Primo giorno di primavera, Capodanno in Iran

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Mentre in Occidente si festeggia l’equinozio, fra il 20 e il 21 marzo in Iran si festeggia Nowruz. Il senso di questa festa, che letteralmente significa “nuovo giorno”, da una parte all’altra del Mediterraneo evoca il giallo e il rosso, fuoco che è sole, rinnovamento, vita. Natura che sboccia e rinasce. Vita che si rinnova.

La sera ci si raduna intorno all’Haft-Sin, il tavolo dei sette simboli, dove ogni elemento richiama un principio vitale. Un tempo era occasione per scherzare e ritrovarsi insieme alla famiglia, a cucinare e mangiare i piatti a base di mahi, pesce, e sabzi polo, il tradizionale riso con verdure. Il profumo lontano delle spezie e le ricette delle nonne chiuse in un cassetto, oggi diventano profumi evanescenti dall’altra parte dell’oceano. Al di là del mare, le famiglie: famiglie divise dalla storia e unite dal filo sottile della linea internet che diventa comunicazione, parole d’amore, vicinanza condivisa.

Per paura del contagio Covid-19 le autorità iraniane hanno rilasciato circa 70mila detenuti, temporaneamente rimessi in libertà. Ma molti rimangono in carcere, detenuti politici, uomini e donne che si battono per il diritto a vivere in libertà. In Occidente viole e primule, qui fioriscono i tulipani, che oggi evocano il sangue dei martiri e nelle Mille e una notte erano simbolo d’amore, quando nel regno di Persia i sultani ottomani gettavano un fiore di tulipano alla favorita scelta quella sera.

A passo rapido attraverso i giardini degli harem segreti, dal giardino botanico di Shiraz alle fioriture del deserto. I riti di primavera rievocano i fuochi sacri del culto di Zoroastro e illuminano la notte, quando saltando il falò si bruciano d’un balzo i peccati accumulati nell’anno, gli sbagli e e gli orrori, per purificarsi nel cielo stellato.

“Har ruzetan Nowruz, Nowruzetun Piruz”
Ogni vostro giorno sia Nowruz,
e il vostro Nowruz sia vittorioso

Abbracci, uova dipinte, la bellezza della rinascita: la festa di Nowruz nel 2009 è stata eletta Patrimonio Intangibile dell’Umanità.

La tradizione inuit di camminare le emozioni

Per prepararci al viaggio verso il Polo Nord del 1990 e testare l’attrezzatura, io e i miei compagni trascorremmo alcune settimane a Iqaluit, una cittadina nel nord est dell’arcipelago artico canadese. In quell’occasione venni a sapere di una bella tradizione inuit: quando ti arrabbi al punto da non riuscire a controllare le tue emozioni, sei invitato a lasciare la tua abitazione e a camminare in linea retta attraverso il paesaggio che ti si para di fronte, andando avanti finché la rabbia non passa. Il punto esatto in cui l’emozione molla la presa viene dunque marcato, infilando un bastone nella neve. In questo modo si misura la lunghezza, ovvero l’intensità, della rabbia. La cosa più sensata che possiamo fare quando siamo arrabbiati, condizione in cui il cervello rettiliano guida le nostre azioni, è allontanarci dalla persona o dalla situazione che ci ha provocato quella reazione.
Erling Kagge,
Camminare. Un gesto sovversivo
la Repubblica, p. 84

Autore del libro “Camminare. Un gesto sovversivo”, Erling Kagge, nato il 15 gennaio 1963 in Norvegia, è esploratore, avvocato, collezionista d’arte. Insieme a Børge Ousland, fotografo, scrittore ed esploratore, che per primo ha attraversato l’Antartico in solitaria, nel 1990 raggiunge il Polo Nord senza supporti esterni, ovvero senza il sostegno di slitte o un team.

Le feste del fuoco

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L’Immacolata Concezione nella Sicilia del Quattrocento veniva festeggiata con grandi fuochi accesi nei crocicchi delle strade. Si bruciavano fascine dove ardevano paglia, legno di ulivo e mandorlo, rimanenze di fine stagione, quando nelle campagne con la fine della bella stagione e l’arrivo dell’autunno si preparava la natura per l’inverno, tagliando e potando in vista dell’inverno. Un tempo sull’orizzonte dei campi brulli ricoperti di brina si vedevano volare palloni aerostatici di carta velina colorata. Nel giorno della festa la statua della Madonna passava attraverso il paese a passo di danza, sorretta dalle braccia degli uomini, lampita dalle fiamme dei falò e seguita dalla folla: ognuno camminava portando una torcia con cui illuminare la notte, insieme ai suonatori che cadenzano il tempo della festa a passo di musica.

