Piccola storia segreta della via Vandelli

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La via Vandelli nasce come collegamento fra Emilia Romagna e Toscana. Oggi da riscoprire a piedi e in bicicletta, nelle sue mappe si nasconde una storia ancora più antica, disegnata dalla vita nei piccoli borghi storici e sentieri di montagna che si perdono fra i boschi.

Quando nasce la via Vandelli?

Quando Ercole, figlio del Duca Francesco III d’Este, sposa Maria Teresa Cybo-Malaspina, duchessa sovrana di Massa e principessa di Carrara, il Ducato di Modena e Reggio trova finalmente il libero accesso al mare. È il 1741. Si pensa immediatamente alla costruzione di un tracciato stradale all’avanguardia in grado di connettere i territori che oggi corrispondono alla provincia di Modena e Reggio Emilia attraverso la Garfagnana fino alla costa, Massa e Carrara.

Ad occuparsene sarà l’abate Domenico Vandelli, cartografo e matematico di corte. La strada si chiamerà via Vandelli, dal nome del costruttore. Tuttavia, l’ideazione della strada ducale modenese per l’epoca rappresenta una sfida non priva di ostacoli perché deve attraversare le montagne dell’Appennino e le Apuane. Il punto più alto della via Vandelli è a 1634 metri s.l.m, in provincia di Lucca, lungo il sentiero Cai numero 35 della Focolaccia-Monte Tambura. Qui, alla fine del borgo montano di Resceto inizia l’ampio sterrato da percorrere a piedi lungo la costa delle montagne fino alla Finestra Vandelli a m. 1424, e al Rifugio Conti, m. 1442. Il percorso è noto anche come Via della Tambura. Il versante garfagnino del passo della Tambura verrà irrimediabilmente modificato dagli scavi per la lavorazione del marmo, infatti questi luoghi dall’Ottocento sono attraversati dalla ferrovia Marmifera, in uso fino agli anni Sessanta del Novecento. Eppure camminando nel tratto apuano della via Vandelli, là dove le teste dei briganti uccisi venivano impalate come monito (di qui il nome della località Le Teste) e ancora più sù, dove la montagna prendeva i viaggiatori in un incantesimo aspro, fatto di silenzi immensi e di una smisurata forza ancestrale, è ancora possibile avvertire le tracce
di una storia scritta da uomo e natura insieme, fra i prati di Acquifreddi (1562m), con la sua fonte perenne, i ruderi poco lontano dai boschi e la vecchia miniera di ferro dismessa prima di arrivare a Vagli di Sopra (679m), dove l’antica strada è stata asfaltata.

Gli ostacoli della Vandelli

Oltre alle difficoltà del territorio, Domenico Vandelli si deve scontrare con i vincoli costruttivi imposti: il costo e le tempistiche. La strada, infatti, doveva essere un progetto capace di superare le difficoltà geografiche e durare nel tempo richiedendo la minima manutenzione possibile. Non solo, come tutte le strade di grande traffico dell’epoca la via non doveva passare in prossimità di centri abitati e soprattutto mai attraversare la Repubblica di Lucca, il Granducato di Toscana, né lo Stato Pontificio.

La costruzione della via Vandelli inizia nel 1738: la strada verrà dichiarata conclusa nel 1751, anche se in seguito continueranno a essere edificate stazioni di posta, ostelli, punti per la sosta dei militari e il pagamento dei pedaggi. I costi sono lievitati rispetto al progetto iniziale e non pochi gli ostacoli che si sono dovuti affrontare, prima fra tutti la geografia. Per realizzare il tratto che sarà noto come Finestra Vandelli si utilizza l’esplosivo, mentre i tratti più ripidi della montagna vengono costruiti con muri a secco e maestranze che Vandelli chiama dal Piemonte. Il tratto più difficile della via Vandelli riguarda proprio il monte Tambura, dove le strade durante l’inverno gelano e la neve ricopre ogni cosa.

Viaggio sulla Vandelli

Nel 1753 entrerà in funzione un regolare servizio di posta settimanale. Spesso bloccata dalla neve invernale, la via Vandelli è percorsa da viandanti e commessi viaggiatori, soldati, briganti, mercanti. Per anni percorsa a piedi e con i muli o a cavallo, dopo gli eventi rivoluzionari francesi e napoleonici cadrà sempre più in disuso.

Negli anni diventa cammino spirituale: presso la piccola chiesa di Campori (alt. 419), dove si si riunivano le carovane e si teneva il mercato, i monaci di San Pellegrino fornivano un servizio di assistenza spirituale per i viandanti insieme a un refettorio attivo per i viaggiatori di passaggio.

