Tu ricordati di vivere a testa alta

L’hanno detto cento madri. Mille. Milioni. Ogni giorno, dall’inizio della Storia. Tu ricordati di vivere sempre a testa alta. Guardare in faccia occhi negli occhi, che come dice il vecchio detto di cui esiste probabilmente il corrispettivo in ogni parte del mondo – male non fare, paura non avere. Tu ricordati di abbassare lo sguardo solo per umiltà. E di tenere sempre in alto il cuore, l’orgoglio, l’onestà.

Non ti far trattare male e non trattare male. Nessuno deve essere trattato male solo perché si ritrova ad essere il più piccolo, o la più piccola di un gruppo, o la persona più indifesa o vulnerabile. Mostrare ciò che si ama agli amici è un atto di coraggio e se ti trovi con chi non sa prendersi cura della vulnerabilità allora non sei nel posto giusto.

Tu ricordati di vivere a testa alta, sempre. Da secoli le guerre vanno avanti per cosa, secondo te? Per gente che non si arrende al potere sbandierato e agitato da qualcuno, per gente che ha combattuto per tutta la vita per la libertà. Se ne sono spezzate cento, mille, mille milioni di vite per la libertà, eppure ognuna, con tutte le sue lacrime e tutti i suoi sorrisi, si è riversata nell’altro. Perché la libertà chiama libertà.

La violenza apre una spirale che noi esseri umani non riusciamo a contenere: è qualcosa più grande di noi.

Pensa che nel 1971 uno psicologo, Philip Zimbardo, all’Università di Stanford, organizzò uno dei più discussi esperimenti di psicologia sociale: lo Stanford Prison Experiment. Per comprendere come il potere e la sottomissione potessero trasformare i comportamenti umani, selezionò 24 studenti ritenuti sani e li divise a sorte in due gruppi: guardie e prigionieri. Nel seminterrato dell’università venne allestita una prigione fittizia con celle e corridoi. I prigionieri furono privati della propria identità personale e chiamati solo con un numero, mentre le guardie ricevettero uniformi, occhiali specchiati e manganelli di plastica. In breve tempo i ruoli presero il sopravvento: le guardie iniziarono a manifestare atteggiamenti autoritari, crudeli e aggressivi, mentre i prigionieri svilupparono ansia, passività e sintomi di stress emotivo. L’esperimento, progettato per durare due settimane, fu interrotto dopo appena sei giorni per l’escalation di violenza psicologica che rischiava di degenerare. Lo studio mostrò quanto rapidamente persone comuni, poste in condizioni particolari, possano interiorizzare i ruoli di potere e sottomissione, senza contare le enormi polemiche a livello etico e metodologico riguardo a un esperimento che oggi sarebbe considerato illegale. Oggi resta un esempio emblematico di come il contesto e le regole sociali possano condizionare il comportamento umano, oltre a diventare un monito sulla dignità umano e sui limiti che dobbiamo porre anche nel caso di una ricerca psicologica.

Un gioco di bambini, se osservato da vicino, nasconde dinamiche in cui si mette in gioco, nello spazio di una stanza o di un cortile, l’intera società: è lì che si gioca una partita di cui non sempre siamo consapevoli. Dobbiamo sperimentare, in quanto esseri umani in crescita; osservare, percepire. E intervenire anche, se qualche volta diventa necessario. Come nel caso di un esperimento che andava bloccato, dobbiamo capire quando si sta passando il limite. Anche nei giochi di bambini. Perché l’energia del fuoco è una scintilla che brucia dentro di noi e ha bisogno di divampare, ma al tempo stesso a volte è difficile trovare le risorse per gestirla, ammansirla, impastarla. Perché è vero che ci dicono di non metterci in mezzo, ma a volte c’è bisogno di esserci e uno sguardo può introdurre una differenza: ce n’è bisogno, a volte, per vedersi da fuori.

Ti ho visto stasera con le tue lacrime trattenute. Ho pensato che dovremmo vergognarci noi, di non saper più correre come un cane, rotolarci nell’erba senza ritegno, gridare forte di gioia. Non tu. Tu resta con il cuore libero e innocento, vola alto. Porta con orgoglio sul palmo della mano la tua vulnerabilità, gentilezza, delicatezza.

E ricorda che la vita non è un videogame. Che cosa credi che faccia chi combatte dentro una stanza? Nulla, proprio nulla. Combatte con il niente. La guerra, quella vera, è spaventosa e piena di dolore. Non muore due, tre o cinque volte chi è – davvero – in guerra, non fa mosse lente e perfette. Ha solo uno zaino di stanchezza immensa, lividi e sapore di sangue, sporcizia e bruttura negli occhi. Chi gioca ai videogame la guerra non l’ha vista, fortuna sua, e intanto continua ad ammazzare senza accorgersi di giocare con il nulla.

Ma basta un attimo ed ecco che si può spazzare via; è così con i bambini, è così che accade da piccoli: possiamo imparare un’altra visione, un’altra modalità, se solo ce la mostrano, se appena abbiamo l’occasione di intravedere un pensiero bello, un’occasione, un mondo migliore da disegnare e magari senza combattere.

§ Questo arriva alla fine di una giornata d’estate, mentre è di ieri la notizia della morte della giornalista Mariam Abu Dagga, freelance palestinese uccisa il 25 agosto 2025 durante un doppio raid sull’ospedale Nasser a Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza. Al figlio lascia una lettera: Ghaith, tu sei il cuore e l’anima di tua madre. Ti chiedo di pregare per me, non di piangere, così che io possa restare serena. Voglio che tu tenga la testa alta, che studi, che tu sia brillante e distinto, e che diventi un uomo che vale, capace di affrontare la vita, amore mio.

Non dimenticare che io ho sempre fatto di tutto per renderti felice, a tuo agio e in pace, e che tutto ciò che ho fatto era per te. Quando crescerai, ti sposerai e avrai una figlia, chiamala Mariam come me.

Tu sei il mio amore, il mio cuore, il mio sostegno, la mia anima e mio figlio, di cui vado orgogliosa. Sii sempre felice e custodisci una buona reputazione. Una cosa ti affido, Ghaith: la tua preghiera, poi ancora la tua preghiera, poi ancora la tua preghiera.

Noi stasera, che siete rimasti a giocare – che meraviglia – fino a quando le ombre danzavano sul muro – una volta a casa, insieme abbiamo parlato dei vostri giochi di bambini, di voi che vi considerate amici, spiegando un po’ le lacrime, i pugni, i combattimenti, i modi. Tu non dici niente, alla fine del discorso con le due mani unite disegni un cuore con le dita e mi sorridi. L’importante è vedersi, vederci, continuare a guardarci; sapere che i nostri momenti di vulnerabilità, le piccole o grandi ferite della vita, i nostri graffi, non sono accaduti nell’indifferenza ma li stiamo vedendo, accarezzando e curando. E intanto ti addormenti, dicendo “Quando finirà questa guerra a Gaza?”. Presto, amore, speriamo presto, perché è già troppo tardi.

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