Canto delle carezze al cuore

 

 

 

 

 

di Daniela Lamponi

Oggi la mia agenda riporta:
Bologna e orari dei treni acquistati.
La mia agenda mi ricorda che sarei dovuta essere in trasferta alla Fiera del libro per Ragazzi…

Oggi la mia vita mi ha fatto fare tutt’altro, eppure, in un modo tutto suo, mi ha riportato a dei ricordi della Fiera… Sempre muovendomi nella libreria, ho trovato la poesia di Sabrina Giarratana e illustrata da Sonia MariaLuce Possentini: “Canti dell’attesa. Canti che accompagnano la gravidanza e la nascita“.
Un titolo che in questo momento potrebbe condurre a pensare alla nostra attesa, come Paese Italia e andando anche oltre i confini geofisici.
A me, invece, ha riportato quel giorno lontano e alla Fiera. A quando mi sono emozionata ad ascoltarne la presentazione e a farmi fare una dedica sopra da Maria Luce.

Alcuni di quei canti poi li ho condivisi con una tra le più care amiche di questa vita, durante la sua gravidanza.
E ora, questo canto è per te e un po’ per tutti noi in attesa.

Oggi il mio cuore vuole carezze
Come un cavallo sulla criniera
Come un gattino senza certezze
Vuole carezze fino a stasera
Come un pulcino senza le piume
Un lupo perso nella bufera
Un pesciolino solo nel fiume
Vuole carezze fino a stasera.

Canto dell’attesa di Sabrina Giarratana e Sonia Maria Luce Possentini,
Il leone verde Edizioni

I vecchi al tempo del Coronavirus

Più ribelli e imprudenti dei ventenni, i vecchi al tempo del Coronavirus nelle parole di Alessandro Gilioli: emergenza Covid-19 perché gli anziani sono per strada?

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Questo viso fa parte della collezione di ritratti “The Eyes of War” del fotografo Martin Roemers

C’è stata una fase iniziale, in questa primavera sadica, in cui a sfidare i divieti erano soprattutto i ragazzi. Sfrontati, irridenti, convinti – come siamo stati tutti – della propria immortalità. Ora se ne vedono molti meno. Probabilmente hanno capito, o hanno mamme che gli agitano il mattarello sul naso se provano ad allacciarsi le scarpe.

In compenso fuori è pieno di vecchi.

Oggi, per la prima volta da inizio quarantena, per lavoro ho dovuto fare un tratto di città più lungo del consueto casa-alimentari, e ho notato questa cosa di cui prima non mi ero accorto: gli unici in giro erano gli anziani.

Palesemente sfaccendati, senza nemmeno l’alibi apparente di una sporta per la spesa, lenti nel camminare, talvolta proprio fermi: in un semidistanziato crocchio di chiacchiere.

Ne ho visti alcuni davanti al bar: chiuso. Ma loro erano lì lo stesso.

Per capire se era un caso ho chiesto un po’ in giro, attraverso il pc da cui vi scrivo adesso. Pare di no. Diverse testimonianze in più città mi hanno confermato la stessa cosa. Vecchi con cane e senza cane, con mascherina e senza mascherina, con barba sfatta e con barba pulita.

Me lo aveva anche detto la mia panettiera, qualche giorno fa. Ha il negozio davanti a un cassonetto: «I peggiori sono i vecchi, che scendono ogni due ore a buttare sacchetti piccolissimi». Non sono tuttavia riuscito a condividerne lo sdegno: ha prevalso la tenerezza per questi anziani soli che si centellinano pure la monnezza pur di uscire qualche minuto di casa.

Così ho pensato alle mille ragioni possibili per cui i vecchi escono di più, a dispetto del fatto noto anche ai sassi che sono i più a rischio, i più vulnerabili, i primi a finire intubati.

Forse escono di più, banalmente, perché molti di loro vivono soli, in vedovanza, ed è durissima stare tutto il giorno soli in casa, vale pure per me che ancora del tutto vecchio non sono – e neppure vedovo.

Forse escono di più perché non usano internet, questa quotidiana contraffazione di socialità che ci fa passare il doppio del tempo su Facebook, e che forse mi ha portato anche a scrivervi queste righe, a illudermi che sto parlando con qualcuno.

Forse escono di più perché spesso da pensionato ricco non sei, quindi vivi in spazi ristretti, e trenta metri quadri sono meno della cella di Breivick.

Forse escono di più perché non hanno Netflix né Amazon Prime, si devono accontentare della tivù generalista che in queste settimane sta offrendo uno spettacolo pessimo seppur misto, cioè metà squallido e metà ansiogeno.

Forse escono di più perché coltivano il rito antico del giornale di carta che mai come in questi giorni si sta rivelando utile: non tanto per quello che contiene, ma perché consente di arrivare legalmente fino all’edicola – e comunque una mezz’ora poi riesci a bruciarla, a casa, solo leggendo i titoli e un paio di articoletti.

O forse escono di più semplicemente perché gliene frega di meno, alla fine.

Un lungo futuro davanti non ce l’hai comunque, da vecchio, e quando non hai un futuro non puoi accettare che ti si rubi anche il presente – e ti si lasci solo col passato.

Stare chiusi in casa, senza niente da fare, non lo vedono come “un periodo”, come un tunnel da attraversare e con una luce in fondo. Lo vedono, più o meno consciamente, come un anticipo di morte.

Lo vedono come un infame, cinico e immeritato furto dell’ultimo scampolo di vita.