Numerose le morti qui fra questi sentieri sulle montagne, quando le nevicate imperversano in gennaio e le lunghe piogge rendono franosa la roccia friabile. Storie della via Vandelli narrano di fantasmi di cui si odono ancora i lamenti, nel silenzio del tramonto infinito.

Uno di queste fole raccontate dai viandanti davanti al fuoco è la storia della Fossa dei Morti, il luogo tetro di una slavina che travolge inesorabilmente una carovana di mercanti in viaggio verso la città di Massa per acquistare il sale: quando si scatena la bufera di neve si rifugiano in una valle trovando la morte nel ghiaccio. Da allora, ogni volta che nevica, si dice che da lontano si avverta ancora lo scalpitare dei muli e dei cavalli, il grido di qualcuno che echeggia.

Fra le insidie del viaggio lungo la Vandelli il cupo spettro del brigante. Avvolto nel suo mantello e con una lanterna in mano come unico chiarore nella notte, narra la leggenda che chiunque lo avesse incontrato sarebbe caduto, spinto giù per i burroni della Tambura, senza possibilità di salvarsi.

Consapevoli dei pericoli e delle insidie che si nascondevano negli spostamenti, ieri molto più pericolosi di oggi, i viaggiatori di un tempo si affidavano a San Pellegrino, santo viandante, forse brigante racconta un’altra fola che si perde nel vento. Il suo corpo riposa insieme alle spoglie mortali di san Bianco nell’omonimo Santuario di San Pellegrino, avamposto medievale sul Passo di San Pellegrino in Alpe, il comune più alto della provincia, diviso fra Castiglione di Garfagnana, provincia di Lucca, e Frassinoro, provincia di Modena.

Aveva scelto il viaggio come vita Pellegrino, santo e brigante; figlio di un re di Scozia, dice la leggenda, aveva rinunciato alla corona per camminare nel mondo, dall’Europa all’Oriente. Chi veniva al santuario un tempo portava una pietra, perché era il peso di una pietra quello che i pellegrini portavano con sé in simbolo di penitenza. Attraverso queste strade fra Emilia Romagna e Toscana, dove una chiesa-ospizio deidcata a San Pellegrino in Alpe è già attestata nel 1110, passava il comemrcio di sale. Una strada ch faceva paura, scoscesa e pericolosa.

Cosa nasconde la via Vandelli?

Era un’antica strada di epoca romana, in uso fino al XVIII secolo ma in gran parte dimenticata per le cattive condizioni in cui versava: la Via Bibulca faceva parte della Via Claudia Augusta e collegava Modena e Lucca attraverso le valli fra i torrenti Dragone e Dolo, fino a San Pellegrino in Alpe, sul crinale dell’appennino tosco-emiliano.

Nota come Via imperiale, la via Bibulca durante l’impero romano veniva percorsa dai carri trainati dai buoi (bulca, buoi, di qui il nome) dei mercanti che si occupavano del trasporto delle merci attraverso queste terre, antico teatro di scontro fra le truppe romane e i Liguri Friniati che un tempo abitavano l’Appennino reggiano, modenese e parte del pistoiese.

Il sentiero Matilde, dalle terre di Matilde di Canossa, si sovrapporrà per un tratto, nel reggiano, a questo antico tracciato, insieme alla via Vandelli e alla via Giardini, che farà cadere in disuso anche la Vandelli, progressivamente dimenticata, oggi da riscoprire in bicicletta e nei viaggi a piedi.

Che ne è di Domenico Vandelli? Considerato inventore delle linee di livello in cartografia, note come Isoipsae Vandelli, riuscirà a mappare la strada da lui costruita utilizzando una nuova rappresentazione cartografica, tuttavia il progetto non gli porterà fortuna. Domenico Vandelli morirà suicida a Modena il 21 luglio 1754, quando il duca, alla consegna, dichiara che la via Vandelli sia la peggior strada mai realizzata.

Passeggiata sulla via Vandelli

Dal passo di Cento Croci passo dopo passo perdersi sulla via Vandelli fra boschi e prati immensi in una giornata di fine inverno, quando i primi germogli trasformano in velluto gli arbusti e il silenzio azzurro del cielo illuminato dal sole fa dimenticare per un attimo il tempo.

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Sulla via Vandelli

Pomeriggio di fine inverno,
quando il sole esplode all’improvviso.
La natura ancora assonnata si sta svegliando,
germogli di velluto sui rami secchi dei cespugli selvatici.

Passo dopo passo,
perdersi sulla via Vandelli.
Silenzio immenso,
il fruscio del vento fra gli alberi.

