Tutto è cambiamento

L’etimologia dietro alla parola “cambiamento” nasconde un viaggio che va dritto nel DNA del movimento. “Cambiare” proviene dal verbo greco kamptein: curvare piegare, girare intorno. Sì, il cambiamento è una curva: spesso tortuosa, non solo per inseguirla devi girare il collo, spostare lo sguardo verso una nuova direzione; una volta imboccata devi continuare ad avanzare, ancora un po’, andare dritto per quella nuova strada e non guardarti indietro che mille e mille volte ti verrebbe da tornare sui tuoi passi, quelli della strada ben nota, magari sbagliata ovvio, lo vedi da te, eppure infinitamente più sicura. Il cambiamento è una giravolta, fa girare la testa e poi succede che proprio come in quelle strade che all’improvviso si trasformano in rotonde non ti ritrovi più: hai perso l’orientamento e allora che si fa? Fai di nuovo la rotonda, giri, giri; come nel giro girotondo da bambini giri ancora e accade anche nella vita, guarda che buffo: imbocchiamo di nuovo la stessa strada senza accorgerci che adesso possiamo riconoscerla: no, siamo ancora lì, fissi a quell’incrocio maledetto, qual era la direzione? Ora l’ho dimenticato accidenti, aspetta che rifaccio la rotonda, adesso leggo i cartelli. Questa svolta mi sembra di conoscerla, non ci ero già passata di qui? Lo chiamiamo sbaglio ed è una strada che conosciamo perché ci siamo già passati, solo che all’inizio non ce n’eravamo accorti, sembrava un’altra cosa. Quanti giri servirà fare attorno alla rotonda per poi imboccare la curva giusta, quella per andare dove dovevamo andare?

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Non importa quanto ci vorrà, a volte basta un attimo per cambiare una vita intera, qualche volta ci vuole un mese, un anno, forse un’altra vita intera. Poi all’improvviso accade, lo sguardo si sposta verso un’altra direzione e incontra un nuovo orizzonte. Seguo la curva, scivolo via, mi giro; forse proprio questo nasconde il viaggio del cambiamento: a un certo punto puoi girarti indietro e allora ti accorgi che è accaduto, è passato. Ora puoi guardare la strada fatta fino a qui e voltarti verso la direzione che i tuoi passi hanno già trasformato nella mappa in cui cammini.

Sei già sulla  tua nuova strada. L’unica possibilità per cambiare è iniziare a muoverci.

200 anni di Infinito

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quïete
Io nel pensier mi fingo, ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare

L’infinito, XII dei Canti di Giacomo Leopardi

Era il 1819, anno della prima edizione originale della lirica, composta da quindici endecasillabi sciolti. Sono trascorsi duecento anni da L’infinito, il dodicesimo dei Canti che Giacomo Leopardi, 21enne, comporrà in questi anni giovanili.

Il Monte Tabor porta immediatamente alla mente l’omonima collina della Galilea, in Israele: entrambi immersi in un’atmosfera che ha in comune un’essenza profonda di pace, fatta di alberi antichi e profili dolci di terre immerse nel verde, questi colli portano con sé l’eco senza fine di un silenzio smisurato che diventa contemplazione. A Recanati il Monte Tabor è il Colle dell’Infinito: da qui, l’orizzonte immenso lascia scorgere le cime dei monti Sibillini. All’interno del parco si trova la sede del Centro Mondiale della Poesia e della Cultura.

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Nasce nel 1798 a Recanati, un tempo Stato pontificio e oggi provincia di Macerata, una distesa di terre fertili nelle Marche dove chi viaggia si perde fra piccoli borghi arroccati e rocche che si affacciano all’improvviso sul mare, distese di girasoli nella terra scura e boschi profumati, giganti verdi (sono 123 gli alberi monumentali classificati nelle Marche) lungo le piccole strade di campagna. La casa di Giacomo Leopardi si affaccia sulla piazza dove aveva vissuto l’infanzia, primo di dieci figli, insieme al padre, conte Monaldo, e la rigida madre, marchesa Virginia Mosca di Pesaro.