Tradizionalmente erano i ragazzi e i più piccoli a occuparsi della raccolta della legna necessaria per la festa. Bambini, considerati intermediari fra il mondo dei defunti e quello dei vivi, la vita che continua fra il puro sapore dell’esistenza e l’età degli adulti, ormai sono pienamente immersi nel quotidiano: ai più piccoli l’azione del furtarello viene perdonata e loro, settimane prima, iniziavano a prendere di nascosto rami e stecchi, qua e là, per farne fascine.

Il rito della luminaria la vigilia di Natale

Vampi, si chiamano in Sicilia. Una volta erano tanti, racconta qualche vecchio che oggi è proibito, ma un tempo si vedevano fuochi per tutte le campagne e lo spettacolo era bellissimo, una magia di fuoco che illuminava a giorno i campi scuri della notte invernale, quando ancora c’era chi arava, raccoglieva e seminava, vivendo del lavoro della terra. I falò iniziavano a bruciare dopo il tramonto, fra le sette e le otto di sera, per proseguire tutta la notte. Un tempo, si arrostivano salsicce da mangiare tutti insieme e alla fine della notte, quando non rimanevano che braci, i ragazzi più giovani giocavano a saltare oltre i tizzoni: una prova di coraggio e forza, un rito di iniziazione dimenticato.

In Sicilia la luminaria era il rito di accendere i fuochi la notte del 24 dicembre. A Isnello, un borgo della provincia di Palermo, situato a 550 metri d’altitudine, la sera della vigilia da secoli viene accesa una grande catasta di legna. Se i falò tradizionalmente venivano accesi in diversi periodi dell’anno, fra cui inizio primavera e estate, quelli d’inverno per secoli hanno utilizzato legna che doveva durare: rovere, faggio e quercia raccolti nei boschi disposti in modo da bruciare a lungo, per tutta la notte. È la tradizione del ceppo, che esiste in diversi luoghi d’Italia e del mondo. Dentro la bocca, dove è stata versata nafta, viene inserita una torcia da cui si sprigiona la fiamma che alimenterà il fuoco. A Montaperto, borgo siciliano intorno ai vampi, i tradizionali falò, si suonava e si cantava; nei rioni dei vari quartieri si addobbava i figureddi, edicole sacre che venivano decorate con arance e sparacogna, l’asparago selvatico.

Vampi, le feste dei falò in Sicilia

Ciminna, Agrigento, Floridia: in alcuni luoghi le feste del fuoco in alcuni luoghi della Sicilia duravano per tutto il periodo fino a Natale e si ripetevano più avanti, in gennaio, in alcune date particolari, per esempio il 20 gennaio per le celebrazioni di San Sebastiano e il 3 febbraio, San Biagio. A Burgio, in provincia di Agrigento, si facevano dei grandi falò, i vamparotti, in occasione di Sant’Antonio. I ragazzi del quartiere raccoglievano rami d’ulivo, cartoni, vecchi oggetti e i contadini contribuivano con legna da bruciare in onore del santo. Anziani raccontano che un tempo il fuoco era potente e i falò superavano in altezza le chiese: venivano accesi nei campi, ma anche sul sagrato delle chiese. Per la festa di Sant’Antonio e San Sebastiano quando le fiamme calavano la brace veniva raccolta nei vasi di terracotta, i pignatelli; i più giovani tiravano sassolini per ritardare la raccolta delle braci e nel frattempo saltavano sul fuoco, un rituale che risale alla notte dei tempi, quando il fuoco era fonte di calore e simbolo di rinascita, stagione che si chiude, anno agricolo da terminare dopo la potatura autunnale e buon auspicio per il nuovo da iniziare, il cui seme è già in attesa della luce futura che arriverà dopo il periodo di tenebre invernali.