E allora escono, più indifferenti che impavidi, a riprendersene almeno un brandello, più ribelli e imprudenti dei ventenni.
Alessandro Gilioli

Il post è stato pubblicato il 2 aprile 2020 con il titolo “Perché i vecchi escono” sul blog Piovono Rane del giornalista Alessandro Gilioli, nato a Milano il 28 febbraio 1962, vicedirettore de l’Espresso

Nel frattempo dal 31 marzo 2020 a Panama City la quarantena è di genere: il lunedì, mercoledì e venerdi a uscire sono le donne; martedì, giovedì, sabato tocca agli uomini. La domenica a chi spetterà? Tutti a casa, riposo par condicio.
Nel frattempo a Mumbai il cielo è diventato azzurro: 23 delle 40 città più inquinate al mondo si trovano in India (9 in Cina, 6 in Pakistan, 1 in Bangladesh, 1 in Indonesia). A causa del lockdown che si sta estendendo ovunque nel mondo come misura preventiva contro la diffusione del Covid-19, i veicoli non circolano: si svuotano le strade, aumenta il silenzio, si abbassano i livelli di smog. Il cielo a Nuova Delhi non è mai stato così blu negli ultimi dieci anni.
Si vede anche dallo spazio. Il satellite ESA Copernicus-Sentinel 5P ha registrato un calo di emissioni di diossido di azoto nell’Italia del nord. Si dirada la tradizionale nebbia della Pianura Padana, che da anni non è motivata dal clima bensì dalle tristi incrostazioni generate da fabbriche e traffico indiscriminato, cicli di lavoro e di una vita che ora lo stiamo comprendendo: si reggeva e si regge su equilibri fragilissimi.

Nel frattempo si avvistano volpi che attraversano, indisturbate, le strade, stupite anche loro per l’improvviso silenzio. Giovani cervi in una breve fuga dall’agriturismo in cui hanno casa vagabondano nella quieta notte di stelle in Salento, a Tricase, provincia di Lecce; in Sardegna balenottere nel golfo di Cala Gonone e delfini. Si dissolve il rumore dei motori e delle barche, il chiacchiericcio umano (per i rifiuti di plastica ci vorrà più tempo), smette di accumularsi il vociare e il caos. Tornano a nidificare le tartarughe, quest’anno in aumento, sulla spiagge deserte dove l’essere umano non può più andare, se non per brevi apparizioni illegali. Di solito ben nascosti nelle periferie, cinghiali e lupi nel centro di Roma e Firenze, curiosi per questi umani che adesso arretrano, nelle loro case, nelle loro vite ristrette di cui ora si sente tutta la scomodità.

A Shenzen c’è chi combatte per vietare la carne di cane e gatto. Il governo cinese a livello nazionale ha deciso di abolire, provvedimento di febbraio 2020, il commercio di alcune specie selvatiche che sembra siano state responsabili dei primi contagi di Coronavirus, proliferato nella capitale Wuhan, della provincia di Hubei, fra i mercati dove è abitudine acquistare pipistrelli, serpenti, zibetti e ratti affumicati da cuocere in padella. Nella quarantena invernale gli abitanti di Kunming, capitale dello Yunnan, hanno deciso di occuparsi della popolazione di gabbiani comuni, Chroicocephalus ridibundus: oltre 400.000 esemplari che ogni anno arrivano qui a svernare, migrando attraverso la Siberia.
Nel frattempo in Cina si torna a vedere. Il cielo appare strepitosamente limpido da Shanghai a Hong Kong. La nebbiolina fitta di solito avvolge come un filo le tetre megalopoli, dai finestrini dei treni veloci si vedeva bene: l’infinito della terra eternamente piatta e palazzi che si alzano all’improvviso, qui o là, nell’orizzonte sfocato, cartoni grigi di una scenografia dipinta.
Adesso tutto è bloccato. Gli aerei hanno smesso di viaggiare e il mondo è tornato a essere un po’ più grande, un po’ più distante, come lo era in un tempo che abbiamo scordato. A differenza di allora adesso c’è la corrente inarrestabile di un flusso che ci mantiene aperti e in collegamento: la rete internet, che stiamo imparando a usare meglio e di più, un’altra delle inaspettate conseguenze di questa primavera in quarantena.

Alcuni di noi, almeno, la fascia giovanissima di studenti che adesso impara un nuovo modo di fare scuola, l’apprendimento online. E poi noi, nativi, domiciliati, affittuari e residenti digitali fra i trenta e i quarant’anni, cinquanta, sessanta, che in questi ultimi anni ci siamo, chi più chi meno, abituati a mettere un indirizzo anche nell’altrove del web, a nuotare come pesci in quelle maglie sfuggenti della rete che ogni giorno si rinnova, si modifica e riinizia.
E forse sì, i vecchi, costretti a una televisione ottusa e ansiogena, a una scatola che non risponde e non parla, sono quelli che rimangono in silenzio con la loro vita fra le dita. Loro hanno conosciuto l’odore della polvere da sparo, i palazzi sbriciolati, le riunioni clandestine e il suono delle sirene antiaeree e il vuoto che c’è un attimo prima dell’impatto.
Oggi non cadono le bombe, ma il silenzio del coprifuoco trasforma il quando in un qui insapore, di cui non si distingue fine e inizio, notte e giorno.

Per chi non va a scuola, nemmeno su internet, per chi vive solo e non aspetta telefonate, la giornata è struggimento di notizie allarmiste e programmi già visti (e a differenza di internet la televisione è ormai in stato di abbandono, condensato di miseria e paura). La solitudine ancora una volta riappare e non ha l’aspetto dell’afa estiva: è implacabile e silenziosa, mentre là fuori fioriscono i mandorli e la città si riempie di profumi. È senza notizie perché non c’è nessuno a guardarti in faccia, rispondere alle tue domande più segrete o anche solo a chiederti come stai.
Come stai?
Bisogna ricordarselo, che sono ancora qui. Forse mezzo morto, ma non ancora: ancora vivo. E allora succede che diventa un piccolo atto di ribellione scendere al cassonetto anche solo per buttare una bottiglia di plastica vuota, senza vedere nessuno, senza pericolo di contagio, ma con l’aria in faccia. Per ricordarmi che sono ancora vivo.

