Adesso ti guardo

Adesso ti guardo e tu mi guardi,
da solo sul tappeto smetti per un attimo di mordere quel calzino e
il nostro sguardo si trova
rincorrendosi in diagonale nella stanza,
io al computer e tu per terra a esplorare il mondo intorno a te.
Appoggi le piccole mani sulla paglia intrecciata di una sedia, valutando se arrampicarti.
Picchi sul pavimento con decisione una ciambella di plastica.
Sono uno dei giochi che preferisci quelle semplici ciambelle di plastica colorata,
ti ha portato la piramide Daniela con Paolo e il piccolo Pietro e Anita.
Tu giri sempre con una ciambella.

Adesso appoggi la bocca sul pouf, quello di cuoio spesso marrone e blu comprato nel souk di Marrakech insieme alla nonna. Ti ci appoggi e ti sollevi.
Ho lasciato l’aspirapolvere lì in un angolo e tu da ieri sera la maneggi:
muovi il tubo avanti e indietro come hai visto fare a me, un po’ mi sembra ti renda perplesso
questo strano fatto di vederlo lì inerte a terra invece che volante per aria.

Prima dalla cucina ti guardavo con la coda dell’occhio,
mentre facevo il caffè.
Tu eri lì, seduto per terra con l’aspirapolvere rossa
e ti sei voltato e
mi hai guardato anche tu,
poi mi hai lanciato un sorriso da lontano.

Quando sorridi sei un piccolo sole che si accende,
scaldi il cuore e illumini il mondo,
il tuo piccolo mondo che si illumina da dentro,
all’improvviso.

Ci guardavamo, di traverso
una freccia di sguardo dalla cucina alla sala. Pensavo a questo,
a come l’autonomia si conquista a piccoli passi
e quando le persone criticano chi tiene i neonati troppo in braccio
bisognerebbe semplicemente far notare che nell’arco di pochi mesi, appena l’uso dell gambe lo permette
si inizia a esplorare il mondo da soli.
Prima si tiene dritto il collo e ci si guarda intorno,
come facevi tu a tre mesi quando questa estate ti tenevo in braccio passeggiando in giardino e
allungavi il collo qua e là spalancando gli occhi agli alberi. Poi hai imparato che potevi allungare
una mano, è tua
risponde ai comandi. Allora, sfioravi le foglie versi dei rami più bassi e io
per gioco sfioravo con le foglie la punta del tuo naso e la fronte
il tuo sorriso neonato che dicono che i neonati non sorridano ma non è vero.

Adesso sai stare seduto e muoverti, da solo
inizi a esplorare il mondo.
Si cresce un passo dopo l’altro
e intanto ti giri, mi cerchi con lo sguardo
qualcuno mi ha visto ha visto che ho fatto?
Sì, ti ho visto. Sstamattina appoggiavi
una mano sul baule e una sul piccolo armadio dipinto di verde dal nonno,
saggiando su quale appoggiarti ti molleggiavi e saggiavi distanze, rapporti di forze
poi con una mano ti sei tenuto all’angolo di bronzo e l’altra l’hai lasciata
un braccio in equilibrio nell’aria, con coraggio.
Ti sei girato verso di me, io nel letto
pronta a ricevere il tuo sguardo come quando ti svegli e
cerchi uno sguardo in cui ritrovarti
onorata di essere quello sguardo in cui ti ritrovi.

Ti vedo, ti guardo.
Tu batti forte la mano sul tavolo e poi ti metti a ridere.

E all’improvviso piangi, che ti è venuta fame e allora
mi alzo a prenderti in braccio, tu e i tuoi piedini gelidi che è impossibile farti tenere i calzini
ami andare a piedi nudi.
Ci accccoliamo sul divano come gatti, tu prendi il tuo latte e ti addormenti.
Io che passerei tutto il giorno a darti baci nel collo e sfiorarti con una mano i capelli

23 dicembre ’20

Primo vagabondaggio di famiglia

Il caldo dei primi giorni di luglio e il venerdì che sa già di libertà,
cielo blu,
il traffico chissà dove va; la polvere sui vetri.
Fermi al semaforo.
Di traverso nel finestrino lo sguardo sorridente di quelli ai bordi delle strade che
lavorano per ricostruirle,
tuta arancione, pelle scura bruciata dal sole e rughe come solchi di vita, vecchi alberi
sulla provinciale
l’ombra verde dei boschi e i cespugli di rose che si arrampicano sulle facciate bianche,
piccole case in gruppetti, giocattoli dimenticati in giardino
un tagliaerba che va.
La bellezza di una casa cantoniera abbandonata.

