terribile, e mi pare dal documento che vi allego che ne prese coscienza proprio negli anni in cui mi diagnosticò la polmonite.

Queste poesie non le conoscevo, cominciò a pubblicarle proprio in quegli anni. Una mi ha particolarmente colpito, penso faccia riferimento a un momento della fuga.

La casa di pietra

Lassù è la casa di pietra
-mi disse un verme
col marchio di fabbrica giallo
cucito sul petto di scheletro- dove viveva l’uomo del pascolo;
mi ha dato l’acqua e il latte e la pietà buona degli occhi.
Essi lo videro
lungo il costone,
con voci rauche
gridarono all’appestato;
ed egli mi diede latte,
ed essi gridarono al mostro ed egli mi diede acqua.
Lassù è la casa di pietra l’uomo del pascolo
mi diede la voce umana.
Essi lo uccisero.

1976, da Menorah, Forlì, Forum, 1982, p. 17.

Per chi fosse interessato la sua storia e altre poesie di Rocco Antonio Messina sono a pagina 31 di questa edizione speciale del Bollettino dell’Ordine dei Medici della Provincia di Forlì-Cesena.

Dopo ogni guerra, ovvero la fine e l’inizio in una poesia di Wisława Szymborska

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Aleppo, Siria, scatto di Karam Al Masri, fotografo e videogiornalista

Dopo ogni guerra
c’è chi deve ripulire.
In fondo un po’ d’ordine
da solo non si fa.

C’è chi deve spingere le macerie
ai bordi delle strade
per far passare
i carri pieni di cadaveri.

C’è chi deve sprofondare
nella melma e nella cenere,
tra le molle dei divani letto,
le schegge di vetro
e gli stracci insanguinati.

C’è chi deve trascinare una trave
per puntellare il muro,
c’è chi deve mettere i vetri alla finestra
e montare la porta sui cardini.

Non è fotogenico
e ci vogliono anni.
Tutte le telecamere sono già partite
per un’altra guerra.

Bisogna ricostruire i ponti
e anche le stazioni.
Le maniche saranno a brandelli
a forza di rimboccarle.

C’è chi con la scopa in mano
ricorda ancora com’era.
C’è chi ascolta
annuendo con la testa non mozzata.
Ma presto
gli gireranno intorno altri
che ne saranno annoiati.

C’è chi talvolta
dissotterrerà da sotto un cespuglio
argomenti corrosi dalla ruggine
e li trasporterà sul mucchio dei rifiuti.

Chi sapeva
di che si trattava,
deve far posto a quelli
che ne sanno poco.
E meno di poco.
E infine assolutamente nulla.

Sull’erba che ha ricoperto
le cause e gli effetti,
c’è chi deve starsene disteso
con la spiga tra i denti,
perso a fissare le nuvole.

Maria Wisława Anna Szymborska
Traduzione di Pietro Marchesani

“La fine e l’inizio” è una poesia di Wisława Szymborska, premio Nobel nel 1996. Nata a Kórnik il 2 luglio 1923, morirà nel sonno il primo giorno di febbraio del 2012 a casa sua, nella città di Cracovia, dove trascorre tutta la sua vita.

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Aleppo, Siria, scatto di Karam Al Masri, fotografo e videogiornalista
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Il ponte di Mostar dopo la guerra
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Varsavia distrutta, 1947
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Damasco, 2017: fotografia di Omar Sanadiki
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Dopo la guerra: la ricostruzione di Berlino
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Ortona, Italia: dicembre 1943

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