Holi, festa dei colori all’inizio di primavera

In India Holi è alla fine dell’inverno e preannuncia la nuova stagione, l’arrivo della primavera: segna un giorno di festa in cui celebrare la vita, fare pace, pregare e ripartire riparando ciò che ha bisogno di nuova luce.

La festa di Holi inizia di notte, davanti al fuoco. Tra le fiamme danza il demone Holika Dahan, la cui storia è stata raccontata tanto e tanto tempo fa sulle pagine dei sacri libri dei Veda. Holikā Dāhana significa “Holika che brucia”, in sanscrito, che è la lingua in cui sono scritti i Veda. La storia racconta che Shiva ridusse in cenere il demone Holika con il suo terzo occhio: ogni anno si rivive questo rito ballando e pregando intorno al fuoco.

Non è l’unica leggenda, di storie ne circolano moltissime. A seconda della regione geografica può variare il racconto e il contesto, eppure questo rito di accendere un fuoco nella notte a me ricorda i falò che anticamente bruciavano alla fine dell’inverno anche nelle nostre campagne, che oggi rimangono in forma di rito e festa. E Holika Dahana, questo demone che brucia nelle fiamme, in fondo mi sembra che suggerisca a ognuno di noi di incontrare i suoi demoni: l’ombra si incontra nell’oscurità, la notte che a qualsiasi età sa scatenarci dentro emozioni primordiali. I demoni della rabbia, tristezza, paura ci mettono in guardia sui nostri umani, umanissimi, limiti: è sulla soglia, al confine di noi, che sappiamo prenderci cura della nostra pelle e rimetterci in pace con tutto ciò che – non- possiamo. Sì, abbiamo dei limiti. Anche la vita li ha. Questo meraviglioso viaggio ha un inizio e ha una fine. Al termine dell’inverno il seme, che è rimasto rinchiuso mesi nella oscura terra, muore e si trasforma: alcuni si fonderanno con il fango e la pioggia, nella terra, altri diverranno pianta. La morte, la nostra paura più grande e ineludibile, si fa tangibile e nel sole della primavera che si affaccia celebriamo di nuovo la vita, con emozione, altrettanta paura e vulnerabilità, con tenerezza e col respiro in sospeso

In India e in Nepal nei giorni prima di Holi si accendono pire e il fuoco brucia, simbolo di purificazione e rigenerazione. Al mattino del giorno di Holi si gioca con le polveri colorate simbolo di questa festa, che ogni anno torna all’inizio di marzo, in giorni simili ma diversi poiché in India si segue il calendario lunare.

La storia del re Hiranyakashipu

Desidera la vita eterna Hiranyakashipu ma non può chiedere l’immortalità. Il dio Brahma gli concede cinque desideri: non morirà “né fuori né dentro la sua residenza, né di giorno né di notte, né in cielo né in terra, né a causa di un essere inanimato o un animale”. Hiranyakashipu nel cuore nasconde uno sterminato odio verso il dio Visnu a causa dell’uccisione di suo fratello. Nel suo regno proibisce il culto di Visnu tuttavia a disobbedire è proprio suo figlio. Prahlada, infatti, cresce devoto a Visnu: dopo aver cercato di dissuaderlo e convertirlo il re prova a uccidere il figlio, ma alla fine sarà lui a morire. Considerato un demone dalla mitologia indiana, Hyranyaksha verrà sventrato e divorato dagli artigli di Narasimha, incarnazione di Visnu, né essere inanimato né essere vivente, al crepuscolo, quindi né notte né giorno, sulla soglia del suo palazzo, né dentro né fuori. Anche Visnu cadrà preda dell’ira e solo il saggio, mite Prahlada riuscirà a fermare la sua incontenibile rabbia.

Il lato ombra dietro al demone

Machig Labdrön, maestra e asceta nata intorno al 1055, in Tibet diede forma a una pratica spirituale che si diffonderà con il nome Chöd, letteralmente “separazione, rottura, o tagliare”.