Sulla via da Pavullo a Pievepelago
e poi verso Sant’Annapelago: provinciale 72,
la Selva Romanesca che porta al Passo delle Radici e S.Pellegrino in Alpe.
Vagabondare nella mattina fino al Casone di Profecchia,
antica stazione edificata nel 1845 da Francesco IV, Duca di Modena
quando per unire Ducato di Modena e Granducato di Toscana veniva costruita la strada del Passo delle Radici e gli operai avevano bisogno di un ricovero.

In certi posti,
dove la Storia si è fermata
si respira la meraviglia di
chi ha osato
lasciare tutto com’era…
i grandi lastroni di pietra come pavimento
la sala con il camino e
racconti invisibili sfiorando questi muri,
stanze grandi e fresche. Vecchie fotografie appese.
Profumo di funghi, mani che impastano.
Le pappardelle qui sono stracci e in effetti,
mi spiegano, le pappardelle in Garfagnana nascono così e restano tali:
fogli di pasta all’uovo lavorata al mattarello,
strappata con le mani e buttata nell’acqua bollente.
Nel tavolo a fianco sciatori d’inverno e ciclisti durante la bella stagione,
due vecchi amici chiacchierano fitto in un angolo.
Su ogni tavolo la brocca piena d’acqua e una bottiglia di vino rosso sulla tovaglia bianca.
Dopo pranzo allungare le gambe sulla sdraio davanti all’orizzonte,
mentre si chiacchiera con Tommaso che dopo il conto prepara l’amaro del Casone insieme al caffè

e poi via, Castelnuovo di Garfagnana, la provincia di Lucca,
verso il lago di Vagli e il borgo fantasma Fabbriche di Careggine, piccola frazione duecentesca dal 1947 sommersa da 34 milioni di metri cubi d’acqua: la diga di 92 metri sul fiume Edron della centrale idroelettrica Enel.
Il pomeriggio afoso, un lattante affamato, il cane che sogna di correre
il lago e le zanzare, le strade sbagliate e quelle tutte curve, quando
il cane abbaia – il lattante piange e tu non puoi fermarti.
Isola Santa, Stazzema. A poca distanza Levigliani, l’Antro del Corchia:
la più grande grotta carsica d’Europa, più di sessanta chilometri di strade sotterranee e cuniculi.

Curva dopo curva, muretti e case di pietra,
il verde folto e rigenerante:
le Alpi Apuane che si aprono come una bocca spalancata nella terra.
Da lontano, in uno sguardo si abraccia la cicatrice bianca delle cave di marmo,
ruscelli che corrono fra le pietre e una lunga galleria scavata nella roccia,
la strada fino a Forte dei Marmi.
In un attimo i cartelli che avvisano: 5 km per Pietrasanta,
bagliore azzurro che fa presagire il mare
vicino
odore salmastro di pini e sale.

E poi Strettoia, la piccola strada laterale in salita verso l’hotel
un tuffo al tramonto avvolti dall’ultimo sole della giornata.
Di nuovo il cane che abbaia e si stizzisce,
il caldo e la gente,
l’estate strana in mascherina dopo la primavera in quarantena per questa inaspettata pandemia, il Covid che riporta il 2020 all’inizio del Novecento con la spagnola del 1918.

Svegliarsi di mattina presto con quello piccolo che sorride fra le lenzuola bianche,
la luce che filtra dalle finestre e la voglia di andare a scoprire il mondo.
Cercare un posto dove far correre il cane,
arrivare fino alla pineta di Levante a Viareggio e
non trovarlo, mentre i sentieri di sabbia che arrivano al mare bruciano al sole e
di nuovo, il lattante piange – il cane abbaia. Entrambi concorsi e al’unisono.

Schivare la folla, comprare focaccia e sciocche delizie.
Rifugiarsi in una stanza chiara e fresca, stare a piedi nudi davanti alla finestra.
Guardare il pomeriggio che avanza e prendere il sole dal terrazzo,
lo sguardo su quelli che dormono.
Soridere al niente, dormire tanto. Vagare con la mente.
Sentire il profumo delle rose di Paolo, il giardiniere e tenerlo in mente, dentro al cuore.
Rondini che volano sull’acqua a caccia di zanzare. La piscina deserta,
i piedi a mollo, una nuotata lenta, l’abbraccio verde delle Apuane alle spalle,
come una giungla lontana.