Durante gli anni di “studio matto e disperatissimo“, come li definisce, la spasmodica sete di sapere attinge ai grandi classici, dalla filosofia agli studi di astronomia. Viaggia attraverso culture e grammatiche differenti, imparando, quasi da solo, nove lingue (latino, sanscrito, greco, francese, inglese, spagnolo, tedesco, ebraico e yiddish). Secondo gli studiosi successivi i problemi di salute saranno forse manifestazione del morbo di Pott, o malattia di Pott, l’ipotesi finora più accreditata: una forma di tubercolosi extrapolmonare, spondilite tubercolare.

“Ma io non aveva appena vent’anni, quando da quella infermità di nervi e di viscere, che privandomi della mia vita, non mi dà speranza della morte, quel mio solo bene mi fu ridotto a meno che a mezzo; poi, due anni prima dei trenta, mi è stato tolto del tutto, e credo oramai per sempre”
Giacomo Leopardi agli amici, 1831

Sofferenza, dolore, desiderio. Sete di infinito. La poesia arriva, travolgente e totale come un’onda; a lei consegnerà la sua vita. Alla famiglia strappa il consenso a partire. Sarà un lungo viaggio attraverso l’Italia del sapere e dei letterati. Prima a Milano, poi a Bologna, dove Giacomo Leopardi vivrà al numero 33 di via Santo Stefano. Poi sarà a Firenze, Pisa e dopo aver rinunciato alla prospettiva di una cattedra in Germania a causa del clima troppo rigido per le sue condizioni di salute, di nuovo il ritorno al “natio borgo selvaggio“, Recanati. Successivamente tornerà, prima a Firenze e poi a Bologna, che rimangono due punti fondamentali nella mappa della sua storia, insieme a Napoli. Nella città partenopea dell’amico Antonio Ranieri, scrittore, la notte la usa per scrivere: si sveglia quando è già giorno fatto, all’inizio del pomeriggio. Nelle piazze inondate di sole e fra i vicoli pieni di luce e mercati, si ferma a bere caffè e si delizia con sorbetti e dolci. All’imbrunire ritorna sulle carte, su cui si addormenta a notte fonda per continuare qualche ora di sonno più tardi, quando è già mattina e Napoli si sveglia.

Addio, Totonno, non veggo più luce“, Antonio Ranieri racconta che furono queste le ultime parole di Giacomo Leopardi, che proprio a Napoli muore, all’improvviso, all’età di 39 anni. Era il 14 giugno 1837, quasi le nove di sera mentre di nuovo la notte scende e il grande poeta se ne va, fra le braccia dell’amico.  Recanati, sebbene avesse programmato di tornare per salutare la famiglia, non lo rivedrà più. Qui, sulla piazzetta, che è la piazza celebrata nel Sabato del Villaggio, si affaccia Palazzo Leopardi, casa natale del poeta. Lo stabile, aperto al pubblico,  assume la forma attuale dopo i restauri eseguiti dall’architetto Carlo Orazio e oggi è abitato dai discendenti. Uno dei luoghi in grado di scalfire il tempo e la memoria è la biblioteca di Giacomo Leopardi, dove sono custoditi oltre 20.000 volumi, antichi volumi raccolti dal padre Monaldo.

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Recanati, casa Leopardi a metà Ottocento

 

 

 

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Biblioteca Załuski a Varsavia

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Quando, pietra su pietra, inizia la costruzione della Załuski Library a Varsavia è il 1747. Già da qualche anno Józef Andrzej e il fratello Andrzej Stanisław Załuski, entrambi vescovi e bibliofili, progettano l’ideazione di uno spazio in cui raccogliere la collezione di libri.

La biblioteca Załuski di Varsavia sarà la prima biblioteca pubblica polacca, considerata una delle più grandi biblioteche del mondo contemporaneo. Aperta al pubblico dalle ore sette del mattino alle sette di sera, il martedì e giovedì, fra le sale della biblioteca si trovavano circa 200.000 voci, destinate a diventare oltre 400.000: mappe, volumi e manoscritti, strumenti scientifici e una raccolta di arte, insieme a campioni di piante e animali.

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Dopo la rivolta di Rivolta di Kościuszko del 1794, le truppe inviate dalla zarina Caterina II, sequestrano i materiali della biblioteca: la collezione viene trasferita a San Pietroburgo, dove diventerà, di lì a breve, parte della Biblioteca Pubblica Imperiale, fondata da poco. Successivamente, negli anni Venti, il governo della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa restituirà alla Biblioteca Załuski circa 50mila beni dell’antica collezione. Tuttavia, queste raccolte verranno fatte a pezzi dall’esercito tedesco durante la distruzione di Varsavia nell’ottobre del 1944, quando la città viene rasa al suolo.