“I nostri demoni sono ciò di cui abbiamo paura. Come diceva Machig, qualsiasi cosa blocchi la nostra libertà interiore è un demone. Machig parlava anche di dei-demoni. Gli dei sono le nostre speranze, ciò che ci ossessiona, che desideriamo intensamente, i nostri attaccamenti”

Tsultrim Allione, “Nutri i tuoi demoni”

Che differenza può esistere fra la speranza e ciò che speranza non è più? Forse solo un margine sottilissimo, e ciò nonostante evidente. Potremmo definirla aderenza alla realtà, eppure non può essere solo questo. I sognatori sanno che a volte per custodire e portare in porto una grande impresa è necessario battersi anche contro ciò che è ragionevole. Ma quando la speranza di qualcosa diventa ossessione allora l’idea ci tiene prigionieri: succede anche in amore, o nella passione per qualcosa. Fingere che non sia importante non è la strada: non si smette di amare solo perché lo si vuole, non si smette di essere arrabbiati o tristi solo perché si butta l’ombra da una parte. Anzi, nell’oscurità l’ombra diventa più grande.

Facciamo un esperimento, scrive Tsultrim Allione nel suo libro, che forma daresti al tuo dolore? Una sedia vuota di fronte a noi: ci sediamo. Chiudo gli occhi. Respiro. Che forma ha… l’emozione che sto provando? Se dovessi disegnare che colori userei? Scopro che a seconda del tempo diversi sono i miei demoni, alcuni bellissimi, altri che mettono terrore solo a guardarli. Perché c’è sempre un filo di paura a guardare negli occhi un demone, ma forse proprio quel filo ci porta davanti alla vita e alla morte, alle cose importanti dell’esistenza.

A volte, più spesso di quanto pensiamo, guardi un demone negli occhi e scopri che quello sguardo lo conosci, lo conosci bene. E ricordiamocelo, anche la parola “felicità” ha a che fare con i demoni: dal greco eudaimonia, eu-buono, daimon, demone. Che ad accompagnarci e possederci sia un demone benefico. Abbracciare il demone, quello più pungente e oscuro, forse significa proprio questo, addomesticare e trovare un punto di connessione con il selvaggio che è in noi, una zona fra ombra e luce dove tendere la mano e trovare il contatto, al di là della rabbia, della tristezza e della paura.

Luce e ombra danzano insieme

A chilometri e chilometri dall’India e dalla turbolenta storia di Hiranyakashipu viene in mente Serse, il re della Persia, figlio di Dario, che nel 485 a.C sale sul trono e vuole conquistare la Grecia. Serse aveva una flotta potente e un esercito di duecentomila soldati di tantissime diverse nazionalità: nel giugno del 480 aC attraversa lo stretto dei Dardanelli, allora chiamato Ellesponto. A causa di un traditore, Efialte, che confida l’esistenza di un sentiero segreto, l’esercito persiano riesce a sorprendere alle spalle gli Spartani, che per due giorni alle Termopili avevano resistito eroicamente insieme al comandante Leonida: piuttosto che arrendersi i greci combattono fino alla morte. Intanto Serse continua la guerra e riesce a invadere una terra dopo l’altra, Focide, Beozia e Attica. In settembre raggiunge Atene; la città e il porto del Pireo vengono incendiati. L’ateniese Temistocle, alla guida della flotta greca, attira le navi persiane nella baia di Salamina, dove le imbarcazioni greche, più piccole e veloci, hanno un vantaggio. Serse osservava la battaglia da un trono posto ai piedi del monte Egaleo: in dodici ore la flotta persiana viene distrutta.

Erodoto racconta che per consentire il passaggio del suo esercito sull’Ellesponto Serse aveva fatto costruire un ponte sullo stretto vicino alla città di Abido, in Asia Minore, e un altro, nello stesso periodo, fu costruito presso il monte Athos. Una tempesta distrusse il ponte e Serse decise di punire il mare, con trecento frustate e maledizioni. La cultura greca definirà gesti come questo un’azione legata all’hybris: è l’arroganza di chi pecca commettendo azioni ingiuste senza comprendere il giusto limite, per il piacere di umiliare. Ancora una volta, il limite. Serse non è invicibile, anzi ironicamente il mare sarà teatro della sua sconfitta definitiva. Saturno è destinato a essere sconfitto e da suo figlio: il Tempo non si può arrestare, l’umana lezione è un lento imparare i cicli della natura. Hiranyakashipu non può essere immortale. Eppure, dentro ha un dolore che non dà pace, per la morte del fratello: la tristezza, quando non viene riparata, si trasforma in un demone di rabbia che tutto vorrebbe possedere e distruggere. Persino Visnu, il grande dio Visnu, signore che preserva e custodisce l’equilibrio del mondo, non è immune dalla rabbia.