Ricordo
una vecchia storia tetra
che raccontava di una locanda
qui sulla Vandelli
dove viandanti e commessi viaggiatori
si fermavano lungo il tragitto
fra Emilia Romagna e Toscana E
si mangiava bene,
ma poi succede che dentro il brodo
un frate
trova un mignolo
un dito intero, proprio nella zuppa.
E allora lo avvolge in un fazzoletto, poi
il giorno dopo lo consegna alla gendarmeria che
farà chiudere per sempre quella
locanda sulla Vandelli.
Fortuna vuole che il monaco fosse magretto,
altrimenti nella zuppa finiva anche lui.

Oggi c’è lo scheletro di un vecchio albergo mai ultimato
e cippi, ogni tanto. A ricordare
il tragitto.
Da Cento Croci, con la sua piccola cappella in pietra
a Sant’Andrea Pelago.
Il sentiero è un’ampia strada piatta,
polverosa e dritta.
Si potrebbe camminare fino all’infinito,
un passo dopo l’altro.

Foglie secche, l’eco del silenzio delle
due di pomeriggio,
il sole ancora caldo sulla pelle
per un attimo immobile.
Cane che corre e si butta a pierdifiato tra i prati,
boschi e fossati.
L’ombra del muschio sulle rocce a nord.
Non si sentono nemmeno gli uccelli.

L’ora della giornata in cui tutto si ferma
in inverno dura un momento,
prima che la pelle rabbrividisca di nuovo.
Chiudere gli occhi al sole
nella luce abbagliante.
Il cielo azzurro e la strada deserta,
oltre i faggi
la distesa di prati.
Chissà dove vanno, mi chiedo e
penso alla prospettiva verticale di
una poiana che vede tutto dall’alto.

Le tracce dei lupi e
i denti di animali divorati.
Piccole colline di rocce friabili sbriciolate,
sentieri sconosciuti verso
direzioni nascoste
in alto, sempre più in alto
dove il bosco ha
mille occhi
invisibili

Conosci la sfortunata storia di Domenico Vandelli?

Di fatto, ogni silenzio consiste nella rete di rumori minuti che l’avvolge: il silenzio dell’isola si staccava da quello del calmo mare circostante perché era percorso da fruscii vegetali, da versi d’uccelli o da un improvviso frullo d’ali.
Italo Calvino

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A spasso per biblioteche: Biblioteca Delfini di Modena

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La biblioteca Delfini in corso Canalgrande 103 a Modena è una delle realtà che partecipa al polo delle Biblioteche Comunali insieme a Crocetta, Giardino e Rotonda. Ognuna ha una storia differente, che si intreccia al territorio e allo spazio della città in cui si trova collocata, come i 400 mq della biblioteca Crocetta (di cui un terzo dedicato alla sezione ragazzi) nella cosiddetta Palazzina Pucci dell’ex mercato Bestiame: un complesso realizzato dall’architetto Mario Pucci tra il 1947 e il 1951 all’interno dell’ex quartiere industriale noto come “Sacca”.

Nel caso della biblioteca Antonio Delfini la storia inizia già qui, in questa strada che è considerata una delle più belle d’Italia: corso Canalgrande. Proprio così: canal-grande, questo nome ci riporta alla storia scomparsa, di quando Modena, come altri luoghi di questo territorio, era una città d’acqua percorsa da canali. A Modena, capitale del Ducato Estense, la corte si trasferì il 13 gennaio 1598, dopo la morte a Ferrara del duca Alfonso II d’Este, che pur con tre matrimoni non lascerà eredi: la corte estense rimarrà nella città fino al giugno del 1859. I canali di Modena erano nove: a formarli le acque del fiume Secchia, Panaro, insieme alle acque delle sorgenti che confluivano nel bacino chiamato “casa delle acque”, sotto il Palazzo ducale Estense. Il canale Naviglio era il piú grande, una vita navigabile fino al Po e a Venezia, percorsa da imbarcazioni, commerci e viandanti che affrontavano il viaggio con lo sguardo perso in quell’intricato paesaggio fluviale, fatto di canneti e acqua, guidati dai barcaioli.

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Corso Canalgrande, che incrocia la via Emilia e segna il cuore di Modena, arriva fino al Giardino Botanico e al Parco Ducale Estense, un antico giardino che secondo i documenti esisteva già nel Cinquecento, a ridosso del castello trecentesco dimora della nobile famiglia. Aperto ai cittadini nel 1739 dal duca Francesco III, oggi è il parco storico della città e patrimonio culturale della regione. Dopo aver incrociato Corso Cavour, a sinistra troviamo le Scuderie Ducali, oggi Accademia Militare, mentre a destra si indovina il profilo del lato orientale del Palazzo Ducale. Più avanti, oltre a Palazzo Tardini e l’edificio Sassoli de’ Bianchi, casa natale dell’architetto ducale Francesco Vandelli, corso Canalgrande ci accompagna fino al civico 103: palazzo Santa Margherita, che ospita la Biblioteca Civica Antonio Delfini. Qui si trova anche la sede del Museo della Figurina e la Galleria Civica).

