Diario di vita, ovvero l’assillo, impellente quanto impossibile da rimandare, di scrivere un resoconto della propria vita: un momento che qui unisce madre e figlia in un viaggio della memoria attraverso il tempo e la consapevolezza di ciò che abbiamo vissuto; perché guardare indietro, verso la strada percorsa, con gli occhi di oggi è imparare a riconoscere la storia, la nostra, guardarci in modo diverso, e lasciare un’eredità.
Scrivere la storia della propria vita, questo è il tema di un articolo che trovo per caso sfogliando un vecchio Reader’s Digest in un pomeriggio troppo caldo, mentre l’afa mi toglie il respiro sul divano e una libreria mi restituisce un frammento del passato, la passione di mio nonno per questi piccoli volumi di carta stampata che hanno fatto epoca, la Selezione dal Reader’s Digest. La storia della propria vita, nata dalla voglia, anzi no, l’impellenza del bisogno di fermarsi e guardare indietro, ma anche la storia di un legame che diventa dialogo nel tempo, fra una madre e una figlia. Un diario è un dono, un’eredità immateriale. Scrivere la propria storia, per sé e per l’altro, leggere la storia di chi se n’è andato e leggere anche noi stessi: noi stessi a distanza, nel tempo, mentre le cose accadono e poi dopo, in prospettiva. Appunti di una geografia del cambiamento che accade sulla pelle, dentro ai nostri sguardi, nel modo che abbiamo di vivere le cose e reagire ad esse. E allora questa storia che è racconto di vita diventa traccia per imparare a lasciare. Lasciare andare, la cosa più difficile. Lasciare andare i figli quando crescono, lasciar andare un amore; lasciar andare la vita, il tempo, lasciar andare i fatti e le emozioni; lasciare andare persino i nostri vecchi noi stessi.
Ricordi d’infanzia
Ho amato la mia famiglia, gli amici, la natura, gli animali, la musica e altre cose ancora.
Non sarà facile dire addio a coloro che amo e alla bellezza del mondo.
Per qualche ragione penso alla casa di nonna Jessie a Kirriemuir, in Scozia.
Da bambina andavo da lei tutte le estati.
Ricordo sempre i cespugli di lavanda lungo i bordi del vialetto. Ne portavo un po’ a casa e la mettevo in sacchetti per profumare la biancheria.
Oh, il profumo era delizioso! In quel modo avevo nonna jessie con me tutto l’anno.
Una volta uno psichiatra mi ha raccontato che nei reparti dove sono ricoverati i malati gravissimi “mamma” è la parola più pronunciata. Il nonno di mia nonna si chiamava Francesco; quando ero piccola lei me ne parlava, dicendo quanto le volesse bene e quanto lui gliene volesse, un’unione speciale e reciproca come accade fra nonni e nipoti, due generazioni che si ritrovano in uno sguardo: uno al capolinea, l’altro all’inizio. I nonni rivivono nella giovinezza dei nipoti, i nipoti si ritrovano in quella storia da cui provengono e di cui sono assetati, nella totalità di un abbraccio che attraversa il tempo. I nonni in genere sono generosi e sconsiderati nel loro amore, nella passione per una vita che più l’afferri più si fa sfuggente: forse non a caso si dice che bambini e vecchi abbiano molto in comune. Amo la parola “vecchio”, piena di vita, di resistenza e forza, un albero riuscito a esistere e resistere alle tempeste. Quando sei la giornata volge al sole del pomeriggio sai come tutto appare diverso, all’improvviso ritrovi il gusto per ridere, smetti di pensare alle preoccupazioni del domani. Sarà per questo, forse, che vecchi e bambini li trovo così terribilmente simili, entrambi vivono nell’oggi. Vogliono goderselo questo oggi, pieni di desiderio e voglie, sconsiderati e saggi nella semplicità, egoisti e prepotenti come a volte sanno esserlo i bambini e i vecchi, i primi non ancora abituati a perdere e i secondi che ormai fino a qui ci sono arrivati.
Cambiano i nomi, cambiano le geografie, eppure dentro ritroviamo le nostre storie, che si ripetono simili, nelle varianti. La chiave che gira nella toppa ha forme diverse, ma produce lo stesso scatto. Gli amori, le gelosie, il desiderio, le sconfitte, i tradimenti, le cadute e le volte in cui ti sei rialzato: ogni vita è il racconto di un viaggio. All’inizio della storia, in questo riandare della memoria, è il ritorno all’origine, il primo ricordo di chi ti ha voluto bene nel senso più illimitato e gratuito del termine. La casa. Non per le pareti, quanto la casa che dice l’appartenenza del cuore a un luogo che è territorio dell’anima.
Più la valigia dell’esistenza è carica di anni, maggiore è la distanza dal territorio dell’infanzia: uno spazio sfocato, che vive nell’indeterminatezza della memoria. L’infanzia è l’inizio del filo del tempo, lo spazio in cui tutto è possibile, il tempo del presente. Durante la primissima infanzia, quando siamo molto piccoli, la percezione del passato e del futuro sono in via di formazione: non abbiamo ancora gli strumenti per immaginarli.