Attraverso le polveri colorate di Holi possiamo ricordare a noi stessi, di nuovo, che tutto è in grado di trasformarsi. Mai come in questo tempo dell’anno in cui non è più inverno e ancora non è primavera ogni cosa è mobile, nella natura e in noi. In Europa è il momento delle ultime nevicate e dei primi coraggiosi fiori; la forza della luna piena, il sole che sta per ritornare, forte sulla pelle e nell’anima; l’attesa dei semi e delle piante messe a dimora. Ce la faranno? (Ri)nasceranno? La morte danza con la vita, la vita danza con la morte. Sempre. Ogni giorno è un viaggio di cui non conosco la fine né l’inizio. Solo, viviamo. Danzando. Celebrando i colori che sono dentro di noi e che iniziamo a ritrovare là fuori, fra gli alberi e la natura che inizia una nuova stagione.

La festa di Hannukkah

Mentre si festeggia l’attesa del Natale, quasi negli stessi giorni, si celebra come ogni anno Hannukkah, o Chanukkah. Al tramonto di ogni sera si aggiunge una luce, una candela all’arrivo della notte, per otto giorni. Una settimana più un giorno.

Gerusalemme: la Giudea è occupata dall’esercito di Antioco IV, re di Siria, che a Babilonia e in Antiochia inizia a costruire templi e ginnasi come nelle città greche. Questo re di notte amava vagabondare da solo, o con qualche amico, per i vicoli della città, si fermava a parlare con la gente, nascondendo la sua identità sotto la maschera di un abito qualunque. Amava gli scherzi e le feste. Tu pensa che sorpresa quando da una tasca spuntava una collana di preziosi o una moneta brillare nell’oscurità: l’oro finiva nella casa di uno del popolo, incontrato per caso quando la luna dissimula la persona che appare al giorno e scopre chi siamo, dentro. Dopo l’assedio e il ritiro da Alessandria d’Egitto, Antioco si ferma a Gerusalemme: la città è saccheggiata e molti degli abitanti uccisi, la religione ebraica proibita: il tempio che guarda dall’alto tutta la distesa dell’abitato, stretto fra le antiche mura, sarà dedicato al dio straniero Giove.

Ma un pugno di uomini, guidati da Mattatia, si dà alla macchia e organizza la resistenza. Quando Mattatia muore il comando passa a Giuda Maccabeo, un condottiero discendente di un’antica famiglia. Nel libro del profeta Daniele si racconta questa storia e di come re Antioco IV Epifane un giorno morì, non è noto se cadendo da un carro durante la battaglia, se assassinato dai sacerdoti di un’altra dea straniera, la babilonese Nanea, signora della natura e della fecondità, o per una grave crisi depressiva. O, più probabilmente, in Persia, malato di tisi. La storia si confonde e rimescola.

I Maccabei ripuliscono il tempio dagli dei stranieri, Gerusalemme è illuminato dal sole di un nuovo giorno. “Consacrazione” o “inaugurazione” è il significato della parola Hannukkah, che ricorda la costruzione del nuovo altare nel Tempio dopo la liberazione della Giudea dall’invasione dell’esercito di Antioco IV, il 25 di Kislev. Nel momento della consacrazione doveva essere acceso un lume con olio di oliva puro, tuttavia non se ne trovò abbastanza, si racconta nel Talmud.

C’era olio solo per una notte. Ma l’olio durò otto giorni, da qui l’origine di Hannukkah, la festa della luci, quando per ogni giorno si accende una candela nella channukià, il tradizionale candelabro a nove bracci. La candela che sta al centro, chiamata shammash, serve ad accendere tutte le altre. Sembra che secondo la tradizione il diluvio universale finì proprio in questo momento dell’anno, dopo che le piogge si riversarono sul mondo durante il mese di Kislev: è il mese che ha come simbolo un arco e guarda un po’, anche del diluvio, rimase un arcobaleno come nuovo patto dell’ordine del mondo.

Questo è il mese dell’olio nuovo dopo la raccolta delle olive in autunno. Secondo il testo mistico dello Sefer Yetzirà il mese di Kislev è associato alla lettera samech, che significa “supporto” ed “è predominante nel sonno”. Diciotto minuti prima del tramonto si accendono le candele dello Shabbat. In queste sere, pochi giorni dopo la notte della festa cristiana santa Lucia, un tramonto dopo l’altro si riempiono di luce i bracci della channukià, che in alcune case se ne sta sulla finestra di fianco alla porta di casa, sulla mensola della veranda che nelle case del nord Europa si affaccia sulla strada un po’ come a prenderne un pezzo e scambiarsi frammenti di vita fra il dentro e il fuori, interno e esterno.