Febbre spagnola

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Un ricordo di Michela Ricciarelli

Pistoia anno 1920

Di fronte al nostro Battistero di San Giovanni a Pistoia: due di queste tre bambine persero la madre a causa di un’epidemia chiamata “La Spagnola”, una è mia nonna Gina e l’altra sua sorella Emma.

Nel 1918 la prima città che si autoisolò per sfuggire a questa terribile pandemia fu la città di Gunnison in Colorado.
Questa influenza colpì mezzo miliardo di persone, pari a un quarto della popolazione mondiale dell’epoca e invece a Gunnison grazie all’auto isolamento si salvarono tutti.

Furono alzate barricate intorno alla città e tutte le famiglie restarono in casa, senza tv, dedicandosi a lavoretti d’artigianato, a coltivare l’orto e i bambini a studiare a casa. Dopo 4 mesi poterono uscire dal paese tutti salvi.
La Cina oggi ha studiato questo caso per imitarne l’esempio avvenuto esattamente cent’anni fa.
Stare in casa quindi è l’unico modo al momento conosciuto per combattere il virus Covid-19.

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La nonna Gina era nata a Pistoia il 26 Ottobre del 1912.
La sua mamma si chiamava Ida e morì quando sua figlia aveva sei anni.
Alla morte della moglie il padre si risposò con un’altra donna, ma dopo due anni morì anche lei e allora ne prese un’altra ancora, che aveva vent’anni anni meno di lui e che finalmente gli sopravvisse. Quest’ultima matrigna – come la chiamava la nonna Gina – era cattiva; con la prima invece, la vita era un po’ meglio. La matrigna era gelosa di loro bambine e mia nonna soffrì molto per questo.

Lei era la maggiore di tre fratelli e si sentiva responsabile per loro. Mi raccontava che fu mandata a lavorare in un cotonificio di Pistoia all’età di 12 anni e la matrigna non si alzava mai per prepararle la colazione la mattina, lei che si doveva alzare alle 4 per uscire di casa prima dell’alba. Per fortuna aveva la nonna paterna, che le voleva tanto bene e le metteva i calzini a scaldare sulla stufa. A volte la portava a letto con sé.

La mia nonna è stata una nonna affettuosa con me e mi ha insegnato ad esserlo allo stesso modo con mia figlia: mi ha trasmesso il suo amore come avrebbe voluto riceverlo lei da piccola – con tante attenzioni, a riprova che basta un po’ d’amore ricevuto da piccina da una nonna per far germinare il desiderio di farsi una propria famiglia e essere la madre e la nonna che avrebbe voluto avere.

L’epidemia di spagnola

Nota come influenza spagnola, rimase nella storia come la grande influenza. Fu una pandemia influenzale scatenatasi fra il 1918 e il 1920. In tutto il mondo saranno milioni le persone morte a causa della spagnola.

Secondo i dati sembra che abbia causato più vittime della peste nera del XIV secolo: una delle più gravi forme di pandemia in grado di raggiungere anche le terre deserte nel Mar Glaciale Articolo e remote isole del Pacifico. A differenza del Covid-19, che sembra colpire in forma più grave chi è più anziano e in forma più lieve bambini e organismi giovani, sembra che la variante del virus presente nell’influenza spagnola attaccasse con più violenza i giovani. Dagli studi effettuati sui corpi congelati delle vittime è emerso che nell’organismo si scatenava una tempesta di citochine da cui un’insufficienza respiratoria progressiva e rapida, infine la morte. Si è ipotizzato che l’impennata di citochine fosse collegata a una reazione eccessiva del sistema immunitario dell’organismo, tipica degli organismi più in salute. Le probabilità di sopravvivenza sarebbero state, quindi, maggiori nei soggetti con un sistema immunitario più debole, come gli anziani, mentre i giovani adulti, avendo una risposta immunitaria più forte, sarebbero incorsi in un rischio di mortalità più elevato.

Malnutrizione, scarsa igiene e ospedali sovraffollati trasformarono la violenza del virus in un’infezione batterica di portata mondiale. Non dimentichiamo che si era alla fine della prima guerra mondiale. Nel 1918 i soldati vivevano in trincea, ammassati, deperiti e allo stremo. La popolazione, scoraggiata, pativa il freddo dell’inverno e la scarsità di cibo. La povertà era endemica.

Fra il 1916 e il 1918 migliaia di operai cinesi vengono ammassati sulle navi e nei treni per finire nelle fabbriche di munizioni, nei porti e sui campi di battaglia del fronte occidentale e russo. Erano i coolies e scavavano trincee per gli alleati. Non si sa quanti fossero. Avevano la stessa condizione lavorativa di uno schiavo e dopo la guerra rimasero in Europa e negli Stati Uniti, iniziando a costruire i primi quartieri cinesi, Chinatown.