Nel 2016 la biblioteca Delfini di Modena ha ricevuto l’eredità dell’avvocato Ettore Gandini, scomparso il 3 febbraio all’età di 77 anni. Nel testamento, datato 16 novembre 2015, Gandini aveva istituito erede la Biblioteca Delfini del Comune di Modena. La biblioteca, un archivio dove si raccolgono libri e si preserva il sapere dalla furia del tempo. E poi non solo, perché ogni biblioteca è in grado di diventare, grazie al lavoro di tanti e la passione di chi varca questi spazi, luogo di incontro, socialità e relazione fra le persone: posti capace di fare informazioni, transgenerazionale e transculturale.
Riguardo ai beni librari, la biblioteca Delfini ha ereditato il patrimonio della Biblioteca Civica, sorta alla fine del 1970 come biblioteca di quartiere.

Sembra che una Santa Margherita, risalente al 1197, si riferisse a una piccola chiesa sorta dopo l’ampliamento della città del 1188. Dal Trecento proprietà dei Canonici di sant’Agostino, qui si racconta di uno splendido orto, con alberi da frutto e pergolati dove godersi l’ombra fra piante in fiore e rampicanti. Lo spazio attuale di Palazzo Santa Margherita è il risultato degli interventi di ristrutturazione, in stile neoclassico, effettuati nel 1830 su disegno dell’architetto Francesco Vandelli. Affidato alla Società Operaia del Mutuo Soccorso, dal 1874 diventerà ricovero per poveri e bisognosi, con il Patronato pei Figli del Popolo.

La Biblioteca Delfini di Modena è uno degli spazi toccati dal Festival Passa la Parola, che ha portato in giro per la città libri e lettori trasformando i luoghi abituali in un altrove dove immaginare nuove storie e avventure grazie alla passione per la letteratura.

Biblioteche comunali di Modena: orari

Biblioteca Delfini
Lunedi dalle ore 14.30 alle 20
Da martedì a sabato dalle ore 9.30 alle 20.

Bibliotea Poletti
Lunedì dalle ore 14.30 alle 19.
Da martedì a venerdì dalle ore 8.30 alle 13 e dalle 14.30 alle 19.
Sabato dalle ore 8.30 alle 13.

Biblioteca Crocetta
Da lunedì a venerdì dalle ore 15 alle 19.
Giovedì e sabato dalle ore 9 alle 12.30.

Biblioteca Giardino
Da lunedì a venerdì dalle ore 15 alle 19.
Martedì e sabato dalle ore 9 alle 12.30.

Biblioteca Rotonda
Da lunedì a sabato dalle ore 9.30 alle 19.

Qui trovi le iniziative aggiornate delle biblioteche comunali di Modena
A proposito, hai tempo? Nel polo delle biblioteche comunali di Modena sono attivi i gruppi di lettura: si tratta di appuntamenti nati per parlare di libri, riflettere, pensare e ispirarsi, insieme. Il gruppo di lettura è uno spazio aperto dove leggere, fare amicizia, ascoltare, incontrare. A Modena sono attivi gruppi lettura, gestiti da associazioni culturali cittadine, in diversi giorni della settimana. Se desideri condividere il tuo tempo ecco le informazioni per diventare volontario in biblioteca. Qui trovi i prossimi appuntamenti dei gruppi di lettura di Modena. Se ci vai, torna a raccontare.

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Leggere tutti, leggere ovunque: Festival Passa la Parola

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L’amore per i libri si intreccia al territorio, ecco che torno a parlare di paesaggi interiori e geografia attraverso il Festival della lettura Passa la Parola, che sta andando in scena a Modena, Castelfranco Emilia, Castelnuovo Rangone, Castelvetro di Modena, Spilamberto e Vignola.

Continua a leggere Leggere tutti, leggere ovunque: Festival Passa la Parola

Fare arte con la terra e il tempo

Emerge durante gli anni Sessanta con il nome di Land art o Earth art: arte che nasce dal territorio, dalla materia primordiale della Terra. Arte che gioca con la materia prima del mondo e diventa voce della natura, eco di un paesaggio assorto che all’improvviso si sveglia con uno squarcio nel silenzio.