Nel momento più buio dell’anno accendiamo una luce sempre più forte, forse per ricordare che è da qui che accade una nuova nascita: dal buio. Al centro del buio, lì dove affonda il mistero, accade qualcosa capace di riversarsi all’esterno e inondare di senso quello che ci circonda. Ha a che fare con l’attesa, come il Natale e come forse ogni rito, specialmente in questo periodo: la veglia segna passo dopo passo il nostro esserci, abbiamo bisogno di essere svegli se vogliamo accorgerci del passaggio delle stelle attraverso l’arco del Tempo.

8 dicembre

Chi è quello? mi aveva chiesto lui, otto anni
a te chi sembra?
Un ragazzo seduto
infatti. È quello che è, una persona seduta. A volte un uomo, a volte un ragazzo.
Sì, questo l’avevo capito. Ma chi è lui, veramente?
si chiamava Siddharta, è nato così tanto tempo fa che sembra incalcolabile, 2500 anni fa. La sua era una ricca famiglia di nobili guerrieri. Viveva in Nepal, in una vallata verde fra le montagne dell’Himalaya, in mezzo a quelli che sarebbero diventati Cina, India e Tibet, ma che ancora la storia non aveva diviso.

Siddharta, racconta la voce del tempo che fu, era nato in un bosco dal fianco di sua mamma Maya, una principessa bellissima e pura come sempre vuole la tradizione in questi casi. Dal fianco, una nascita speciale, un po’ come un cesareo d’altri tempi, e se anche lui è nato così pensiamoci a questi modi di venire al mondo, strani e meravigliosi, inconsueti, da raccontarci come inizio a una vita che è già avventura.

Insomma Siddharta cresce nello splendido palazzo di famiglia. Si sposa, a sedici anni, con la principessa Yasodhara, e insieme avranno il loro unico figlio, Rahula, che diventerà un grande saggio indiano. Ma a Siddharta manca qualcosa. Sente di non aver ancora afferrato quello che c’è da comprendere della vita. Non vuole diventare guerriero, la vita di palazzo non fa per lui.

Allora, un bel giorno il principe Siddharta se ne va. A ventinove anni esce di casa, dal suo bel palazzo dove la sua famiglia ancora dorme fra cuscini di raso e tappeti. Inizia un viaggio da cui non tornerà mai più. Perché mai torniamo uguali a noi stessi quando abbiamo il coraggio di andare via veramente. Siddharta cammina e cammina. Attraversa boschi e villaggi. Incontra la gente. Gli occhi della gente. Che vive, nasce, muore, ride, piange. Siddharta si ferma, a un certo punto. Si siede, così come lo vedi, seduto per terra fra le radici di un albero antico

a occhi chiusi
il respiro, va e viene
aria che entra, attraversa i polmoni e raggiunge ogni cellula del corpo
cuore che batte

in una notte di luna piena nel mese di maggio Siddharta, lì fermo sotto quel fico antico, incontra l’infinito, che nessuno sa descrivere a parole perché tutti possiamo scoprire com’è il silenzio solo quando attraversiamo la porta della nostra solitudine. Questa notte è accaduta 2500 anni fa a Bodh Gaya, una città dell’India dove ancora questo albero esiste. Ora lì c’è un tempio.
Siddharta, che da quel momento chiamarono Buddha, che significa “il risvegliato”, sarà ispirazione per tantissime persone in tutti secoli dopo, fino a oggi. Una persona seduta, tu, io, qualsiasi persona. Ci ricorda che c’è un momento in cui ti puoi fermare. E se ti fermi un attimo a contemplare la vita che scorre allora ti puoi puoi ricordare qualcosa che va al di là del tran tran quotidiano. È un lampo. Quello che forse in Occidente i poeti chiameranno sublime, la sensazione di appartenere a uno spazio molto più ampio e disteso. Come il mare quando guardi l’orizzonte. Quella sensazione che niente inizia e niente finisce e tu ci sei mezzo. E non là, è qui: dentro il respiro. Allora, ti svegli. Perché non si nasce solo una volta, si nasce tutte le volte in cui ti rendi conto che ti sei di nuovo RISVEGLIATO.