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Autoritratto dopo infuenza spagnola, Edvard Munch

In generale l’arte nasce dal desiderio dell’individuo di rivelarsi all’altro.
Io non credo in un’arte che non nasce da una forza, spinta dal desiderio di un essere di aprire il suo cuore.
Ogni forma d’arte, di letteratura, di musica deve nascere nel sangue del nostro cuore. L’arte è il sangue del nostro cuore
Edvard Munch

Il pittore Edvard Munch nel 1919 ha 55 anni. Vive nella periferie di Kristiania, oggi Oslo, dove la famiglia si era trasferita nel 1864 e dove l’artista morirà il 23 gennaio 1944. La madre muore di tubercolosi nel 1868, seguita dalla sorella di Edvard Munch, Johanne Sophie, quindicenne, che a causa della stessa malattia se ne andrà nel 1877.
Malattia, morte, paura: un urlo tragico che è quello di tutta l’Europa, stroncata nei suoi sogni sul nascere dopo la meraviglia degli anni Dieci del Novecento, quando tutto sembrava carico di nuove promesse. “Non ci saranno più scene d’interni con persone che leggono e donne che lavorano a maglia. Si dipingeranno esseri viventi che hanno respirato, sentito, sofferto e amato…” scriverà nel Manifesto di Saint Cloud.

A un visitatore che osserva il suo Autoritratto dopo l’influenza spagnola chiede se la trova nauseante. Che cosa? La puzza. Sì, la puzza. “Non vede che sono quasi sul punto di decompormi? Sfumature cupe del rosso color sangue, decomposizione e disfacimento. Ancora oggi non si conosce con esattezza il numero di vittime della Grande Guerra: 74 i milioni di soldati mobilitati, 21 milioni di feriti e mutilati e poi i morti sui campi di battaglia, i prigionieri e tutti i nomi che fra le pagine della storia si sono persi. Affamati, debilitati, annichiliti spettri.


Riccardo Chiaberge, 1918 La grande epidemia: Quindici storie della febbre spagnola. Utet, Novara 2016

Perché si chiama influenza spagnola?

I giornali di Madrid sono i primi a parlarne. È l’inizio della primavera 1918, 102 anni fa, e per le strade della capitale spagnola si fischiettano le arie de La canción del olvido. Questa commedia lirica in un atto del genere zarzuela era stata ideata da José Serrano, pianista e compositore, e messa in scena prima al Teatro Lirico di Valencia, il 17 novembre 1916, poi a Madrid al Teatro de la Zarzuela, il primo giorno del mese di marzo, nel 1918. L’azione si svolge in un’immaginaria Sorrentinos, a Napoli intorno al 1799, per questo La canción del olvido, che inizialmente doveva chiamarsi El Príncipe errante, il principe errante, (ma pareva di cattivo auspicio), divenne famosa fra il popolo con il nome Soldato di Napoli, soldado de Nápoles.

Negli stessi giorni, i quotidiani iniziarono a scrivere che una “strana forma di malattia a carattere epidemico è comparsa a Madrid… l’epidemia è di carattere benigno non essendo risultati casi letali”. Anche il sovrano Alfonso XIII viene colpito dal male che in futuro resterà conosciuto con il terribile epiteto di febbre spagnola e che la popolazione spagnola ha ormai legato alle sorti del soldato napoletano dopo l’affermazione del librettista Federico Romero, il quale sull’opera disse che sopportò eroicamente la terribile epidemia di febbre detta “il soldato di Napoli” perché questa serenata era tanto orecchiabile quando la malattia, sebbene meno mortale. L’aneddoto, riportato da María Encina Cortizo a sua volta citata nell’opera di Ryan Davis “The Spanish Flu: Narrative and Cultural Identity in Spain“, di lì in poi segnò la connessione fra il virus e la lugubre immagine di morte e malattia rappresentata nel soldato di Napoli, ripreso dalla stampa dell’epoca.

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Vignetta satirica del Soldato napoletano pubblicata su “El Figaro”, 25 settembre 1918

Il diffondersi dell’epidemia spagnola

Qualche giorno di febbre e tutto passa, scrivevano inizialmente i giornali dell’epoca. Tuttavia, la situazione cambia rapidamente. Mentre le autorità cercano di tenere a freno il senso crescente di panico, la popolazione intuisce la gravità della situazione dalle misure sempre più restrittive prese dal governo. Victor C. Vaughan, capo dei chirurghi militari americani durante la Prima Guerra Mondiale, nel settembre 1918 scriverà che l’influenza ha invaso il mondo fino agli angoli più remoti. Ucciderà più soldati americani lei della la guerra e in poco più di un anno. Colpite anche India, Asia e Africa subsahariana, in particolare il Kenya.
I sintomi dell’influenza spagnola, che verrà chiamata in termini medici A sottotipo H1N1, coinvolgono il sistema respirato, apparato cardiocircolatorio e nervoso. L’esito è spesso mortale, con un’incidenza più alta nella fascia giovane della popolazione, fra 20 e 40 anni. Insieme alle complicanze a carico del sistema respiratorio si aggiungeva l’emorragia delle mucose, in particolare da orecchie, naso, stomaco e intestino, oltre un’alta frequenza di sintomi emorragici in diverse parti interne dell’occhio.

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Per quanto riguarda la profilassi e la terapia dobbiamo confessare che siamo quasi disarmati. Le disinfezioni dei locali e degli effetti d’uso e letterecci dei malati, i gargarismi, le polverizzazioni e le altre medicazioni topoche applicate sui militari si mostrano del tutto inefficaci. Lo stesso dicasi della sieroterapia e della vaccinoterapia, dei salassi, delle iniezioni endiovenose di acido fenico e d’altri antisettici sebbene tutti questi soccorsi fossero benissimo tollerati dagli infermi. Negli ospedali di Marina fu su larga scala provato anche il vaccino polivalente del prof. Centanni ma senza alcun risultato apprezzabile
Tenente Generale Filippo Rho, capo della Sanità militare marittima
estratto da un lavoro pubblicato sugli Annali di Medicina Navale, febbraio 1919
Consultabile sul sito web Ammiraglio Vincenzo Martines, Le avventure di un medico militare

Ancora oggi non è mai stato individuato il paziente zero. Come spiega Laura Spinney nel suo libro “1918, l’influenza spagnola. La pandemia che cambiò il mondo (Marsilio Editore), tre sono le ipotesi finora considerate principali: all’origine della pandemia A sottotipo H1N1 nota come febbre spagnola una base militare del Kansas, o forse un primo caso all’interno di una base britannica a Etaples, nord della Francia, o ancora dalla Cina attraverso uno dei molti lavoratori schiavizzati per la costruzione delle trincee di guerre. Quest’ultima ipotesi oggi appare la meno probabile.

