Qualche anno fa sono stata iscritta a un master in counseling sanitario. Avevo trovato questo corso tra le offerte didattiche organizzate dall’Università di Bologna, dove mi ero laureata, e avevo deciso di affiancarlo a una formazione che già seguivo da qualche anno, meravigliosa e senza diplomi, focalizzata sull’essere umano e la ricerca che ognuno di noi compie nel viaggio della consapevolezza. Dopo mesi di lezione si doveva organizzare la propria tesina e il periodo di tirocinio, che io scelsi all’interno di un hospice.
La mia idea era semplice, ma colpiva un punto che in verità è ancora sguarnito, sia nella realtà degli hospice, sia nel mondo che ci circonda ogni giorno. Come ti senti di fronte alla morte?
Crediamo che una persona ricoverata in un hospice sia più vicina al fattore morte, in realtà si tratta di un’illusione. La morte è democratica, così democratica che la probabilità di morire resta identica per ognuno di noi, ogni attimo. Non è che se uno si trova ammalato, da mesi o persino anni, sia certo che morirà prima di me. Puoi essere giovane e in perfetta salute e per qualsiasi motivo essere morta entro domani: abbiamo tutti le stesse probabilità, vivere o morire. Per l’universo è un battito di ciglia, l’istante di cuore che batte e ora, proprio adesso, si ferma, si è fermato.
Questo rende me e la persona che mi sta di fronte in un dialogo alla pari che da una parte mi ricorda l’umiltà di fronte all’esistenza e dall’altra porta calma alla conversazione. Dobbiamo tutti passarci attraverso la morte, sì. Quindi, adesso che siamo qui e abbiamo tempo, dimmi: come ti senti davanti alla morte? E davanti all’idea di dover morire? Davanti alla morte come davanti alla vita, perché non c’è una senza l’altra, lo sappiamo fin dall’inizio. Nascere è la più difficile e pericolosa delle avventure della vita: mentre nasci sei a un passo dalla morte, tu e chi ti porta qui su questo pianeta e forse per questo madre e figli restano legati nel sangue, per un viaggio impensabile in cui hanno attraversato lo spazio e il tempo. Per secoli il momento del parto e della nascita sono stati vissuti con la consapevolezza del pericolo che oggi fingiamo di dimenticare e dissimulare tra fiocchetti e pensieri di camerette da arredare, eppure è ancora così. Mentre arrivi su questa terra e tutti sono lì intorno pronti per accoglierti, nel momento massimo di questa festa che è il venire al mondo e aprire gli occhi alla vita, c’è la morte che ti guarda. Per un attimo, ci si guarda attraverso i secoli, il tempo, lo spazio. Forse scordiamo il momento in cui veniamo al mondo perché sarebbe troppo da ricordare; troppo devastante, troppo intenso, e allora lasciamo andare e intanto sopravviviamo.
In fondo, resta così sempre: la vita è un posto pericoloso, lo sappiamo benissimo e non è solo l’attenzione per le cadute o il motorino a diciotto anni. Possiamo restare immobili e la morte colpirci comunque. Sopravviviamo continuamente. Anzi, a pensarci bene è solo per un autentico colpo di fortuna che siamo vivi adesso. Potevamo già essere morti e morte mille volte in cento modi diversi, da banali cadute alla febbre e tutti quegli accidenti che fino a un’ottantina di anni fa erano motivo di preoccupazione. Quindi, se guardi indietro cosa vedi? Che cosa potresti dire degli anni vissuti fino a qui?
Come ti senti ora se pensi alla morte?
Il primo giorno di tirocinio avevo un taccuino sottobraccio per segnare il nome di chi incontravo, perché a volte tirar fuori un quaderno e una penna serve, soprattutto in quei momenti in cui c’è bisogno di trovare pretesti. Avevo un cartellino attaccato a un camice in cui nessuno aveva saputo inserire la definizione giusta perché “dottore” avrebbe fatto pensare a misurazioni e linguaggi che di certo non erano il mio pane, “antropologa” avrebbe anche potuto essere ma si dava il caso che nel mio corso di studi universitari non avessi mai inserito alcun esame di antropologia: si finì per scrivere “etnosemiotica”, una definizione simpatica perché lascia il giusto spazio alla libertà di immaginare ciò che si vuole visto che di solito nessuno sa cosa mai sia e di cosa tratti la semiotica, men che meno l’etnosemiotica.
Avevo passato tutto il pomeriggio da una stanza all’altra. Non erano molte, una quindicina di ospiti in tutto ma con ognuno di loro c’era stata una lunga chiacchierata. Sto quasi per andarmene quando scendendo al piano di sotto, vicino all’ingresso, noto una porta dove non ero ancora stata. Era aperta, non spalancata ma in un invito obliquo di porta a metà. Dentro, una donna. Seduta sul letto, con le mani intrecciate in grembo e la schiena diritta, guarda davanti a sé un punto sfocato nell’infinito, come in attesa.
Posso?