Assaporare lunghi sorsi di caffè sulle poltrone bianche, mentre
la giornata si riaccende ed è già ora di ripartire.
E poi il cane che non vuole più stare in macchina, il neonato che di nuovo piange
la strada che torna ad avvolgersi curva dopo curva come un filo sul rocchetto,
montagne e ombra verde degli alberi. Respiro profondo, fresco, antico.
Uno dopo l’altro i paesi già visti: il bianco sfolgorante delle cave di marmo,
Isola Santa e Stazzema, Castiglione dove fermarsi un attimo a comprare il pane e formaggio buono toscano. La gente che passeggia nella domenica e il sole,
aria di mercati e giornata ancora a metà, da vivere inseguendo le ore.
Su, ancora più su, fino a San Pellegrino in Alpe, il comune più alto dell’Appennino
dove una linea sottile passa persino dentro un locale, diviso a metà fra il comune di Castiglione di Garfagnana, in provincia di Lucca, e quello di Frassinoro, Modena.
Linee invisibili da percorrere come funamboli sospesi su un mondo che in fondo è territorio della nostra immaginazione.

Viaggiare è immaginare

Una volta mi è capitato di leggere che basta guardare un paesaggio perché si inneschi un cambiamento a livello cerebrale. Sono sufficienti pochi secondi davanti a una fotografia, ma funziona anche solo pensandole.
È il potere delle immagini mentali: sono migliaia, milioni le cartoline che conserviamo fra i cassetti della mente e del cuore. Sono i nostri ricordi. Basta aprirne uno per ritrovare quel posto, che magari non esiste nemmeno più; ritrovare i colori, intatti, le sfumature di quel momento della vita e delle persone che erano con noi. Se mi concentro davvero, a chiusi chiusi strizzando forte forte le palpebre, avverto ancora il tempo sulla pelle, i profumi e gli odori dietro l’angolo, la voce della gente e che cosa indossavo.

Esercitare il ricordo significa vivere di nuovo la nostra storia e coltivare l’immaginazione.
Come immagini la tua mente? Per anni abbiamo pensato alla mente, noi che facciamo parte della cultura occidentale, come una soffitta buia dove accatastati ci sono ricordi come scatoloni di un trasloco dopo l’altro. Scatoloni chiusi e a volte dimenticati, che piano piano si perdono nel buio e nella polvere: le cellule nervose lentamente si bruciano; a causa della vecchiaia o di una malattia neurodegenerativa le ragnatele li ricoprono, le tarme se li divorano e a noi non restano che briciole di ricordi, frammenti di ciò che è stato divorati dagli anni.

In realtà questa è solo una delle possibilità in cui immaginare la memoria. Le Vie dei Canti dei popoli aborigeni in Australia sono un altro modo per immaginare il corpo, fisico e sociale, e lo spazio della memoria. La tradizione orale dell’Africa e il suo modo di concepire l’invecchiare; i sistemi di navigazione degli antichi e le mappe del mare fatte di canti in Polinesia: in quanti modi diversi abbiamo imparato e usato la memoria? Ogni modo di vivere il mondo è un viaggio nella percezione, eppure per secoli non siamo riusciti ad avvicinarci a modalità troppo distanti da come noi abituati ad apprendere e utilizzare la mente. Un esempio fra tutti, la storia della medicina e i percorsi della scienza dovrebbero averci abituato al fatto che ogni certezza lo è fino a prova contraria. Eppure anche oggi facciamo enormemente fatica ad uscire dalle nostre abitudini, quelle percettive prima di tutto; le diamo così per scontate da pensare che almeno quelle siano incrollabili verità. In mezzo un oceano: barriere linguistiche, culturali, difficoltà… anche di immaginazione. Perché spesso difficile è riuscire a immaginare una realtà mai immaginata prima, insormontabile ammettere che possa esistere.
Proprio questo, forse, nel profondo segna la distanza fra “me e l’altro”.