Il caso di Gunnison

A salvarsi fu la città così coraggiosa da inventare per i propri abitanti l’auto-quarantena: Gunnison, in Colorado. Le autorità locali decisero immediatamente la costruzione di barricate lungo le strade che fungevano da accesso alla città; stazione ferroviaria bloccata e cittadinanza in quarantena. Gunnison, dove il fiume e la città si chiamano nello stesso modo, prende il nome dall’esploratore John W. Gunnison, che per primo la scopre. Alla fine dell’Ottocento l’arrivo della ferrovia, la stessa che verrà poi bloccata così velocemente, insieme alla corsa all’oro attireranno qui sempre più abitanti: minatori, agricoltori, gente in cerca di fortuna fra le montagne del Colorado.
Nel 1918 a Gunnison vivevano 1390 persone, 5590 all’interno di tutta la contea. I messaggi inviati con il telegrafo da Denver parlano dei primi morti, siamo all’inizio di ottobre.

I soldati per ordine della municipalità montano di guardia sulle barricate, armati. Chiunque sia di passaggio a Gunnison dovrà entrare in quarantena, pena la prigione. La popolazione non protestò: abituata a vivere in condizioni durissime, riuscì a superare l’inverno con i pochi prodotti dei campi. È il 3 febbraio quando si decide di abbattere le barricate. La mattina del 5 febbraio 1919 Gunnison rivede il mondo: tutti i suoi cittadini sono sani e salvi. Nei mesi successivi la terza ondata di pandemia si abbatterà sulla contea: almeno cento i casi a Gunnison, a morire per la pandemia cinque giovani lavoratori. Sono trascorsi cento anni, centodue per l’esattezza, e il mondo è attonito di fronte a una nuova, imprevista, pandemia. Il 13 marzo 2020 la prima vittima di Gunnison a causa del Covid-19: il 23 marzo nella contea di Gunnison si segnalano 37 casi positivi, 41 negativi e 58 in fase di osservazione.

Le nostra vita e le nostre strutture sono completamente diverse dalle condizioni di un tempo. Eppure, anche oggi torna a serpeggiare la paura, la stessa che fa parte dell’incontrollabile umano, uguale in ogni tempo. Anche ora si temono le conseguenze economiche e nonostante i grandi passi della ricerca medica, il tempo della quarantena torna come unica soluzione possibile a protezione della salute. Dopo un secolo, in questi anni Venti di un millennio diverso, ci ricordiamo all’improvviso, e questa volta senza vie di fuga, che il mondo è di nuovo a una svolta. A noi la scelta, di come vivere. E di come decidere di vivere quando tutto questo sarà un ricordo.

Ospedale da campo Fort Collins in Colorado 1918
Ospedale da campo a Fort Collins, Colorado 1918

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I racconti della zona rossa

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Di Antonio Disi

 

 

“Papà corri, c’è un mostro!” urlavo dalla mia stanza, piangendo.

E lui arrivava di corsa, come sempre, pronto a rassicurarmi.

“Dov’è?” mi chiedeva con un sorriso consolante.

“Nell’armadio, dietro agli sportelli e mi sta guardando!”, gli rispondevo terrorizzato.

Allora restava tutta la notte ad accarezzarmi i capelli e mi prometteva che sarebbe stato li a fare la guardia, così il mostro non sarebbe più tornato.

Ora il mostro è dentro di lui e quasi non apre più gli occhi. Lo osservo da dietro al vetro della sala di rianimazione. Non posso entrare. Ho il corpo e la testa avvolti da una tuta bianca. Il mio respiro è affannato per la maschera che mi copre il naso e la bocca, il suo per la polmonite che gli stringe il petto fino a farlo esplodere.

“Sta resistendo”, hanno detto i colleghi, “nonostante l’età, sembra che il suo cuore non voglia fermarsi”.

Il cuore, il cuore. Mi sembra di sentirlo battere da quaggiù il suo cuore.

“Penso di essere innamorato”, gli confessai in un giorno di primavera .

Si sedette per ascoltarmi e parlare con me dei cuori innamorati.

“Non mi ama più, papà, so che non mi ama”, gli dissi piangendo qualche tempo dopo.

E anche quella volta e tante volte in seguito si sedette per ascoltare e parlare con me di cuori spezzati.

Ora io sono seduto qui fuori, accanto a lui. Vorrei stringergli la mano, come tante altre volte ha tenuto la mia. Ma la sua mano è lontana, troppo lontana e da quaggiù sembra quasi senza vita.

Cerco di capire cosa gli passi per la mente in questo momento. Spero che non abbia tanta paura e che sappia di non essere solo.

Stai tranquillo pà. Il mostro non tornerà mai più.

 

 

Antonio Disi è ricercatore e divulgatore scientifico. Scrive storie, soprattutto sui temi dell’ambiente e dell’energia.
Il progetto I racconti della zona rossa nasce per provare a raccontare l’umanità nel difficile tempo del Coronavirus e confrontarsi con l’impatto sociale dato dalla grande tragedia del Covid-19.