Passato e futuro sono un’operazione di immaginazione
Nel presente della memoria sono flash vividi quelli evocati dai sensi. Hanno la potenza di un odore mai dimenticato, quello che immediatamente riesce a riportarci una persona, un mondo intero. Come la lavanda, i cassetti e il bucato, le nonne; per qualcuno chissà, è odore di vernice, trementina, pane o vernice, sapore di schegge di zucchero caricate nei camion, odore di sabbia, di mare, di bosco. Per ognuno le strade della memoria sono l’inizio di un viaggio diverso. Colpiscono come frecce i sensi e oggi sappiamo che sì, questa è un’evidenza. Dietro all’appiglio letterario (mille gli esempi del ruolo dell’olfatto per la memoria, per esempio) esiste una questione neuronale perché il sentire svolge un ruolo fondamentale nei processi di formazione di quello che é il nostro ricordo: della vita, degli eventi e di noi stessi, di un viaggio, di un cambiamento, del tempo e delle persone.
Nel numero di Novembre 1987 della Selezione dal Reader’s Digest, pagina 27, Alice Steinbeck racconta quello che è un dialogo attraverso il tempo fra una madre e una figlia. “Nell’autunno del 1984 mia madre, una donna piena di vita che aveva già superato i 70 anni, cominciò a scrivere la storia della propria vita. Il suo desiderio di affidare alla carta pensieri e ricordi divenne per lei quasi un’ossessione”. .. “La ragione era dentro di lei. Finì ai primi di dicembre e tre giorni dopo Natale scoprirono che aveva il cancro: in capo a tre mesi era morta”.
Lo immagino questo strano dicembre. L’ultimo Natale insieme. Di solito abbiamo un ricordo molto preciso delle nostre ultime volte, dell’ultima festa insieme, l’ultima polaroid prima che tutto accadesse. Spesso, naturalmente, non abbiamo la prcezione di vivere qualcosa che sarà l’ultima pagina: è destinato a diventare l’ultimo ricordo, ma noi ancora non lo sappiamo, non ne siamo coscienti. Poi accade. E allora torna in mente quel momento, una giornata magari banale e al tempo stesso fondamentale perché definitiva. Come se la memoria riaprisse un archivio segreto e in un colpo ci restituisse tutto il file, sensazioni, sguardi, tutto impresso a fuoco sulla pelle. Ogni dettaglio appare con una luce nuova, abbagliante, intensa, che lo evidenzia in maniera perentoria; l’immagine prende vita come emergendo dal fondo buio di una camera oscura: attraverso l’acqua si evidenzia l’immagine e allora all’improvviso la vedo, ogni dettaglio è contemporaneamente a fuoco. Io, gli altri, quello che cosa indossava, il tempo, il telefono che squillava; a volte succede di ricordare particolare assurdi e molto dettagliati, con l’aroma in bocca, lo stesso, come se fosse appena successo. All’improvviso il tempo non esiste più, solo per un attimo, nell’attimo fatale di quel ricordo che mille volte continua a vivere, identico, nel nostro cuore. Un orologio fermo a un’ora che si ripete ogni volta che torniamo là.
Il tempo degli addii
Il tempo era stato strano negli ultimi due mesi; freddissimo in gennaio e poi tiepido in febbraio. In uno di quei giorni miti, schiusi la finestra della sua camera. Sentendo l’aria tiepida e profumata, mia madre aprì gli occhi e chiese: «L’erba incomincia a crescere?»
Era uno scherzo tra lei e me. Chiusi gli occhi e un ricordo mi venne alla mente attraverso gli anni: Ho cinque anni e sono sgattaiolata fuori di casa nel cuore di una notte d’estate per vedere crescere l’erba. A un tratto mia madre è al mio fianco. Invece di rimandarmi a letto, rimane con me. Non sono mai stata alzata fino a un’ora così tarda, e il senso dell’avventura è vivissimo. Siamo lì sedute insieme sulle sedie bianche del giardino e ascoltiamo le cicale che friniscono sugli alberi. «Guarda» dice lei indicando una stella cadente. Guardo la luce nei suoi occhi e i lunghi capelli neri: una macchia d’inchiostro contro l’alba imminente. Poi mi addormento con la testa sul suo grembo.
Ricordo il giorno in cui mia madre mi chiese di scrivere un ultimo messaggio da parte sua a tutti i componenti della famiglia. «Li farà sentir meglio» mi disse. Scrissi attraverso le lacrime, ben consapevole del fatto che, contriariamente a lei, io non avevo accettato l’idea della sua morte ormai prossima. Cercavo ancora un modo per rimetterla in piedi, di riportarla a casa. Lei vedeva la mia lotta interiore e, come sempre, aspettava che i nostri sentimenti coincidessero.