Le neuroscienze stanno svelando nuovi angoli e prospettive del cervello, di come impariamo e memorizziamo, facciamo esperienze, dimentichiamo, creiamo le nostre mappe del mondo e della vita. Moltissimo è ancora il territorio al buio, lo spazio ignoto di ciò che non sappiamo. Ma un dato di cui ora siamo consapevoli è il ruolo della curiosità. Se l’essere curiosi è la molla che muove le prime scoperte di un bambino, così è stato anche nella storia del mondo.

I primi esseri umani sono stati viaggiatori curiosi e dotati di immaginazione.
Siamo usciti allo scoperto,
incontro all’ignoto.
In cammino sulla superficie delle terre emerse,
rincorrendo la linea dei fiumi e
attraverso oceani di acqua
abbiamo viaggiato alla scoperta del pianeta,
immaginando nuovi orizzonti inesplorati.
In cerca di altro,
a caccia di ciò che ancora non avevamo

L’immaginazione insieme alla curiosità è una componente dell’evoluzione che ha contraddistinto la storia dell’umanità: IMÀGO, immagine, dal greco mimos, imitatore, imito. Immaginazione e immagine sono connesse alla vista, che la maggior parte di noi usa in una percentuale incredibilmente maggiore rispetto agli altri sensi. Alla vista affidiamo il nostro lavoro di decodifica della realtà e quanto essa, invece, può essere ingannevole lo sa bene chi è diventato cieco o ipovedente. Una persona ipovedente mi raccontava che da quando è cambiata la sua percezione della realtà e, necessariamente, ha dovuto intraprendere una trasformazione nell’uso dei sensi, ora è consapevole di quanto la vista sia bugiarda. Preferisce affidarsi al tatto, anche quando può vedere. Non a caso, fra persone operate agli occhi che sono state in grado di recuperare la vista frequenti sono le testimonianze del fatto che questi soggetti non cadono nei tranelli della percezione visiva, a differenza di chi è abituato a vedere. Ma le conseguenze dell’immaginare dentro di sé portano la traccia di una direzione che ci trascina più in là. Immagin-azione, l’immagine diventa azione: mi spinge a muovermi, un passo dopo l’altro e via. Mi sto muovendo, metto in moto le mie risorse e vado, sono in viaggio.

Una falsa etimologia che da un po’ gira in rete racconta l’immaginare come locuzione, dal latino, “in me mago agere”, in me agisce un mago. Errata e affascinante. Nonostante sia falsa dietro a questa etimologia immaginaria c’è un’idea e forse è proprio il suo nocciolo ciò che ha colpito i tanti che l’hanno abbracciata all’istante e condivisa.
Dentro di me agisce una forza: un potere che non sono io, non è quello del mio io razionale, della mia coscienza che controlla. Questa idea ha trovato tante formule per essere definita; in alcune parti di mondo hanno provato a chiamarla inconscio, altri lato oscuro, ombra; è una parte di me che sfugge continuamente da me, “io” non la controlla.
Anima del mondo più grande rispetto alla mia sagoma. Dentro, c’è la forza di tutto ciò che è altro, qualsiasi cosa sia, entra in me e mi tocca, mi sfiora, mi colpisce e rimane dentro. Un’immagine viva e incancellabile.

L’immagine è specchio, dipinto, fotografia, impronta; a due o più dimensioni, in bianco e nero, a colori, statica, in movimento. Capace di cambiare nel tempo, in grado di svanire, scolorire, trasformarsi. Immagine è rappresentazione, risultato dell’azione e spazio costruito, negoziazione fra mondo interno e mondo esterno.
Mentre faccio esperienza del mondo dentro di me opera una magia, è vero. È un’alchimia di cui non so nulla.
Oggi anche il processo visivo, che a scuola si studiava con la storiella dell’immagine rovesciata et cetera e già allora suonava piuttosto labile come teoria, è stato rivisto. Gli scienziati ammettono che non sappiamo esattamente come avvenga. Non sappiamo come la nostra memoria agisca in noi, come la persistenza dei ricordi sia scheggia in grado di scalfire e modificare i nostri tessuti. In che modo dimentichiamo, andiamo avanti, torniamo indietro. Immaginiamo nel presente, qui e ora, lavorando sempre su un prima e un dopo: immaginando operiamo sul passato e sul futuro.