Alla guerra mondiale sopravvissero 1800 manoscritti, oltre a 30.000 materiali stampati, parte delle raccolte originali. Dopo la guerra l’edificio è stato ricostruito: ad assumere l’eredità, materiale e immateriale della biblioteca Załuski sarà la Biblioteka Narodowa, oggi Biblioteca nazionale polacca.

Secondo i registri prima della guerra i beni della biblioteca contavano 6,5 milioni di libri e riviste, 3.000 stampe antiche, 2.200 incunaboli, 52.000 manoscritti: come accade in Germania durante i roghi di libri, questi materiali saranno dati alle fiamme.

Questa è la stima dei documenti distrutti durante la guerra:
80.000 libri antichi stampati
26.000 manoscritti
2.500 incunaboli
100.000 fra disegni e incisioni
50.000 pezzi di musica da spartito e materiale teatrale.
oltre 6 milioni di volumi contando le principali biblioteche di Varsavia nel 1939
Ad andare persi, in Polonia, durante il secondo conflitto mondiale circa 3,6 milioni di libri, gran parte di essi appartenenti alla Biblioteca nazionale.

Gli edifici della Biblioteka Narodowa, ricostruiti fra il 1962 e il 1976, si trovano in Aleja Niepodległości 213 a Varsavia. Alla fine del 2016 secondo le registrazioni la Biblioteca nazionale polacca comprendeva oltre 8.500.000 di unità, 162.000 volumi di stampa pubblicati prima del 1801, oltre 26.000 manoscritti, di cui oltre 7.000 manoscritti musicali, più di 120.000 stampe musicali e 485.000 disegni, oltre 130.000 atlanti e mappe, più di 2.000.000 di libri e documenti sulla vita sociale, oltre 1.000.000 riviste del XIX e XX secolo, senza contare le 151 foglie del Codex Suprasliensis, nel 2007 incluso nel programma Memoria del mondo UNESCO.

Storie di libri: libri pensati, libri temuti e distrutti, libri che viaggiano e fanno ritorno, libri di nuovo donati e cercati. Libri che non si arrendono. Luoghi che si trasformano

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Il senso nascosto del divertimento

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“Se voglio divertirmi leggo”, è questa riflessione a inaugurare il Maggio dei libri 2019. Divertimento, una parola da masticare di nuovo, lentamente: che sapore ha nella nostra vita? Il filosofo greco Platone, vissuto intorno al 300 a.C., riguardo all’educazione e all’infanzia spiegava che la prima educazione dovrebbe essere proprio questo, una sorta di divertimento: un atteggiamento capace di mettersi in contatto con l’inclinazione naturale del bambino e trovare connessione, terreno fertile di idee e passioni che sbocciano da sé, apertura verso il mondo, naturale miccia di curiosità.

Io penso che il divertimento sia una cosa seria
Italo Calvino

Oggi le ricerche di discipline diverse trovano un punto di incontro nella direzione tracciata su questa strada antica. Sì, perché se abbiamo la possibilità di esplorare in libertà e lasciarci andare alla meraviglia, impariamo senza sforzo. Mentre ci divertiamo liberiamo noi stessi dal fastidio del dover fare e dalla pesantezza del dover essere: siamo quello che siamo, pienamente immersi nell’attimo del qui e ora, così com’è. Semplicemente.

Dalla naturale curiosità dell’essere umano, in forma di bambino, si dipana il filo di una conoscenza che ci porta lontano e tesse il nostro essere nel mondo. Diventiamo adulti e al tempo stesso restiamo piccoli, perché è la passione insaziabile di chi non si accontenta, è la fame della domanda inquieta e curiosa che si agita in noi, ciò che ci salva e fa uscire dagli edifici che ci costruiamo intorno, anno dopo anno, andando avanti nella vita. Edifici fatti di simboli e idee, di questo si tratta. L’esperienza che facciamo del mondo, vissuta sulla pelle, è la parete su cui arrampicarsi e guardare fuori; la dipingiamo con sfumature diverse e parole che ognuno sceglie in base al proprio vissuto. È ciò che ci permette di crescere e diventare ciò che siamo, eppure con gli anni questo si trasforma, sempre più solido e altrettanto rigido, nel muro delle nostre convinzioni.