Ti stavo aspettando, manco solo io
Si chiamava Italia. Era vedova. Mi spiegò la sua malattia e mi disse che quella di essere ricoverata era stata una sua scelta: il mio compito qui sulla terra è finito, mio marito non c’è più e le figlie sono adulte, non provo più alcun interesse a rimanere qui.
Con un gesto mi mostrò le uniche cose che aveva scelto di portare con sé da quella che era stata la sua casa: una radiolina, con cui lei e il marito di solito ascoltavano la musica e amavano ballare, un album di fotografie, la cassetta con incisa la voce di suo marito che canta. I vestiti non li ho portati, non mi servirebbero a niente ora, ho con me solo un paio di pigiami.
Il motivo per cui si trovava lì riguardava la sua morte, come per tutti.
Mi sento in pace rispetto alla morte. Ho fatto tutto quello che dovevo: ho vissuto, ho amato, ho cresciuto delle figlie e ho avuto anche la gioia di conoscere le loro figlie, le mie nipoti. Mi è rimasta un’unica preoccupazione ed è per le mie figlie: loro non accettano che io possa morire e che avverrà presto. Ma adesso per me si è fatta l’ora di andarmene, non voglio più restare qui.
Quello che vorrei, ed è il motivo per cui ho scelto di essere qui, è potermene andare in pace. Andarmene in silenzio. Vorrei che accadesse di notte e che nessuno se ne accorgesse. Mi spaventa l’idea che intorno a me ci siano delle luci forti o qualcuno che tenta di rianimarmi o urla, in un momento così delicato e intimo. È per questo che vorrei andarmene di notte, mentre tutti dormono, nella quiete del buio.
Ho conosciuto Italia il sabato pomeriggio. Non avresti detto che fosse a uno stadio terminale di una malattia; appariva vitale seppur con un’aria delicata e fragile, era di buon umore e sorridente. Pacata e ricca di consapevolezza. Di lei posso ricordare lo sguardo profondo e tranquillo, i gesti misurati e lievi.
Quella domenica mattina, mentre compravo il pane per il pranzo a centinaia di chilometri dalla sua stanza bianca, la scia del suo profumo mi colpì e io, con un raggio di sole birichino negli occhi, feci un sorriso pensando al piacere di ritrovare la nostra conversazione di lì a breve. Meno di ventiquattro ore dopo varcavo la soglia dell’hospice con il mio solito quadernetto sottobraccio e il cartellino con un ruolo difficile a definirsi scritto dentro.
Se n’è andata, sai? Italia ci ha lasciato. Sono ancora tutti molto scossi, ormai qui la sentivamo come una di famiglia. Il personale ha fatto di tutto per cercare di salvarla.
Ecco, in queste ultime parole c’è la rivoluzione che dobbiamo ancora arrivare a capire e raggiungere: non fare di tutto per cercare di salvare, ma osare il coraggio di lasciar andare. Ci vuole un coraggio incredibile a smettere di fare. Potremmo imparare a essere un supporto meraviglioso nell’accompagnare l’andare (ma ancora non succede), perché ci vuole un’incredibile generosità e consapevolezza nell’esserci senza trattenere: accettare la morte come accettare la vita, accettare la vita e allora accettare nello stesso modo anche la possibilità del morire.
Ho immaginato Italia e la notte: il sopraggiungere dei primi segnali della morte in arrivo e gli allarmi che iniziano a suonare, come lei non avrebbe voluto; è stata soccorsa, come lei non avrebbe voluto e nel tentativo di rianimazione trasferita a un altro ospedale: ho immaginato l’ambulanza, le sirene, la barella, le voci, gli spostamenti, le corse, l’aria fredda della città nell’ora prima dell’alba e i neon dei corridoi degli ospedali. Come lei non avrebbbe voluto. Ho sperato che tutto l’avesse raggiunta come in un sogno lontano. Mentre tu stai già volando nell’altrove, ciò che rimane a terra è già distante.
Di questa storia non si parlò. Non si parlò dei desideri di quella persona ricoverata così come nessuno li aveva chiesti prima. Tutti agirono pensando di aver cercato di fare il meglio, il massimo, per quella persona, che era amata e benvoluta. Invece, era proprio questa la questione che sarebbe dovuta emergere e di cui ancora dovremmo preoccuparci: che cos’è il meglio per l’altra persona, che cos’è il meglio per noi? Non c’è una risposta unica, siamo noi a doverla chiedere e ascoltare, siamo noi a doverla dare la risposta, chiedendocela di volta in volta. Quella volta nessuno pensò, nemmeno per un attimo, che questo episodio contenesse un grave errore e, potenzialmente, un incredibile, prezioso insegnamento: se l’avessimo visto avremmo potuto cambiare la storia, e magari anche tutte le storie dopo. Ma io ero solo una tirocinante destinata a restare per una manciata di incontri, non c’era posto. Non ci sono ancora posti dove poter parlare di come ci sentiamo di fronte alla morte e di cosa vogliamo lasciare della vita. A meno che non inziamo a crearli, a farci spazio noi e non importa dove: seduti su un prato, al tavolo con un caffè o passo dopo passo, camminando in un prato.