Sono il mio cuore, sono la mia mente, sono il mio cervello. Come si sono create le immagini che adesso mi riempiono? Da dove arrivano e come si sono conservate? Come mai dopo anni, un frammento può ancora scatenare un ricordo indelebile, nel bene o nel male? Il neuroscienziato Eric Kandel a questo interrogativo ha dedicato la vita intera: com’è possibile che ancora, dopo anni, sono lì in quella stanza di notte mentre i soldati bussano alla porta? Americano di origine austriaca, la sua è una famiglia ebrea con un negozio di giocattoli nella bella Vienna degli anni Venti. Un prima e un dopo: l’istante di quel ricordo. Una notte. Il giorno dopo niente sarà più uguale.

Eric Kandel, insieme ai colleghi Arvid Carlsson e Paul Greengard, è il primo psichiatra statunitense a vincere il Nobel per la medicina, assegnato nel 2000 per le ricerche sulle basi fisiologiche della conservazione della memoria nei neuroni. Si riferisce a questi ricordi come flashbulb memory. I primi a parlarne e teorizzare il concetto di flashbulb memory sono Brown e Kulik, che nel 1977 li studiano in relazione a eventi come l’uccisione di Martin Luther King e del presidente John F. Kennedy. Flashbulb memory, il termine ha il flash acceccante di una lampadina che improvvisamente accende la memoria. Spara, si direbbe utilizzando il linguaggio della fotografia. È possibile definire flashbulb memories “ricordi fotografici, istantanee fotografiche o flash di memoria”. Un ricordi vivido, capace di registrare un evento che si fissa come traccia indelebile nella scatola nera della nostra testa.

Immaginazione o conoscenza?

Ti fidi più della tua immaginazione che della tua conoscenza? A questa domanda Albert Einstein rispose con una considerazione che nasconde una prospettiva illuminante. La conoscenza è legata a ciò che sappiamo già, all’esperienza che abbiamo accumulato rispetto a noi stessi e al mondo. L’immaginazione è scoperta che si apre a nuovi orizzonti. Immaginare è gioco di curiosità, avventura che si lancia verso il futuro, scoperta. Tuffo nell’ignoto.

L’immaginazione è più importante della conoscenza.
La conoscenza è limitata, l’immaginazione abbraccia il mondo, stimolando il progresso, facendo nascere l’evoluzione
Albert Einstein

Viaggiare non dipende da dove stanno i nostri piedi. Alcune delle persone più cieche che mi sia capitato di conoscere sono persone che di posti ne hanno visti tanti, per passione e per lavoro e che continuano ad avere questa fame, ossessione, di mettere sulla mappa del mondo una bandierina dopo l’altra. Altre, all’opposto, quasi non si sono mosse dal luogo in cui sono nate, eppure quando raccontano dentro ci senti tutte le storie del mondo, lo spazio e il tempo come onde che si muovono insieme verso territori sconosciuti dell’anima. Viaggiare, che cosa significa davvero? Se “viaggio”, dal latino viaticus, è “ciò che riguarda la via, il cammino” allora il centro del discorso, il soggetto che tiene in piedi tutto, non sono io bensì la strada. È il cammino ciò che fa il viaggio, è la via-vita che percorro ciò che disegna il mio andare attraverso lo spazio e il tempo dell’esistenza. Viaggiare è continuare a immaginare, un orizzonte dopo l’altro sapendo che dietro, sopra e sotto, oltre l’infinito esistono altri infiniti mondi da disegnare e raccontarsi, percorrere, annusare, ideare, sperimentare. Universi sconosciuti in cui tuffarsi e riemergere, al di là della sottile linea fra ciò che è qui e l’altrove.

Se mi dispiace morire? Certo che sì, è ovvio. È la mia vita e non importa quanto tu abbia vissuto. Non sarà mai abbastanza.
Ma non è la vita a finire, è solo la mia che finisce.
Ho avuto tanto. Un lavoro, un amore, una casa. Adesso è il tuo momento.
Prenditi tutta la vita che vuoi. Non dimenticarlo.
Vivi.
A finire è solo la mia vita, ma la vita,
la Vita va avanti.
Ogni giorno

Rosa

Un terrazzino all’inizio dell’autunno e la luce del sole nel primo pomeriggio, la brughiera lombarda e le sagome degli alberi, una sciarpa di lana intorno al collo.
Due donne sedute, una di fianco all’altra, a guardare l’orizzonte

Pensieri felici

Un pensiero felice fa esplodere altri mille pensieri felici…

La primavera che arriva,
una nuova nascita.
Il profumo delle fragole e
le palline che cadono sotto l’albero di Natale.