Fare arte nella forza degli elementi naturali e il rifiuto dell’ingresso in un museo diventano scelta consapevole nella movimentata decade di quegli anni del Novecento, tuttavia dentro questo processo creativo si riscopre la fertile e umile volontà di un istinto ancestrale. La spirale del tempo si avvolge su se stessa e, passo dopo passo, lascia intravedere l’orma di un essere umano antico, legato alla natura e al suo destino, che spesso dimentichiamo essere così intrecciato al nostro. Homo in quanto “terrestre” e nel senso di questa parola rintracciamo il suono che etimologicamente è legato a hŭmus, terra.

OFF, totem di pietre. Operazione creativa al fiume

Labile, effimera è l’orma lasciata da questa azione creativa in cui l’idea della fine è già intrinseca nell’opera ed è questo, il suo spirito leggero, a caratterizzarne l’anima. Leggerezza che connota il gesto temporaneo di un’installazione collocata in uno spazio in costante cambiamento.

L’azione dell’artista partecipa a una dimensione dell’effimero. Quando dico questa parola la mente evoca l’immagine delle effimere, specie terrestre che nasce volando e trascorre l’esistenza fuggevole vicino ai corsi d’acqua. Gli insetti dell’ordine Ephemeroptera appena nati sono già capaci di prendere il volo e raggiungono lo stato adulto dopo alcune ore, in alcune specie in alcuni minuti: “che vive un giorno” è il significato del termine ephemeros in lingua greca.

L’effimero non vive che in un tempo momentaneo, fatto di istanti.
Che spazio occupa nella vita il tempo di un momento?

Chi si occupa di Stone Balancing trasforma la precarietà in azione creativa e progetto esistenzale. L’Arte Effimera delle pietre in equilibrio è il risultato di una performance che agisce nel territorio in modo invisibile: dietro, la mano dell’uomo. Manifestazione silenziosa di un accordo misterioso fra natura e sottili contrasti, in bilico costante fra il pericolo della caduta e l’accordo mai definitivo con la gravità.

Sassatella, frazione dell’Appennino modenese nel comune di Frassinoro, provincia di Modena

Trasformare l’effimero in arte è gioco con le coordinate spazio-temporali. L’azione del terrestre, uomo che si perde nel paesaggio, si muove nell’eternità di un tempo immobile, quello della pietra, materia del mondo. Respiro creativo che nasce dalla terra e dalla natura, l’arte dell’equilibrio è antica forma di meditazione zen: con infinita pazienza e la calma risoluta di un gesto definito il balancer pone una pietra sull’altra. Unico collante fra l’una e l’altra la forza della gravità che disegna lo spazio inerme del vuoto. Un vuoto che plasma e mette in movimento, spaventa e si trasforma in materia creatrice.

Nel paesaggio dell’anima si disegna la geografia del cambiamento.
La terra, sabbia che passa fra le dita,
roccia che scalfisce e resta salda,
ce lo ricorda.
Ogni attimo

Le configurazioni della natura danno forma al senso misterioso della geometria sacra: assoluti in cui si rintraccia lo schema universale dell’arte della vita, esistenza perennemente in bilico, disegnata dal tempo e dallo spazio eppure sempre al di là di essi: il filo di questa vita, che attraversa Madre Terra e tesse l’andare dei giorni, schiariti dal sole, spazzati via dal vento e dalle tempeste che ci lasciano affranti, ricostruiti da un nuovo sole e diverse geografie.

Guardando dall’alto, ciò che resta dell’azione è un punto in una distesa di sfumature dipinte nel grigio: quasi invisibile, l’installazione è il diapason di un’armonia fugace nella sua bellezza transitoria. Momento di meraviglia nella precarietà dell’equilibrio. La vita in fondo non è che questo, traccia improvvisamente riconosciuta nel caos della materia, pazienza dell’amore, gesto di passione. Coraggio di giocare con il tempo dell’infinito sapendo che niente è eterno: siamo tutti parte di un ciclo, portiamo impressa sull’epidermide la parola “fine”.

Inscrivere nel suo senso originario indica l’azione di “scrivere o disegnare qualcosa dentro una figura geometrica o sopra una superficie” (Treccani): scrivere sopra e dentro, incidere, tracciare un segno. Unione fra orizzonte e verticale, incrocio di mondi e di momenti. Un incrocio destinato a durare quanto? Un attimo di tempo, un momento ritagliato dallo spazio immenso di una geografia che diventa emozionale, territorio vissuto e attraversato, percorso e addomesticato, spazio/tempo in cui fermarsi prima di ripartire, distesa temporale in cui tutto accade, costantemente.

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