Ricordo con estrema chiarezza la notte in cui smisi di negare a me stessa le sue reali condizioni. Dalle mie note, 26 gennaio 1985: La radioterapia, insieme con gli analgesici, comincia a darle un certo sollievo. A poco a poco rinuncio a sperare che mia madre torni a essere com’era. Credo che morirà.
Nei giorni successivi riuscii a a scoprire ciò che a mia madre premeva: voleva parlare della sua vita, tenere il passato come se fosse un mappamondo e farlo girare per ritrovare tutti i suoi ricordi. E così cominciammo la nostra lunga conversazione, aggiungendo tessere al mosaico della memoria finché dai racconti emerse il quadro di una vita. E, mentre parlavamo, e il quadro della vita di mia madre si definiva con sempre maggior precisione, lei sembrava diventare più forte, non nel fisico, s’intende; ma nel suo essere persona e non soltanto un’ammalata.
Quando accade di prendere coscienza della realtà? Quando accade, con esattezza, di diventare consapevoli di come stanno davvero le cose, di una malattia, della morte, di un rapporto che finisce? A volte non accade mai e allora succede di sperare, fino all’ultimo, e persino si finisce per forzare la mano perché la realtà non la possiamo piegare come vorremmo: la morte accade. La fine, delle cose e della vita, accade continuamente; è qualcosa a cui la natura stessa dell’esistenza ci costringe a fare esperienza. Pena il rimanere abbarbicati e bloccati, come un fuggitivo che mentre il terremoto scuote la realtà, rimane a preparare la cena. Puoi anche non crederci, ma sta accadendo. Iniziare a riconoscere quello che accade è una questione di sguardo: è il coraggio di fermarsi e vedere. Non vedo quello che vorrei vedere, vedo quello che c’è: lo prendo, non lo trasformo, non lo piego, imparo questa nuova forma attraverso il tatto. Perché il tatto non mente.
Riconoscere è un atto che avviene al buio
Prendere coscienza del cambiamento significa accettarlo? Alla figlia, Alice Steinbeck, ci vorrà un anno prima di prendere in mano quel diario e riaprirlo. “Un piovoso pomeriggio domenicale – era passato un anno dall’inizio del ricovero di mia madre – capii che era giunto il momento di ricordare e rendere onore alla sua vita e alla sua morte. Sapevo anche che ormai dovevo riconciliarmi con la perdita della persona che più di ogni altra aveva influito sulla mia vita. Per un mese lessi le note che avevo scritto mentre mia madre era in ospedale e il suo diario. Quand’ebbi finito mi resi conto di non aver perso mia madre: in un modo nuovo e diverso l’avevo invece ritrovata”.
Scrivere è terapeutico, altrettanto è terapeutico leggere. Leggere e leggersi, nello stesso modo in cui scrivere è sempre un’azione che corre su due binari: scriviamo per noi stessi e al tempo stesso per l’altro, un altro che è già pensato, esterno a noi e interno. C’è il mondo che sta fuori e c’è quello che vive dentro. Anche noi diventiamo lettori di noi stessi e nel tempo, viaggiatori che si sdoppiano, andiamo a ritroso, ci stupiamo di noi stessi quasi fossimo davanti a un estraneo e in effetti lo siamo. La nostra memoria non ricorda. Davvero abbiamo fatto e pensato tutto questo? Davvero eravamo questi? Il tempo è la lente di ingrandimento attraverso cui osserviamo il nostro viaggiare nella vita.
Il tempo dell’attesa è il tempo che ci dobbiamo, è il vuoto in cui tutto accade, buio del seme, lievito di cose che chiedono di aspettare. Il tempo dell’attesa è quello necessario in cui la sabbia si posa e torna sul fondo, l’acqua torna chiara e trasparente. Ci vuole coraggio. Perchè dentro di noi una voce incalza, non c’è tempo: vorremmo sempre dire ‘finalmente!’, invece spesso la fine è ancora di là da venire. Rimane questo difficile elettrocardiogramma di una vita che si tiene in bilico, arrabattata e a volte arrabbiata, manchevole e sconnessa. E allora il tempo dell’attesa è anche quello spazio che ci serve per muovere due passi e poi guardare, noi stessi e il mondo, in prospettiva. A distanza. La distanza che esiste fra un prima e un dopo, fra noi stessi, quello che eravamo e quello che siamo.
Dal diario di mia madre, di Alice Steinbeck
Non ho dimenticato che cosa vuol dire essere giovani, tutte le speranze e le angosce e la sensazione travolgente che tutto quello che si fa nella vita è destinato a renderla migliore o a distruggerla. Quando si è giovani non si conoscono le vie di mezzo.
Quando ho compiuto 70 anni, qualcuno mi ha chiesto che cosa si prova quando si arriva a questa età.
Anche se il mio corpo non è più lo stesso, io sono la stessa. Sarò sempre la ragazza che amava i gatti e i fiori e che correva per casa per fare un esercizio di danza.
Dentro, sono ancora quella persona.