Camminare sotto l’ombrello nella pioggia,
l’arcobaleno all’improvviso che spunta
fra i tetti, oltre le montagne.
Una farfalla colorata che vola
Scoprire un’ape fra i capelli che non ti punge,
la sfumatura rosa e color panna delle magnolie altissime,
il giardino dei nonni.
Gli alberi che ti hanno visto crescere,
anno dopo anno.

Ho deciso di essere felice perché fa bene alla mia salute
Voltaire

Il cioccolato dell’uovo di Pasqua quando si spacca,
il sapore della felicità condivisa.
Le domeniche in famiglia,
le giornate senza nulla da fare.
Un martedì come tanti, quando non succede niente.
Il treno dei pendolari, la nebbia sottile, i colleghi da salutare
l’ufficio quando è deserto e ci sei solo tu.

Il rumore dei passi sulla moquette,
I picnic con i sole sulla pelle
le briciole che cadono nella tovaglia distesa sull’erba.
I fiori, quelli piccolissimi e azzurri dai mille nomi che
ogni anno sono i primi ad arrivare a primavera,
ranuncoli quasi dimenticati, primule e viole del pensiero.
Coccinelle sulle pratoline come margherite che arrossiscono,
il profumo dei gelsomini di città che si arrampicano sulle ringhiere.

Giardini intravisti dai cancelli semi aperti,
l’arrivo della bella stagione.
Il telegiornale della sera che si sente di nuovo dai balconi,
finestre spalancate e profumo di soffritto,
pesce, aglio e pomodori maturi
è già tempo di raccoglierli nell’orto
i rami verdi del basilico con le sue foglie carnose,
salvia che resiste all’inverno.
I fiori viola del rosmarino, i capperi abbarbicati alle rocce.

Scogliere a picco sul mare,
vertigine.
Pensieri felici
il sabato mattina di sole,
ebbrezza
l’inizio delle vacanze.
Vagabondare in macchina senza meta,
torneremo oppure no.
Stare come lucertole al sole,
su un gradino senza far niente.

La felicità si può trovare anche negli attimi più tenebrosi, se solo qualcuno si ricorda di accendere la luce
J.K. Rowling

La forma delle ciambelle e
i granelli di zucchero sulle labbra.
Il camino acceso d’inverno.
Le pile di libri ancora da leggere.
Il volo delle rondini.

Gli occhi antichi di un neonato.
Sapere che la vita è più forte di ogni ragionamento,
le mille forme della luna.
I colori in fondo al mare,
svegliarsi nella notte e poi riaddormentarsi.
Il profumo delle lenzuola pulite.

Le mollette di legno di una volta,
le file di panni stesi.
Mia nonna quando preparava l’arrosto per tutti.
L’odore della pipa, delle nebbia e della legna che brucia
l’inverno al mare, quando l’aria diventa umida e sa di sale.
La bellezza delle strade deserte,
la luce dei lampioni vista dalla finestra.

Cercare la felicità in questa vita, ecco il vero spirito di rivolta
Henrik Ibsen

Pensieri felici
dentro
una canzone che porta i ricordi più belli,
le bolle di sapone e la voglia di farle scoppiare.
Il profumo di torta quando è nel forno,
le onde immense dell’oceano
le distese di alberi di limone in una giornata estiva.
Gli alberi centenari che ad abbracciarli senti
tutta la magia del mondo,
le frasi d’amore,
una sciarpa calda d’inverno
il rosso dei papaveri solo da guardare:
impossibile da cogliere
ciò che è così evanescente
da svanire in un attimo,
olo nel cuore
vive per sempre

Ormai nessuno ha più tempo per nulla. Neppure di meravigliarsi, inorridirsi, commuoversi, innamorarsi, stare con se stessi. Le scuse per non fermarci a chiedere se questo correre ci rende felici sono migliaia, e se non ci sono, siamo bravissimi a inventarle.”
Tiziano Terzani

Qual è il tuo pensiero felice adesso?

Sulla via Vandelli

Pomeriggio di fine inverno,
quando il sole esplode all’improvviso.
La natura ancora assonnata si sta svegliando,
germogli di velluto sui rami secchi dei cespugli selvatici.