In Giappone il giorno 8 dicembre si celebra Rōhatsu, Giorno del Risveglio, in cui si ricorda il momento in cui Siddhartha Gautauma raggiunse l’illuminazione, conosciuta anche con il termine Bodhi in sanscrito o pali. La tradizione racconta che la stella del mattino Venere appariva in cielo mentre si faceva giorno e nello stesso istante, dopo tre notti di veglia ad affrontare i demoni delle tenebre, il principe Siddhartha infine trovò le risposte che cercava. È per questo che divenne Buddha, il “Risvegliato”, o “Illuminato”.

Febbraio

I pomeriggi di sole ancora timido,
te ne accorgi all’improvviso
le giornate all’improvviso sono più lunghe
alle cinque il buio non è più così buio.

Le mattine in cui ti svegli con una nevicata improvvisa

la nebbia che tutto fa scomparire e riapparire.

Febbraio è primavera che si affaccia sulla porta.
In Oriente inizia il nuovo anno, secondo il calendario buddhista è calcolato sulla luna.
Anno lunare che, non ci pensiamo mai, è anche quello delle ostetriche nei loro misteriosi conteggi sulla nascita.
Nell’antica Roma nel mese di febbraio si festeggiavano gli antenati, i riti per la fertilità e Februus, dio della febbre, forse, e dell’aldilà.
Si celebrava Faunus, che proteggeva i pastori e le greggi: dio antico dalla vita selvaggia nei boschi.
Ancora più anticamente le feste per la dea Fauna, o Lupa.
Colei che dà la vita, colei che dà la morte.
Si rinasce,
ancora una volta

Se tu camminassi per le strade del Vietnam vedresti qualcuno seduto su un marciapiede, intento a bruciare mazzi di banconote in piccoli falò improvvisati.
Non sono vere banconote, solo riproduzioni. L’effetto è intenso ugualmente.
Ricorda il vecchione di Bologna e la tradizione dei falò questa voglia di fare fuoco, un rito che si ritorna in tempi e luoghi diversi in tutto il mondo.

Il fuoco brucia gli errori, ma dà anche fuoco ai nostri desideri, li avvampa e li porta in alto, per aria, fino a fondersi con il cielo.
Là dove i desideri diventano mille milioni di stelle che brillano, confusi e fusi tutti insieme
Buon anno, di pensieri nuovi. Pensieri che valgano la pena, da illuminare tutto il mondo

24 giugno, festa di San Giovanni

I fuochi nella notte
San Giovanni, notte di streghe e preludio estivo.

Solstizio d’estate, i giorni di maggio e giugno quando le sere sono infinite e la luce arriva al suo massimo per poi ricadere nell’ombra: l’estate è già finita diceva mia nonna scrutando i tramonti di luglio alla finestra.

Acqua di san Giovanni la rugiada sui fiori di campo, la camomilla da raccogliere per le tisane. Iperico giallo da raccogliere ai bordi delle strade di montagna quando il sole è al massimo, coperto di olio e messo sui davanzali per tutta l’estate.

24 giugno, San Giovanni, le noci per il liquore nocino, quello fatto in casa che si berrà il prossimo inverno. I fuochi che bruciano sul mare, le leggende antiche e l’estate che vibra di nuovi inizi. Odore di fiori di campo nell’aria e scogli marini ancora ricoperti di petali che saranno presto portati via dall’afa, sole che brucia.

La luna piena del 7 maggio 2020

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Luna e terra si guardano più da vicino: 361.180 chilometri di distanza rispetto alla media, di oltre 384mila. Una serata con il naso all’insù, fra le stelle di questa notte di primavera in quarantena, dove la natura sembra aver riscoperto se stessa. Silenzio immenso, un gufo lontano, le sere interminabili di maggio quando arriva il mese più luminoso dell’anno.

Luna piena del 7 maggio 2020, il culmine alle 20.30. Luna piena del 7 maggio 2020, il culmine alle 20.30. Quando è piena, la luna riflette al massimo la luce: è un cerchio perfetto, chiuso nella sua completezza, assoluto. Secondo gli antichi i fiori e le piante raggiungevano in questo momento la fase più rigogliosa; fecondità e pienezza che corrisponde al massimo delle energie vitali.