A raccontare le feste del fuoco in Sicilia è Ignazio E. Buttitta nel suo libro “Le fiamme dei santi. Usi rituali del fuoco in Sicilia” (Meltemi). Nel 1999, anno di pubblicazione del volume, scriveva questi appunti nel suo viaggio etnografico attraverso i borghi marinari delle vicinanze di Messina. Su tutto il litorale da Sant’Agata a Torre Faro la notte di San Giovanni, il 24 giugno, è illuminata dalla luce dei fuochi.

L’abitato di Torre Faro occupa la punta estrema del Capo affacciandosi sullo stretto. Proseguendo verso Messina si incontrano Ganzirri e Sant’Agata. I tre villaggi sorgono sull’area di tre antichi omonimi casali e fanno oggi parte dell’XI quartiere ‘Peloro’. In quest’area si svolgono ancora alcune attività legate allo sfruttamento del mare come la pesca del pesce spada e l’allevamento dei mitili, o la costruzione di barche. Numerosi abitanti di Torre Faro e Ganzirri lavorano sulle navi, donde un rapporto particolare di scambi con Genova.

Ho osservato otto falò, cinque a Torre Faro, tre a Ganzirri. Sono costruiti con materiale di risulta d’ogni sorta (vecchio fasciame di barche, materassi, vecchi mobili, porte, persiane, cassette di frutta, poltrone e quant’altro), oltre che tronchi e fascine che non ci si preoccupa di rubacchiare nei poderi limitrofi. I falò vengono accesi intorno alle 21.30 e sono gestiti prevalentemente dai giovani. Dell’organizzazione e gestione del fuoco, a memoria d’uomo, si sono occupati sempre i ragazzi.

Dal solstizio d’inverno al solstizio estivo, il rito del fuoco

Fuoco domestico, da sempre territorio femminile, fuoco sociale, luogo al maschile. Femminile e maschile, due spazi e due dimensioni esistenziali in cui vivere il fuoco. Fuoco

Li hanno fatti quest’anno i falò? – chiesi a Cinto.
Noi li facevamo sempre. La notte di S. Giovanni tutta la collina era accesa.
Poca roba, – disse lui. – Lo fanno grosso alla Stazione, ma di qui non si vede. Il Piola dice che una volta ci bruciavano delle fascine.
Chissà perché mai, – dissi, – si fanno questi fuochi.
Si vede che fa bene alle campagne, – disse Cinto, – le ingrassa.
Cesare Pavese, La Luna e i falò, 1949

La notte di san Giovanni è un momento sacro dell’anno, da tempi immemorabili. Si raccolgono le erbe spontanee, come l’iperico, che servirà per fare l’olio di San Giovanni, ricco di proprietà cicatrizzanti e da usare tutto l’anno per la cura della pelle. All’alba ci si rotola sui prati e si bagnano gli occhi con la rugiada fresca, come protezione dalle malattie. Tradizionalmente ancora oggi il 24 giugno si raccolgono le noci ancora verde da incidere e mettere a bagno nell’alcol per la preparazione casalinga del nocino. I Fenici, popolo di naviganti, celebravano Moloch, dio del fuoco: all’epoca le coste dell’Europa erano illuminate dai bagliori dei fuochi delle feste sacre, che celebrano il ciclo dell’anno, stagione dopo stagione. Dopo il periodo fra novembre e dicembre, il più oscuro, quando la luce raggiunge il minimo e il fuoco celebra simbolicamente la vittoria del sole sull’oscurità, con Calendimaggio, le calende di maggio, si festeggia la rinascita della luce insieme ai riti dell’equinozio di primavera, il 20 marzo. Mentre i giugno quello che resterà noto alla storia come giorno dedicato a San Giovanni corrisponde alle celebrazioni del solstizio d’estate, 21 giugno, quando si accendevano un fuoco per dare forza al sole. Sì, proprio così, i popoli antichi, fini osservatori della natura, a diferenza nostra conoscevano profondamente il sole e la luna perché ogni fase della giornata si muoveva secondo il ritmo di un tempo che era quello della natura.

L’uomo antico sapeva bene una cosa su cui quasi oguno di noi si inganna: l’estate ci sembra eterna, il sole invincibile. Eppure proprio a partire dal 21 giugno, giorno del solstizio, quando per la maggior parte di noi le vacanze non sono ancora iniziate e l’estate suona ancora come una promessa, la luce inizia a calare, inesorabilmente. Ecco perché si accendevano fuochi per dare aiuto alla luce del sole. Per ricordarci che sì, la bella stagione finirà ancora una volta; torneranno l’equinozio d’autunno, tra il 20 e il 22 settembre, quando le feste del raccolto iniziano a segnare la fine dell’anno agrario, che ufficialmente termina in novembre, e poi il solstizio d’inverno, 21 dicembre.