Passo dopo passo,
perdersi sulla via Vandelli.
Silenzio immenso,
il fruscio del vento fra gli alberi.

Ricordo
una vecchia storia tetra
che raccontava di una locanda
qui sulla Vandelli
dove viandanti e commessi viaggiatori
si fermavano lungo il tragitto
fra Emilia Romagna e Toscana E
si mangiava bene,
ma poi succede che dentro il brodo
un frate
trova un mignolo
un dito intero, proprio nella zuppa.
E allora lo avvolge in un fazzoletto, poi
il giorno dopo lo consegna alla gendarmeria che
farà chiudere per sempre quella
locanda sulla Vandelli.
Fortuna vuole che il monaco fosse magretto,
altrimenti nella zuppa finiva anche lui.

Oggi c’è lo scheletro di un vecchio albergo mai ultimato
e cippi, ogni tanto. A ricordare
il tragitto.
Da Cento Croci, con la sua piccola cappella in pietra
a Sant’Andrea Pelago.
Il sentiero è un’ampia strada piatta,
polverosa e dritta.
Si potrebbe camminare fino all’infinito,
un passo dopo l’altro.

Foglie secche, l’eco del silenzio delle
due di pomeriggio,
il sole ancora caldo sulla pelle
per un attimo immobile.
Cane che corre e si butta a pierdifiato tra i prati,
boschi e fossati.
L’ombra del muschio sulle rocce a nord.
Non si sentono nemmeno gli uccelli.

L’ora della giornata in cui tutto si ferma
in inverno dura un momento,
prima che la pelle rabbrividisca di nuovo.
Chiudere gli occhi al sole
nella luce abbagliante.
Il cielo azzurro e la strada deserta,
oltre i faggi
la distesa di prati.
Chissà dove vanno, mi chiedo e
penso alla prospettiva verticale di
una poiana che vede tutto dall’alto.

Le tracce dei lupi e
i denti di animali divorati.
Piccole colline di rocce friabili sbriciolate,
sentieri sconosciuti verso
direzioni nascoste
in alto, sempre più in alto
dove il bosco ha
mille occhi
invisibili

Conosci la sfortunata storia di Domenico Vandelli?

Di fatto, ogni silenzio consiste nella rete di rumori minuti che l’avvolge: il silenzio dell’isola si staccava da quello del calmo mare circostante perché era percorso da fruscii vegetali, da versi d’uccelli o da un improvviso frullo d’ali.
Italo Calvino

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Le cose belle della vita

Il colore dell’alba e la sua luce fredda che si stampa in faccia mentre la notte se ne va,
la fatica di doversi svegliare presto, prestissimo e poi la sorpresa di guardare la città mentre si sveglia piano piano.
Il profumo di pane appena sfornato e la fragranza inconfondibile dei cornetti dalle vetrine accese delle panetterie.
I bambini che ti sciamano intorno mentre vanno a scuola vociando,
gli sguardi fra chi è a piedi e quelli sull’autobus all’incrocio.

Fermarsi al semaforo e invece di correre restare lì a guardare la gente che passa, il traffico, le facciate dei palazzi e le vecchiette dietro le tendine.
Mentre il semaforo rosso arriva e passa. Una, due, tre volte…
La primavera all’improvviso anche se non è stagione
e poi
le pozzaghere quando smette di piovere,
le prime viole del pensiero e il giallo delle primule tra le foglie secche nel bosco.
Una salita scoscesa alll’improvviso piena di fragoline selvatiche,
la luna piena e nella notte d’inverno
il grido del gufo appollaiato sul noce di fronte a casa, lontano.

Le amarene aspre che di colpo arrossiscono maturando all’inizio dell’estate.
Le sfumature degli alberi cangianti in ogni stagione come un vestito nuovo,
le montagne che sembrano rosse quando inizia l’autunno e il bosco che diventa un’esplosione di giallo. I campi illuminati dal sole, le cascine sparse
il panorama visto dal treno che ti chiedi chissà lì chi ci abita,
un giorno o l’altro ci vorrei passare da quella stradina sterrata e
bussare alla porta.

