Potrei iniziare dicendo che c’è stato un pomeriggio estivo in cui, girovagando attraverso le stanze di quella che era stata la casa della mia nonna paterna ho trovato un vecchio settimanale pieno di fogli e foto. Il settimanale è un mobile alto e stretto: si chiama così perché veniva utilizzato per i conti; settimanale, uno per ogni giorno della settimana. Infatti, la camera in cui l’ho trovato è in una di quelle case a ringhiera che un tempo rappresentavano una delle tipiche architetture del nord Italia, in Lombardia. Dentro al caseggiato si susseguivano tante stanze, ognuna con una porta che dava su un ballatoio esterno che correva lungo la facciata della casa. Dal primo piano ti affacciavi sotto, sul cortile, e in mezzo ricordo due grandi vasi di latta, che un tempo erano stati contenitori di qualcosa, con dentro due oleandri profumati che cinquant’anni fa erano fiori e ora sono ormai alberi. Dietro alla saracinesca di sotto c’era il bar, il Bar Italia che io non ho mai visto ma che è stato l’infanzia di mio papà. L’ho ritrovato stamattina, in una foto dove c’erano ancora tutti, il nonno Carlo e la nonna Stelvia giovani e felici dietro al bancone, fra le bottiglie di liquori e aperitivi e i clienti più assidui e mio papà Vittorio che all’epoca avrà avuto nove anni, con una magliettina a righe proprio come quelle che amo mettere a Tito.
Nel viaggio di formazione che abbiamo iniziato ormai qualche anno fa la nostra maestra tantrica Prem Rupa ci ha invitato a riflettere sulla nostra storia familiare e questo è uno dei motivi per cui mi sono ritrovata qui, a cercare vecchie fotografie e seguire indizi. Potrei iniziare col dire che il viaggio nel tempo inizia nel momento esatto in cui spingiamo una porta e ci permettiamo di entrare. Non è una porta uguale a tutte le altre, a volte è immensa e noi così piccoli che per avere il coraggio di passare dobbiamo interrogare la Sfinge mostruosa di un inconscio sepolto, altre volte è così piccina la porta che si fa molta fatica a scorgerla. Si nasconde, come nell’ombra si confondono i nostri sentimenti e le storie di famiglia, gli amori sepolti, le morti, le gioie, i segreti che non sono stati detti e quelli che senza saperlo abbiamo intuito, ingoiandoli conditi da sensi di colpa come dolci speranze trangugiate in segreto.
Mi sono rivista
negli occhi di una nonna che in fondo
non ho conosciuto così bene e
non conoscerò più, ormai.
Ho visto mio figlio dentro i ricci e le mosse di uno che è nonno
proprio adesso.
Dentro il bianco e nero
ho immaginato colori.
Mi sono stupita vedendo due vecchie fotografie con un paesaggio e il modellino di un aereo
“eleo” direbbe Tito, che ama molto anche lui gli aerei e li indica sempre,
e ci ho ritrovato dentro la sensibilità di mio papà,
in anni dove si fotografavano sempre persone, quasi mai case o oggetti.
Le fotografie accarezzano le nostre evoluzioni, accompagnano la metamorfosi. Può guarirci rivedere una fotografia del tempo perchéa guarirci sono i momenti felici. Ci sono momenti che non avevamo mai visto, come quel viaggio a Istanbul e San Pietroburgo del nonno, di cui nessuno ricordava; ci sono persone che non conosciamo più e volti che non si sanno più attribuire, chi li conosceva se c’è già andato e senza un tratto di matita che abbia segnato una dedica e un nome o almeno un anno, si consegnano al flusso indiscriminato e immenso della storia del mondo, una storia senza nome né date, una storia che ci travolge e avvolge, annega e si dispiega dentro le nostre braccia come il filo di una coperta infinita. Eppure, noi siamo questa storia. L’oceano di tutto ciò che siamo stati, e saremo, scorre dentro alle nostre vene, si arrotola nella spirale di un DNA che, senza saperlo, ha il viso, il sorriso e gli occhi di qualcuno che tu non hai mai conosciuto ma vive in te. E tu in lei, o lui. Poi dentro i tratti di una fotografia all’improvviso passa un lampo, è il fulmine del riconoscimento.