Fra le ermetiche pareti dell’hospice medici, infermieri, oss creavano il necessario supporto della cura insieme alla psicologia, dotata di esperti che si accertavano dell’equilibrio psicofisico dei ricoverati, le tendenze a tristezza e depressione, il livello di dolore. Eppure, di morte non si parlava molto. Credo che questo non fosse comune solo a quel posto, ma sia un fatto riscontrabile anche in altre realtà: fino all’ultimo si cerca di ignorare la morte. Dribbliamo il pensiero della fine. Ci scambiamo informazioni su quale libro bello stiamo leggendo, cosa faremo il prossimo mese, come ti senti, fa ancora male quel punto? forse domani con un po’ di fortuna andrà meglio. Oppure no.
Forse non andrà meglio, perché a volte si muore. Prima o poi accade, sì. Ci dobbiamo passare tutti e la morte è democratica: può essere che da un letto d’ospedale ci si senta più vicini e convinti a prendersi la briga e la stizza di dover pensare subito all’argomento senza più rimandare, ma può benissimo essere che quelli pimpanti e senza pensieri siano stecchiti prima di domani. E nel frattempo ci dimentichiamo di chiedere: come vorresti che andasse? Cosa senti, dentro? C’è qualcosa che vorresti lasciar detto? Hai cose importanti da finire? Prima di andare raccontami un attimo che vita è stata.
Ci si mettono anni a capire le cose e allora forse rivederle un attimo fa bene. E se le raccontiamo, con il gomitolo dei giorni in mano riannoderemo i buchi del Tempo, gli strappi fatti malamente, le emozioni scucite e mai riparate. Un atto di riparazione, ecco. Per ritrovare il filo. E lasciarlo in dono a chi resterà
Sarebbe bello, e auspicabile, che si trovasse posto per parlare di queste cose: un posto non fatto di spazio, ma che sia tempo. Tempo per sedersi e raccontarsi, tempo per ascoltarsi. Parleremmo di cose che non sono solo la morte, ma anzi la vita; di come ce la immaginiamo, sia la vita, sia la morte. Con il filo del Tempo in mano ritroveremmo le paure che avevamo e che abbiamo, i sogni dell’infanzia, e le idee che ci siamo fatti sull’aldilà, su Dio e sulla reincarnazione: di questo non si può parlare né con dottori e dottore né con psicologhe e psicologi, le competenze e le necessità sono altre.
Eppure, esistono: non so quanti mila anni di storia umana e ognuno resta nella cultura in cui cresce, senza fare un salto al-di-là. Invece, dovremmo proprio prenderci cinque minuti per farlo e dare una sbirciatina. Per parlare di quanto sia difficile accettare la morte e quanto anche la vita spesso sia altrettanto difficile: sarebbe un tempo in cui sederci e guardarci negli occhi. Perché nessuno dovrebbe andarsene senza lasciare la propria eredità, nessuno dovrebbe andarsene senza aver salutato. Sarebbe bellissimo se ognuno di noi raccontasse la sua vita prima di andarsene, con i suoi fantasmi e suoi sogni, le paure, le speranze, gli sbagli. Ognuno di noi potrebbe godrebbe di un dono meraviglioso ricevendo la storia della vita di qualcuno. In fondo questo è ciò che lasceremo: l’eredità di ciò che abbiamo vissuto e sperimentato.
Semplicemente bellissimo. Un abbraccio.
grazie Cinzia, un abbraccio grande!
Nüvle
En ghè pü: cà d’pighôt,
In ghen pü, gnianch i vtiôt,
En ghè ntshün, da parlar,
Ne mulin da magnar ;
E bel temp l’è passà,
Cma nüvle cun e vent,
Cma fiur a sul ardent !
Mierà andar dô d’là !
Passar d’int e camp sant
Ura, en ghè pü tant,
Avrir l’usc ch’porta via,
Da i sô, nostalgia.
accettare la morte perchè si è vissuto…
La faucheuse
La grande faucheuse est tout près !
Elle rode, prête à t’emporter.
Elle tranche dans la souffrance,
les vies, à peine dans l’enfance !
Sur terre, où survivre est bonheur,
Sa lame ébarbée, dans la douleur,
Vient prendre ta vie, pauvre Humain,
Qui ne sait où il va, d’où il vient ?
Pourquoi perdre ton temps, pleurer ?
Il ne reste que peu d’années !
Combien de jours, de secondes,
Avant de quitter ce monde ?
La mietitrice
La mietitrice è qui vicino !
È in giro, pronta a portarti via.
Lei affetta nella sofferenza,
le vite, già nell’infanzia !
Sulla terra, dove sopravvivere è felicità,
La sua lama sbavata, nel dolore,
Viene a prendere la tua vita, povero umano,
Chi lo sà, dove va, da dove viene ?
Perché perdi tempo, piangendo ?
Rimangono pochi anni !
Quanti giorni, quanti secondi,
Prima di lasciare questo mondo ?