Affronteremo di nuovo il gelo dell’anima e l’oscurità, la difficoltà di un inverno del cuore, il buio che fa paura.
Ma il fuoco, la fiamma da animare con candele e persino, oggi, con lucine a intermittenza,
ci ricorderà che la luce tornerà
e il fuoco è il calore che abbiamo dentro,
una passione con cui incendiare la notte
e ballarci dentro, mai stanchi,
danzando coraggiosamente nelle proprie paure

Feste del fuoco in giro per l’Italia

Oltre alla Sicilia troviamo feste del fuoco in molti luoghi d’Italia. In provincia di Siena, ad Abbadia San Salvatore la notte del 24 dicembre nel centro storico viene creata la Città delle Fiaccole e si incendiano immense piramidi di legna con la cerimonia di accensione e la benedizione del fuoco. Sempre in Toscana, a Gorfigliano, provincia di Lucca, si festeggia la notte della vigilia con i Natalecci, falò accesi sulle colline tutt’intorno, un tempo fatti con rami di ginepro e castagno.

Sono tanti i falò accesi nel cuore dell’inverno, più o meno noti, capaci di rievocare riti di radici diverse ma sempre con il fuoco al centro, come la Giöbia, la vecchia strega, rappresentazione dell’inverno, ogni anno ancora occasione di festa in Lombardia, quando si bruciava il fantoccio mangiando riso e luganega, il risotto con la salsiccia piatto tipico di quelle zone.

D’estate in Versilia si accendono i falò chiamati focate la sera del 27 agosto, per Sant’Ermete. Fuochi d’artificio e falò anche per San Lorenzo a Seravezza dove il fuoco viene suggestivamente preparato nel greto del fiume. Falò e feste con il fuoco in Abruzzo, Molise, Puglia, come la celebre focara di Novoli nel Salento dove si dà fuoco a un’altissima pira composta da fasci di vite.

Hai mai sentito parlare della festa del Loi Krathong? Un rito antichissimo della Thailandia, dove si lasciano andare le lanterne volanti affidandole alla notte e ai fiumi, preghiere che fluiscono insieme all’acqua e all’aria

 

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La festa del Loi Krathong

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La festa del Loi Krathong è un rito antichissimo. Ogni anno il festival delle lanterne illumina la Thailandia portando il senso di un nuovo inizio: tradizionalmente è la notte di luna piena del dodicesimo mese del calendario Thai, una ricorrenza che, nello stesso modo in cui accade in altre culture, segue il tempo dettato dalle fasi lunari: tempo ancestrale connesso alle acque e al femminile, ai riti della nascita e del rinnovamento.

L’istantanea che passa per la mente è quella della lanterna, volante o in acqua. Nel Loi Krathong, che viene celebrato in alcune regioni della Thailandia, le lanterne vengono fatte galleggiare sul fiume, mentre chi festeggia Yi Peng, nel nord della Thailandia, ogni famiglia affida la sua lanterna al cielo. La notte si accende di mille luci che percorrono il piccolo mondo di queste terre antiche: dall’acqua all’aria, lanterne in movimento, anime viaggianti che un po’ ci ricordano quello di cui anche noi umani siamo fatti, terra e cielo.

Loi Krathong, che cos’è?

La parola Loi Krathong significa “cesto che galleggia” e secondo la tradizione è così che ognuno costruisce, con le proprie mani, il rito: una piccola zattera galleggiante fatta con un pezzetto di tronco di banano rivestito di foglie e fiori di loto. All’interno una candela accesa, simbolo luminoso della consapevolezza dell’Illuminazione, fiori e tre bastoncini di incenso, uno per il Buddha, uno per la comunità buddhista e infine uno per il Dharma, una parola della lingua sanscrita che ha un significato vicino all’idea della “legge universale”, la “verità”, “legge naturale” ed etica di come le “come le cose dovrebbero essere” nei rapporti fra esseri viventi.