Ti interessa? Continua a leggere su 100 Watt, il blog di Antonio Disi e cerca l’hashtag #iraccontidellazonarossa

Penso che ci sia tanto bisogno del racconto e di creare luoghi protetti dove il lettore possa provare senza pericolo sentimenti importanti coma la paura, la gioia, l’amore…
Quando ero piccolo ho sempre pensato che Cappuccetto Rosso non fosse una storia vera ma mi piaceva sentirla raccontare perchè riuscivo ad aver paura ma non c’era pericolo.
Ho sempre scritto con questo pensiero
Antonio Disi

Ho sempre scritto perchè mi piaceva raccontarmi le storie.
Ero affascinato dalla capacità del mio cervello di mettere in collegamento cose più disparate,
creare metafore, inventare storie talmente verosimili da ingannare anche me stesso.
Poi ho cominciato ad usare quelle storie a scuola, nella vita e per lavoro
Antonio Disi

Charlotte, il respiratore nato da una valvola 3D e una maschera snorkeling contro il Covid-19

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Il pezzo in questione è una valvola Venturi, che viene attaccata a un tubo e collegata a una maschera. Contattati da Massimo Temporelli, fondatore della startup FabLab, Cristian Fracassi e Alessandro Romaioli a causa dell’emergenza Covid-19 hanno realizzato uno stampo fornendo cento pezzi all’Ospedale di Chiari, in provincia di Brescia, grazie a una stampante 3D e una sana dose di ingegno personale.

Per chi non lo sapesse, l’effetto Venturi, o paradosso idrodinamico, viene studiato a metà del Settecento nell’Università di Modena, dal fisico italiano Giovanni Battista Venturi. Attraverso questo fenomeno idrodinamico si scoprirà che la pressione di una corrente fluida aumenta con il diminuire della velocità. Lo scopo era studiare la variazione di pressione di un liquido in un condotto attraverso l’uso di tubi manometrici, ovvero un tubo posizionato perpendicolarmente secondo la direzione di flusso, la direzione secondo la quale scorre il fluido. L’esperimento di Giovanni Battista Venturi dimostrerà che il liquido raggiunge altezze diverse nei tubi: poiché la pressione del liquido aumenta all’aumentare dell’altezza raggiunta dal liquido nei tubi manometrici si può dire che ad un aumento della velocità corrisponde una diminuzione della pressione e viceversa, cioè all’aumento della pressione corrisponde una diminuzione della velocità.

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Come è stato realizzato lo stampo?

I pezzi sono stati realizzati con una tecnologia a polvere. Il primo prototipo è stato realizzato a filamento, tuttavia la sua rugosità non avrebbe permesso alla valvola Venturi di miscelare correttamente l’ossigeno e l’aria a causa di turbolenze all’interno della valvola. Inoltre, all’interno della valvola esiste un piccolo foro della dimensione di 6-8 mm che deve possedere una perfetta circolarità, molto difficile da ottenere anche con le macchine più avanzate. Questo l’ostacolo che complica la produzione e che i ricercatori hanno dovuto affrontare nella creazione dello stampo.

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Qual è stata l’idea vincente? L’accortezza di riprendere il foro a mano utilizzando una mini-fresa meccanica in modo da ottenere una perfetta circolarità e un flusso il più laminare possibile. Dietro la geometria di questo componente si nasconde, quindi, l’elaborazione dati che si è potuta raggiungere grazie alla tecnologia 3D e una ricerca che nel profondo richiama abilità artigiana, manualità, impegno creativo: la capacità di mettere a confronto l’idea rispetto all’ostacolo calandolo nella realtà.

La valvola è stata creata per un utilizzo in ambito biomedicale. Il video realizzato da Cristian Fracassi e Alessandro Romaioli desidera rispondere alla accuse dei tanti che in questi giorni hanno scritto ai ricercatori accusandoli. L’idea, infatti, è nata per rispondere all’esigenza specifica di un ospedale trovatosi sprovvisto di valvole per respiratori.

Fondamentale per il funzionamento dei macchinari della rianimazione, la valvola salvavita si era esaurita a causa dell’emergenza legata al Covid-19, per questo l’ospedale di Chiari aveva lanciato un appello, richiamato dal Giornale di Brescia. Tramite il passaparola generato dalla diffusione il grido d’allarme è stato raccolto dall’innovatore e startupper Massimo Temporelli, co-founder di The FabLab. Grazie a una stampante 3D, all’ingegno e all’entusiasmo per la condivisione del proprio sapere, in poche ore sono state realizzate e consegnate 100 valvole da destinare alla terapia intensiva.

Le evoluzioni del progetto

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Grazie alla condivisione del sapere e una collaborazione fra i ricercatori, Isinnova, Dott. Renato Favero e Decathlon è nata la valvola Charlotte, una maschera respiratoria d’emergenza progettata riadattando una maschera da snorkeling già in commercio.
I ricercatori hanno divulgato la seguente nota. È possibile leggere il testo integrale cliccando sul progetto della valvola Charlotte di Alessandro Romaioli e Cristian Fracassi sul sito Isinnova