Ci sono cose che non sappiamo nemmeno spiegare, a voce. Sfuggono dalla nostra testa e dalla comprensione. Il cuore le conosce e ri-conosce. Le vede, ora sa
Ho deciso di appendere al muro quel ritratto dell’altra nonna, insieme a sua sorella al mare, in Liguria; era il ’49, dopo la guerra, in una giornata che immagino piena di sole. Hanno i costumi di tessuto come si usava un tempo, di maglina morbida. Sono molto sorridenti e giovani. Questo momento l’ho messo dentro un riquadro rosso, rosso come la passione che ci infiamma da ragazzi e con una goccia di colla abbiamo fissato un corallo, relitto del mare di una nostra vacanza. Per mescolare passato e presente, per ricordare che anche il passato aveva colore, per ricordare che gli stessi che abbiamo conosciuto più in là negli anni sono stati ragazzi proprio come noi, con un carico di sogni che allora aveva una valigia pesante perché loro, quei ragazzi del ’47 uscivano da una guerra. Erano giovani e innamorati, avevano già vissuto tanto. Come sta capitando ora a bambini e ragazzi come loro: se si incontrassero ai confini del tempo, fra una fotografia e l’altra, entrambi scuoterebbero la testa increduli, di essere così vicini e avere così tanto da dirsi, pur in anni così diversi, che tanto tempo li distanzia eppure siamo ancora qui a parlare di guerra, che sfacelo, che caramella amara da sciogliere in bocca, non ci si crede. Quei nonni, ragazzi di allora, e questi ragazzi di qui, sotto le bombe, si abbraccerebbero parlando di tutte le emozioni e quanta paura può fare una sirena d’allarme quando la senti nella notte, e del fragore dei muri che crollano. Io lo so, mia nonna Giuseppina e sua sorella Erminia, che io ricordo eternamente spavalde, con il rossetto rosso e rosso lo smalto anche a ottant’anni direbbero loro che passerà, che passeranno questi anni e che a vivere e soprav/vivere ci vuole forza, ci vuole coraggio. Ci vuole spavalderia, che a mia mamma, di un’altra epoca come parola non piacerebbe. Ma in certe epoche è necessaria, la spavalderia.
Perché coraggiosi non si nasce. Coraggiosi si diventa.
Intanto le fotografie le abbiamo appese lì, lungo le scale. Perché la scala di casa, che dalla cucina porta fino in soffitta, è una parte in movimento, proprio come la vita e mi sembra ci sia un po’ di somiglianza anche con quel proverbio indiano che ricorda “l’esistenza è un ponte, atraversalo ma non pensare di costruirci sopra una casa”. Lungo le scale, gradino dopo gradino, si sale e si scende, ci si ferma a mezz’aria, certi giorni, si sta seduti su un gradino a sfogliare un libro o si prende un passaggio, come Tito quando al mattino si aggrappa al collo e urla “mano mano” per scendere. E allora mi piace pensare che ogni volta il nostro sguardo si appoggerà su un volto diverso, un incontro di sguardi. Lungo queste scale del tempo ci si incontra, ci si continuerà a incrociare, e vedere. E c’è la cornice di due che conosciamo più, ma forse un giorno sarà la loro storia a venirci a cercare. E c’è posto anche per una cornice vuota, che sono tutti quelli che nella storia si sono persi, di cui un volto non c’è più ma la cui memoria è scritta nel territorio oscuro e palpitante del nostro incoscio.
Lungo le scale, a una altezza che è proprio quella della mia faccia più o meno ora, c’è anche uno specchio. Non sembra ma anche questa è una foto. Un passaggio in divenire, è il nostro volto che cambia, costantemente, è il nostro sguardo in cui ci guardiamo e riceviamo, ogni giorno. Oggi. La metamorfosi ci trasforma, da dentro, in uno sguardo ci ritroviamo.
A proposito, chi è curioso può consultare qui i prossimi incontri di Prem Rupa