In Thailandia è diffuso il Buddhismo della scuola Theravada, proveniente dallo Sri Lanka. Se il Buddhismo si basa sulla filosofia di vita mostrata nel VI secolo a.C. dal principe Siddharta Gautama, qua e là in molte regioni thailandesi emerge l’induismo vedico, derivato soprattutto dalla Cambogia, di cui rimane traccia in diversi riti. L’animismo, la percezione ancestrale che tutto abbia un’anima, è una delle radici più antiche della vita spirituale della società umana, una percezione che si perde nella notte dei tempi, lontano, una notte preistorica che crediamo aver dimenticato o che pensiamo di aver conquistato con la superiorità della modernità. In Asia la nostra matrice animista è ancora possibile toccarla con mano: un esempio di questa ritualità primigenia è rappresentato dalle case degli spiriti, piccole costruzione che è facile vedere di fianco a tanti edifici thailandesi, dimore o persino centri commerciali.

Buddhismo, induismo, animismo

Con il festival Loi Krathong si onora, racconta la tradizione buddhista, l’impronta che il Buddha lascia sulla riva del fiume Nammathanati, in India. Ma la voce del vento narra anche della divinità femminile Phra Mae Khongkha, Madre Acqua, di cui esiste figura simile nell’induismo. Il Loi Krathong, durante il quale ilpopolo thailandese affida preghiere fatte di legno, fiori e luce al fiume avrebbe a che fare anche con questo ulteriore simbolo di vita: l’acqua. Acqua che è pioggia benefica per i raccolti, acqua che è vita come nelle nascite; acqua, quella di fiumi possenti come il Chao Phraya a Bangkok, il Mekong, il più lungo dell’Indocina o il sacro Gange, a cui affidiamo i dolori, la morte e le sventure che vogliamo lasciar andare: acqua che libera e fa dimenticare, acqua che benedice e con il flusso ci ricorda che il tempo sacro dell’esistenza è capace di rinascere dal movimento. I ricordi se li porta via il vento e noi restiamo qui, più leggeri, dopo aver affidato la luce della nostra speranza alla corrente millenaria della vita.

Radici millenarie provenienti da culture diverse, rami di un unico albero, mescolano elementi della natura, sovrappongono date, creano collegamenti: diventano rete da percorrere dove ritrovare sensi smarriti nelle trame del tempo e ogni volta rinnovati, anno dopo anno, come un patto fra noi e il mondo, l’universo di senso a cui decidiamo di partecipare con la nostra narrazione dell’esistenza.

Sukhothai

Sukhothai, patrimonio Unesco dal 1991, oggi è un parco archeologico dove sono custodite le rovine del palazzo imperiale e dei 26 templi che sorgevano qui: leggenda racconta che qui venne celebrato il primo Loi Krathong della storia.
Dal tredicesimo al diciottesimo secolo nel nord della Thailandia si estendeva il Regno Lanna: “un milione di campi di riso” è il significato del suo nome, che ci fa immaginare le verdi vallate dell’Indocina che per molti anni saranno dominate dal re guerriero Mengrai, che nel 1296 fonda Chiang Mai, letteralmente “città nuova” e il nuovo Regno Lanna. Il Loi Krathong coincide con gli antichi festeggiamenti di Yee Peng risalenti al Regno di Lanna, ecco perché nelle zone intorno all’antica capitale Chiang Mai resta, indelebile, il simbolo del fuoco ma le le luci sull’acqua si trasformano in lanterne volanti. La geografia, ancora una volta, racconta storie differenti che intrecciano luoghi diversi lasciando intatto il senso profondo di un rito simbolico che parla del patto di rinnovamento con la vita, della luce che sconfigge le tenebre per portare nuova speranza.

Tradizionalmente i cesti del Loi Krathong sono realizzati con foglie e fiori di banano, ma negli ultimi anni sempre più spesso viene utilizzata la plastica. Questo è il motivo per cui il governo di Bangkok in occasione del Loi Krathong 2019 ha chiesto che l’offerta per Loi Krathong sia un cesto per famiglia: fiumi e mare più puliti, si spera per il futuro.

Dove abiti ci sono feste del fuoco? Fin da epoche antiche sono diffuse ovunque, fra tanti popoli del mondo. Si tratta di riti ancestrali, che ancora oggi ci ricordano una speranza di luce capace di combattere il buio dell’inverno.

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