DESTINATO A MEDICI, OSPEDALI E PERSONALE MEDICO
Ci avete scritto da quasi ogni Stato del mondo. Tutti per chiederci di raccontare che cosa abbiamo fatto, tutti desiderosi di aiutare: il proprio Paese, le proprie città e i propri medici. E noi, in quanto abitanti di questo mondo unico per tutti, ci abbiamo messo l’anima e il cuore, oltre che la testa. Aver stampato quelle valvole ci ha fatto capire che non potevamo fermarci, che c’era bisogno di aiuto e non solo di speranza. Ed ecco che un primario d’ospedale in pensione, il dott. Renato Favero, ha suonato alla nostra porta, ci ha fatto una lezione di anatomia sul funzionamento di polmoni, alveoli, virus e polmonite, per poi chiederci di aiutarlo nell’impresa di trasformare maschere da sub in maschere per la respirazione da utilizzare in ospedale. Inutile dire la nostra risposta: ci abbiamo lavorato giorno e notte, Isinnova ha ingranato la sesta e in meno di 10 ore avevamo il prototipo che due ospedali bresciani stanno testando in questi giorni. Vorremmo aspettare l’esito di tutti i test (ad oggi positivi) ma pensiamo che ogni minuto sia cruciale. Medici, infermieri, ospedali, diffondetela, studiatela e aiutateci a migliorarla: noi stessi vi terremo aggiornati su come implementare questa nuova idea (sempre gratuitamente). Un grazie con il cuore a tutti quelli che hanno contribuito, specialmente a Massimo Temporelli, Federico Vincenzi, Decathlon, Autuori&Partners, gli ospedali, le isitituzioni e i medici eroi.

Maschera d’emergenza per respiratori ospedalieri

Nei giorni scorsi siamo stati contattati da un ex primario dell’Ospedale di Gardone Valtrompia, il Dott. Renato Favero, che è venuto a conoscenza di Isinnova tramite un medico dell’Ospedale di Chiari, struttura per la quale stavamo realizzando con stampa 3d le valvole d’emergenza per respiratori. Il Dottor Favero ha condiviso con noi un’idea per far fronte alla possibile penuria di maschere C-PAP ospedaliere per terapia sub-intensiva, che sta emergendo come concreata problematica legata alla diffusione del Covid-19: si tratta della costruzione di una maschera respiratoria d’emergenza riadattando una maschera da snorkeling già in commercio.

Abbiamo analizzato la proposta assieme all’inventore (il Dott. Favero). Abbiamo contattato in breve tempo Decathlon, in quanto ideatore, produttore e distributore della maschera Easybreath da snorkeling. L’azienda si è resa immediatamente disponibile a collaborare fornendo il disegno CAD della maschera che avevamo individuato. Il prodotto è stato smontato, studiato e sono state valutate le modifiche da fare. È stato poi disegnato il nuovo componente per il raccordo al respiratore, che abbiamo chiamato valvola Charlotte, e che abbiamo stampato in breve tempo tramite stampa 3d. Il prototipo nel suo insieme è stato testato su un nostro collega direttamente all’Ospedale di Chiari, agganciandolo al corpo del respiratore, e si è dimostrato correttamente funzionante. L’ospedale stesso è rimasto entusiasta dell’idea e ha deciso di provare il dispositivo su un paziente in stato di necessità. Il collaudo è andato a buon fine. Ribadiamo che l’idea si rivolge a strutture sanitarie e vuole aiutare a realizzare un maschera d’emergenza nel caso di una conclamata situazione di difficoltà nel reperimento di fornitura sanitaria ufficiale, solitamente impiegata. Né la maschera né il raccordo valvolare sono certificati e il loro impiego è subordinato a una situazione di cogente necessità.

L’uso da parte del paziente è subordinato all’accettazione dell’utilizzo di un dispositivo biomedicale non certificato, tramite dichiarazione firmata.

Stante la bontà del progetto, abbiamo deciso di brevettare in urgenza la valvola di raccordo, per impedire eventuali speculazioni sul prezzo del componente. Chiariamo che il brevetto rimarrà ad uso libero perché è nostra intenzione che tutti gli ospedali in stato di necessità possano usufruirne.

Abbiamo deciso di condividere liberamente il file per la realizzazione del raccordo in stampa 3d.

A differenza della valvola dei respiratori, si tratta di un raccordo di facile realizzazione, quindi è possibile per tutti makers provare a stamparlo. Le strutture sanitarie in difficoltà potranno acquistare la maschera Decathlon (qui il link) e accordarsi con stampatori 3d che realizzino il pezzo e possano fornirlo.

Chiariamo che la nostra iniziativa è totalmente priva di scopo di lucro, non percepiremo diritti sull’idea del raccordo o né sulla vendita delle maschere Decathlon

Chi sono?

Cristian Fracassi ha una laurea specialistica in ingegneria edile-architettura, dottorato in materiali per l’ingegneria e un master in economia e sviluppo dell’idea di business. Dal 2014 si dedica allo sviluppo di nuove idee presso ISINNOVA srl, Istituto di Studi per l’Integrazione dei Sistemi, istituto di ricerca indipendente con sede a Roma fondato nel 1971.

Alessandro Romaioli consegue la laura magistrale in Ingegneria Meccanica dei Materiali nel 2016 e nel tempo libero svolge attività ludico ricreative nel carcere di Verziano, Brescia.

Massimo Temporelli si laurea in Fisica all’Università di Milano. È divulgatore scientifico, innovatore e imprenditore. Presidente e founder del laboratorio innovativo The FabLab, dal 2012 insegna Antropologia e Sociologia allo IED di Milano e Piattaforme tecnologiche per la televisione in Cattolica.

Cronache dalla Zona Rossa

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Credits © Chiara Stoppa – venerdì 13 marzo 2020

All’inizio il telegiornale e poi gli avvisi alla radio; all’inizio la forza di sentirsi più forti e intoccabili. Poi la lontananza che si accorcia, il tempo che si allunga e diventa senza data né età, tempo liquido e abbondante che cola ovunque.
Tempo di cui all’improvviso non si sa che farsene, disabituati alla sua presenza e alla solitudine.
Il mondo che si ferma. La primavera dietro la porta di casa, chiusa.
La vita in sospeso questa vita in quarentena.