Le finestre cognitive sono tutto ciò che possiamo accettare di far passare nella nostra mente, o che respingiamo per la nostra incapacità di guardare ciò che appare impossibile.

Attenzione, non impossibile in generale, bensì per noi. L’impossibile è il non-possibile in base alla nostra esperienza, ciò che irrimedialmente cozza contro le nostre convinzioni sul mondo e sulla vita. Ecco perché la saggezza di ogni popolo da secoli ci ricorda che il senso che diamo all’esistenza è ciò che dà forma al mondo: al nostro mondo, il nostro personale universo, quello in cui ci muoviamo e affrontiamo ogni giorno per il tempo che ci è dato vivere su questo traballante pianeta terra.
Il mondo narrato è il mondo vissuto, queste due realtà si intrecciano inestricabilmente come il filo di un ordito misterioso che nasce e si sviluppa da piani diversi, fatti di un’unica materia.

Noi siamo le storie che ci raccontiamo. E il modo in cui raccontiamo la nostra storia, nel bene o nel male, ci salva o affoga. Ci lascia uno spiraglio di luce o ruba energia, aggiunge speranza o la nega. Il nostro modo di dare senso alle cose e alla vita crea la realtà che viviamo, ogni giorno.

Anno dopo anno, il rischio è proprio questo. Sopravviviamo a noi stessi, agli eventi e alle piccole o grandi tragedie della vita: sopravvissuti lo siamo già, ognuno alla propria complessa esistenza, in questo esatto momento. Ma più passa il tempo, più il frutto della nostra esperienza diventa un nocciolo duro, essenza poco incline al cambiamento. All’elasticità del bambino si oppone la rigidità dell’adulto: due condizioni, quella del bambino e dell’adulto, che in fondo esulano dallo stato anagrafico per condensarsi in uno stato dell’essere.

La finestra tende a chiudersi, è inevitabile? NO. Forse la lotta più difficile è quella verso se stessi, per lasciarsi liberi dalle convinzioni che pensiamo di aver trovato, dai valori dati come massime inalterabili. L’esperienza che per me può aver funzionato per te magari non vale. Magari non vale neanche per me, in altri tempi e contesti.

Fare l’impossibile è una specie di divertimento
Walt Disney

Il divertimento ci insegna che un altro modo è possibile. Accade quando penso all’impensabile; quando mi lascio andare e mi immergo nell’autenticità, pura e cruda, della scoperta. “Scoprire” è sempre atto di meraviglia perché significa sospensione di giudizio e manifestazione della catarsi, trasformazione: “epìphaneia”, rivelazione, che negli antichi templi greci era fugace apparizione di un dio calato dall’alto, simbolo di un mistero che accade all’improvviso, che fugge dal noto per camminare brancolando nel buio.
Il nuovo prende forma nel buio dell’ignoto.

Da dove viene la parola divertimento? L’etimologia di questa parola, così come il verbo “divertire” e “divertirsi”, rimandano al termine latino divertere, ovvero “deviare, andare in un’altra direzione, volgere altrove”. Mentre mi diverto, io vado via; anzi, è il mio “io”, quello che di solito riconosco come “io” a sparire. Nella mia mente si apre lo spazio per un viaggio nell’altrove. Altrove: un posto speciale, il posto magico in cui io posso fuggire e andare lontano, anche solo per un attimo. (S)fuggire dalle costruzioni e dalle costrizioni, da tutto ciò che mi accerchia e mi assedia, dalla guerra mia e del mondo: qui trovo pace, ho spazio per respirare.

Quando leggo mi diverto
Quando mi diverto… vado altrove

Attraverso il gioco apro la porta che rende possibile l’impossibile. Entro in una stanza dove le pareti hanno un orizzonte infinito e inizio a sognare.
Lo psicologo ungherese Mihaly Csikszentmihalyi lo ha chiamato stato di flow. Si tratta dell’esperienza di flusso: è lo stato di coscienza che possiamo sperimentare quando siamo immersi in un’attività che ci prende completamente. Accade nello sport, come documentato da Csikszentmihalyi, che anni fa inizia questa indagine esaminando le performance di grandi atleti passati alla storia; le sensazioni sono simili alle parole usate dagli artisti che descrivono l’esperienza mentre sono immersi nella creazione di un’opera.