Il gusto della prima pesca,
il sole troppo caldo sulla pelle e l’impatto con il mare freddo e salato.
Il blu che ti entra dentro gli occhi e nel solleone l’orizzonte sfocato,
accecante, saturo di luce.
Pulire il giardino con pazienza, tagliare le rose sfiorite,
il profumo di una crostata che cuoce,
l’attesa
mentre il dolce si raffredda prima di portarlo in dono a una vicina.

Andare in un posto per la prima volta e perdersi
le case, ognuna diversa, e la gente fra le strade.
Fermarsi su una panchina a guardare cosa succede lì intorno,
tenere il telefono spento, irreperibile almeno per un giorno.
Vagare fra gli scaffali di una biblioteca solo per ascoltare il silenzio,
camminare fra le sale di un museo di cui non sai nulla solo per godere la bellezza.
Non avere una guida e lasciare che siano solo le sensazioni a parlare e
trascinarti in una mappa nell’altrove.

Il profumo di bucato e sapone di Marsiglia,
le lunghe fila di panni stesi in alto sui tetti,
le lenzuola colorate da una finestra all’altra e i catini di acqua saponata rovesciati per le strade che corrono in rivoli senza fine.
L’odore delle caldarroste che annuncia l’inverno,
la buccia dei mandarini sulla stufa; i cespugli di lavanda e rosmarino che sembrano secchi invece quando li sfiori con la mano chiudi gli occhi e aspiri forte il loro aroma inconfondibile che sa di
estate, infanzia, Mediterraneo.

La bellezza del sabato mattina o della domenica,
di tutti i giorni in cui ti puoi svegliare
senza orologio
senza programmi, quasi stavi per dimenticare com’è,
vivere senza date né numeri. Stare come una lucertola al sole
sentire la pelle che si scalda
addormentarti senza finire quel libro.
Mollare un corso che non ti rappresenta più, un amore, un lavoro, una vita intera.
Riiniziare da capo,
viaggiare senza bagagli.
Perdere cose importanti e scoprire che ne puoi fare a meno.

Aprire la porta di casa.
I fiori freschi in un bicchiere sul tavolo.
Le persone che ancora hanno il coraggio di fare sorprese e improvvisate, senza prima sentirsi in obbligo di chiamare al telefono.
Le margherite e gli steccati di legno, come quelli di una volta.
La cassetta della posta quando c’era una lettera e non la solita bolletta.

Riuscire a fare il primo passo senza stampella,
piangere di gioia quando ti rialzi dopo l’anestesia di un intervento.
Guardare la paura quando è già passata.
Sapere che ce l’hai fatta, oggi sei ancora qui.
Ridere di un fatto che adesso lo sai, non era poi così tragico.

L’arcobaleno dopo la pioggia, la pelle profumata dopo una doccia,
il profumo del bagnoschiuma comprato durante un viaggio.
Il pensiero di un nuovo progetto che stai già pregustando.
Una serata in cui non c’è niente da fare e semplicemente ti godi la giornata che finisce mentre sei nella tranquillità di una cucina. La quieta bellezza
di un momento in cui non sta per accadere nulla,
un momento come mille altri,
in cui non succede nulla se non
il battito del cuore da ascoltare.

I calci di un bambino nella pancia della futura mamma,
spiare dalla finestra gli uccellini che arrivano a beccare i semi ogni mattina,
il cane che aspetta impaziente di fianco al cancelletto.
Le giornate quelle no e poi il sorriso
di quando sai che passerà,
le rughe per il troppo ridere e quelle di chi ha smesso di piangere.
La faccia disegnata dalla vita di quello che ha passato ogni giorno in mare aperto,
fottendosene dei guai,
con il sole in faccia e il vento in poppa.

Il cielo di lampi durante la burrasca,
le tempeste che sembrano portare via tutto e poi siamo ancora qui,
i gabbiani nel blu
il pensiero delle persone che si svegliano o vanno a letto dall’altra parte del globo.
Le pile di libri che non trovano un posto,
l’emozione della laurea appena discussa,
un nuovo essere vivente che inizia
il suo primo respiro
esattamente adesso.

Stringere i denti e sapere che per oggi va bene così, trovo tempo per fare attenzione e
vedere una cosa bella.
Almeno una. Perché mi ha cambiato il sorriso e la giornata

Le cose belle della vita sono ovunque,
sono nel mondo intorno,
sono nel nostro sguardo.
Sono l’attimo magico in cui
all’improvviso
ricordi
Sono l’attimo in cui ricordi l’importanza della bellezza.