Sembra che l’attività cerebrale risulti aumentata durante le notti di luna piena. Abitando fuori città, dove l’inquinamento luminoso si abbassa, è facile accorgersi delle trasformazioni di luce durante le fasi lunari del mese. Quando c’è la luna piena la casa si riempie di luce, basta lasciare aperte le imposte per accorgersene. I vialetti dei giardini e le strade che vanno verso i boschi all’improvviso si illuminano, un sentiero nell’oscurità che prende vita e ci guida. Purtroppo accade di rado di poterci fare caso. Lampioni e lampadine hanno radicalmente cambiato il nostro rapporto con la notte. L’ombra ci sfugge e noi, che con orgoglio amiamo spesso pensarci come creature solari, dimentichiamo la nostra parte oscura, connessa al buio, alla luna, agli animali della notte. Che fa paura e al tempo stesso ci fa rabbrividire di sacro stupore.

Con la luna di maggio si festeggiava Beltane, che in lingua gaelica significava “fuoco luminoso”. In un attimo sui rami spogli degli alberi le gemme si trasformano nell’incanto di mille fiori. I petali bianchi dei ciliegi riempiono l’aria in un turbinio di dolcezza. È il mese dei fiori che non sono ancora frutto e dell’amore. Si vola insieme, si cerca il proprio compagno o la compagna con cui fare il nido. Passeri e cinciallegre si danno da fare per costruire il rifugio che sarà casa.

In un tempo dimenticato i druidi del Nord Europa accendevano falò: animali e umani attraversano il fuoco in segno di buon augurio, rigenerazione e forza. Diffusi in varie parti del mondo i falò resistono fino agli anni Cinquanta del Novecento e in rari casi ancora oggi, sebbene si sia perduto il senso originario. Un’azione rituale con un risvolto psicologico pratico, intenso a livello emozionale, capace di segnare un prima e un dopo nella routine dei giorni.

Si passa attraverso il fuoco
attraversando
il cambiamento
sulla pelle,
pezzo per pezzo.
A piedi nudi,
avvertire il rischio
dentro la paura
illuminati dal fuoco e dalla luna
nella notte dell’anima
quando tutto trema

Molti sorridono di fronte a quelle che sembrano superstizioni. Eppure nel 2020 ancora si semina e si raccoglie a seconda della luna. Chi fa il vino lo imbottiglia guardando la fase lunare. La luna influenza le maree e il nostro corpo più di quanto ricordiamo e non per caso anticamente si contava il tempo con la luna. Ogni 28 giorni, la durata del ciclo femminile, il satellite si riallinea al sole e alla terra, un ciclo lunare: in un anno solare intercorrono 12-13 lunazioni. E lo sanno anche le ostetriche, con la luna nuova in genere i reparti maternità si riempiono di nuove voci.

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Alla fine la luna l’abbiamo vista, immensa e chiara come la moneta d’oro che nella cultura gitana si metteva sugli occhi dei morti per passare oltre, nell’aldilà.
Ma quello che mi ha stupito è stato il cielo.
La luna stanotte era ovunque.
A mezzanotte lungo la linea delle montagne l’orizzonte era di un blu cobalto fluorescente.
Il buio della notte è rimasto di questa luminosità chiara fino a mattina, come mi raccontavano gli amici bretoni delle notti chiarissime là dove le terre estreme della Francia si tuffano in mare e la notte è luce. Il Mediterraneo tutti lo immaginiamo pieno di luce, ridevano sempre, ma le vostre notti sono più cupe.
È vero, dove la luce è più forte, il buio incede.

E poi l’alba. Immensa, potente, piena di fuoco.
Dappertutto la luce rosa che arriva e lava il mondo

5 maggio: Kodomo no hi, il giorno dei bambini

Sembra che una carpa capace di nuotare controcorrente sia destinata a diventare un drago, così dice la leggenda.

Il 5 maggio in Giappone, Cina, Taiwan, HongKong e Macao è la festa di Kodomo no hi, こどもの日, il giorno dei bambini: da duemila anni nel quinto giorno del quinto mese del calendario lunare la tradizione festeggiava i figli maschi della famiglia onorando di ciascuno il rispetto della sua indole, salute e felicità. Per ogni figlio si appendevano fuori dalla porta di casa i koinobori, maniche di vento a forma di carpa, su cui spesso è raffigurato il bambino mitico Kintarō che cavalca una carpa.

Perché forse è questo il messaggio che racconta il vento,
chi ha il coraggio di nuotare controcorrente
dentro trova la forza di un drago.

Per inciso, oggi la festa dei figli maschi si è trasformata nel “Giorno dei Bambini”, dedicato a tutti i bambini e le bambini. Ovunque, per tutto il Giappone sventolano le carpe in tessuto che guizzano fra le correnti d’aria inghiottendo ossigeno, vita e auspici felici.