Il flow, flusso, accade mentre stiamo creando, sì; accade mentre nuotiamo, facciamo l’amore, sogniamo o ci lasciamo andare all’immaginazione. Accade mentre leggiamo o viaggiamo con il pensiero, fra i ricordi del passato o immaginando il futuro: secondo le neuroscienze quando immaginiamo di fare qualcosa nel nostro cervello si accendono gli stessi collegamenti neuronali di quando realmente facciamo quell’azione. Incredibile, vero?

Mentre leggo mi diverto. Mentre mi diverto immagino. Mentre immagino faccio un atto rivoluzionario, perché apro lo spazio per qualcosa di nuovo. Devio dalla strada dell’abitudine, scopro un percorso nuovo, scappo dalla rigidità e vado in un’altra direzione.
Mi rivolgo verso l’altrove e quando mi trovo là, in quello spazio dove “io” scompare, allora tutto accade. Mi immergo in un fiume in cui passato, presente e futuro si fondono, scavando nell’ossatura del mio cervello con le onde in piena di una trasformazione che tutto travolge, rigenera e fa risplendere di pura vita.

Ancora non si è capito che soltanto nel divertimento, nella passione e nel ridere si ottiene una vera crescita culturale
Dario Fo

Insieme al tema principale, l’edizione di quest’anno del Maggio dei libri seguirà 4 filoni tematici, con relative bibliografie, che ci portano verso percorsi differenti e ci immergono nella storia:

“Desiderio e genio. A cinquecento anni dalla morte di Leonardo Da Vinci”
“Dove sei giovane Holden? A cento anni dalla nascita di J.D. Salinger”
“Se questo è un uomo. A cento anni dalla nascita di Primo Levi”
“Guarda che luna! A cinquanta anni dall’allunaggio”

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Cliccando qui vai dritto alle bibliografie del Maggio dei Libri 2019

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Ci si mette una vita

Ci si mette una vita

A scegliere la propria direzione
A cambiare strada
A trovare il coraggio.

Sì, ci si mette una vita a fermarsi. A prendere coraggio e decidersi, a osare, a voltarsi indietro o imparare a non farlo. A correre con il proprio passo

Ci si mette una vita a
smettere di ascoltare i buoni consigli
e smettere di darli.
Ci si mette una vita a sorridere agli errori, iniziare a vederli
e poi persino rifarli. A cuor leggero, sapendo quando ne vale la pena.

Perché il senso è proprio questo.
Un senso non c’è, se non
la magia del vivere
ogni giorno
un viaggio nell’ignoto.

Ogni giorno è un viaggio che non conosco.

Terapia per l’anima, cultura che cura

Terapia per l’anima? Sì, la cultura è un aiuto alla cura

Grazie a un accordo fra il Museo di Belle Arti di Montreal e l’Associazione medici, i malati della città canadese potranno beneficiare di ingressi gratuiti per accedere negli edifici museali.

Luoghi dell’arte, terapia, per lo spirito e non solo. Gli effetti benefici della cultura si fanno sentire anche a livello fisico, spiegano le ricerche, che negli ultimi anni si interrogano sempre di più sul risvolto di pratiche simboliche, dalla meditazione all’arte, nel trattamento del dolore e della malattia.

Il progetto, che nasce in partnership fra il Montreal Museum of Fine Arts e l’associazione Médecins Francophones du Canada, per il momento avrà la durata di un anno. Al riguardo Nathalie Bondil, direttore generale del Museo delle Belle Arti di Montreal, ha spiegato che i pazienti, insieme alle loro famiglie, avranno la possibilità di sperimentare esperienze e percezioni in un luogo bellissimo e stimolante, allontanandosi per un attimo dal contesto della malattia.

Pensiamo agli spazi adibiti alla cultura: insieme alla visione potente delle opere d’arte e delle instammazioni ciò che un museo ci dà occasione di sperimentare è una passeggiata nella bellezza, in un’architettura mai banale, immersi nel silenzio, circondati da colori e forme, design e storia. Un mondo un po’ al di là della realtà, o almeno ad essa parallelo, dove ritrovare il contatto con noi stessi e fuggire, almeno per un attimo, dalla pressione dello stress.

In Finlandia, che per prima aveva iniziato un progetto pilota nel 2010, il progetto era stato chiamato Taiku, “Arte e cultura per la salute e il benessere della popolazione”: un programma culturale che ha coinvolto il Ministero della Salute e Affari Sociali, Cultura e Sport, Ambiente, Istruzione, Economia e Lavoro. Al termine dell’esperimento è stata creata una Cattedra di Cultura, Salute e Benessere presso l’Università di Turku, che oggi sta studiando gli effetti e medio e lungo termine dell’iniziativa, terminata nel 2015, per cercare di comprendere come l’arte e le emozioni positive che viviamo attraverso la cultura possano influire a livello sociale e partecipare al processo di crescita individuale.

È stato provato che vivere esperienze positive, legate alla percezione di benessere e felicità, costituisce una sorta di analgesico naturale, tanto da avere effetto anche sul dolore cronico. Dal diabete al cancro, sono tante le applicazioni di una terapia a base di cultura. Musica, arte, poesia e scrittura sono esplosioni di suoni, colori e parole capaci di accarezzare l’anima e dare tregua alla mente, portare un arcobaleno nella difficile giornata di un malato.

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La cultura aumenta la felicità

Secondo una ricerca presentata sul British Journal of Psychiatry dai ricercatori dello University College di Londra introdurre nella propria routine almeno un’attività culturale una volta al mese è in grado di ridurre il rischio di depressione del 48%. Lo studio, che è condotto su oltre 2.000 donne e uomini over 50, ha seguito i partecipanti al test per dieci anni. Sono sempre più diffuse le iniziative legate al benessere e alla cultura. Il MoMa, The Museum of Modern Art, di New York organizza visite specificamente pensate per i malati di Alzheimer e per le loro famiglie, un’esperienza su cui sta lavorando anche la Galleria d’Arte Moderna di Roma.

In un recente esperimento sono stati coinvolti 99 volontari fra 19 e 81 anni alla scoperta degli affreschi dipinti sulla volta del santuario di Vicoforte, nel Cuneese, dove si trova quella che è considerata la cupola ellittica più grande del mondo. Un tour culturale a 63 metri di altezza (con tanto di imbragature!) per immergersi nella pura meraviglia.

L’arte è antistress e ci rende più felici, ecco i risultati. La determinazione dei livelli salivari di cortisolo, l’ormone dello stress, subito prima e immediatamente dopo essere saliti sulla cupola ha evidenziato una modificazione nello stato di benessere.

Bisogno di stimoli positivi

Per la prima volta iniziamo a intrecciare in un orizzonte comune ricerca scientifica e cultura, creando i presupposti per un terreno dove coltivare quello che sarà il futuro delle Medical humanities, una parola che in italiano… ancora non esiste.

Medicina e humanities, discipline umane, iniziano a prendersi per mano immaginando una ricerca finalmente più interdisciplinare, ricca, capace di dialogare con la nostra parte più umana. Per ora questo è l’inizio, ma dobbiamo iniziare a crederci e fare qualche timido passo per poter andare verso nuove direzioni. Perché quello che vogliamo, e di cui abbiamo bisogno, è iniziare a vedere la persona che sta dentro ogni malato e concepire la cura come un universo complesso in cui possono e devono coesistere fattori diversi, dalla biologia all’etica alla filosofia e l’arte.

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Il tempo che ci vuole

Quelle telefonate appena sveglia, il caffè che aspetta e tu che ti scopri ad alzare la voce, con passione, per poi renderti conto che ognuno ha i suoi tempi: anche tu i tuoi, io i miei.

Ognuno ha i suoi tempi e possono volerci anni, forse interi secoli, per arrivare a pensare e capire quella cosa magari ovvia che hai già ascoltato in passato e non avevi capito. Il fatto è che il tempo che ci passa in mezzo è quello che serve a un seme per maturare, il sole e la pioggia, l’attesa delle parole che diventano pelle ed entrano in circolo nel sangue, non più idee ma carne.

L’acqua prima di bollire.
Il sole coperto dalle nuvole e poi il cielo spazzato dal vento.
La ore di luce già finite.
Il senso di attesa e la sensazione che
se saremo fortunati
ci attende
un altro domani
su cui
cammminare

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