Il bollettino medico quotidiano della Protezione Civile, quelli che scappano e la scenografia da pessimo film di fantascienza come le pellicole di cui ci siamo infarciti la mente dagli anni Ottanta, per ben più di un attimo sembra che la nostra fantasia davvero sia riuscita a trasformare l’immaginario in cruda realtà. Quelli giovani che pensavano di essere intoccabili, gli infermieri come in trincea, le terapie intensive e le tute integrali che avevamo visto solo nei film. La costruzione degli ospedali da campo che non credevamo possibile, qui in Italia, dove fino all’altro giorno la conversazione era sul lavoro precario e che cosa fai domenica prossima, organizziamo una cena.

Morti: a Bergamo altre 70 bare sui convogli militari, è la mattina del primo giorno di primavera, sabato 21 marzo 2020. In Lombardia il picco del contagio, seguita da Emilia Romagna e Veneto. Superati i mille morti in Spagna; anche la Gran Bretagna, che fino a pochi giorni fa andava ai concerti, si rassegna a chiudere pub e scuole. I Coronavirus sono stati identificati negli anni Sessanta: possono essere causa di un banale raffreddore come di importanti infezioni del tratto respiratorio e finora sette hanno dimostrato di essere in grado di infettare l’essere umano, ma nCoV rappresenta un nuovo ceppo segnalato per la prima volta in Cina, a Wuhan, nel dicembre 2019.

Esiste da oltre tremila anni Wuhan: costruita nel punto in cui l’Han confluisce nel fiume Azzurro e quasi distrutta nel 1944 da un raid della Quattordicesima Forza Aerea degli Stati Uniti d’America, si estende nella provincia di Hubei, un nome che significa “a nord del lago”. Il lago in questione è quello di Dongting. Un territorio dominato dall’acqua dove si trova l’impianto energetico più potente al mondo, la diga delle Tre gole. Dopo la diga idroelettrica di Itaipú sul fiume Paraná, al confine tra Paraguay e Brasile, quella costruita sul Fiume Azzurro è la seconda più grande al mondo. Qui dal 2015 è in funzione il più grande ascensore al mondo per navi al mondo, con cui è possibile risalire il fiume senza circumnavigare la diga. Grazie alla produzione di energia elettrica la diga delle Tre gole avrà l’effetto di risparmiare sul carburante derivante da combustibili fossili. Per raggiungere questo scopo si stima che negli anni dal 2008 al 2023 saranno complessivamente trasferite in altre località cinesi circa 1,4 milioni di abitanti. Sono stati sommersi dall’acqua 13 città, 140 paesi, 1352 villaggi, oltre 1300 siti archeologici.

Da tre giorni non ci sono nuovi contagiati a Wuhan. Nel frattempo raddoppiano i contagiati negli Stati Uniti e a Milano una sirena suona dopo l’altra. Si abbassano in silenzio le saracinesche a Londra, compreso Harrods, che nei suoi 170 anni di storia aveva continuato a servire l’affezionata clientela anche durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Appare deserta la Spianata delle Moschee di Gerusalemme: all’improvviso svuotate le strade del mondo. E se questo è il coprifuoco ci si chiede cosa dovesse essere davvero, in altri tempi, in altri luoghi, rinchiusi nella propria casa, per mesi, senza cibo o quasi, essere prigionieri di una vita che rantola. È un solo un amaro assaggio di paura, ma è buio che sa di paura, incertezza, stupore all’improvviso.

È attesa.

E poi il lavoro che all’improvviso si ricorda, dove possibile, dell’uso di una tecnologia più intelligente e smart. La scuola da casa perché l’istruzione può essere anche a distanza. Consumare meno, fermarsi di più. E poi fermarsi e basta, tutti. Tutti a casa. E allora un’emergenza diventa possibilità per una rete più consapevole, tra le persone e nel web: usare strumenti ignorati fino a un attimo fa, vincere il dubbio e provare a buttarsi. Inseguire la curiosità, iniziare a fare e provare a fare senza, senza perfezione né perfezionismi.

Condividere, c’è voglia di condividere. Anche ai più solitari finisce che verrebbe voglia di un abbraccio; proprio a loro, allergici ai contatti, manca il saluto della persona che vedevi sempre e neanche ci facevi caso, le due chiacchiere in quel bar che è un po’ anche casa tua, la partita a carte con gli amici di quarant’anni fa. Questa società additata di solipsismo e solitudine si scopre con la fame del contatto di pelle che per anni ci ha fatto sobbalzare e indietreggiare. Da una parte all’altra nascono piccoli gesti che fanno la differenza, per sorridere anche da lontano. Si apre la finestra e si canta, si fa musica, ci si saluta dai balconi, anche alla vicina con cui non si parlava da anni – buon giorno, come va oggi – online fioriscono corsi di yoga, matematica e meditazione; lezioni gratuite offerte, scambiate, riscoperte, tanto il tempo non manca e allora perché non provare. Si chiacchiera, ci si telefona e anche online si è più attenti alle buone notizie, quelle che non usano il lamento ma alimentano la passione.

C’è bisogno di qualcosa? È la domanda che rimbalza da un cortile all’altro, lungo il filo del telefono e attraverso i muri. La necessità ci riscopre umani. Mai come adesso sento pronunciare una parola che ritorna: consapevolezza. Si inizia a pronunciarla, prima con timidezza poi con decisione. Nei momenti difficili si scopre un nuovo modo di rispondere alle questioni della vita, è il nocciolo del concetto di resilienza. Da sempre, l’evoluzione si fa strada attraverso il buio della difficoltà, come una radice nata da un seme che cerca la luce.

Ora che il caos si è fatto silenzio, si sentono finalmente le voci. Niente clacson, né strombazzamenti impazziti all’incrocio, niente gite, né bus, né folla come sardine tutti stretti stretti in metro all’ora di punta. Strade deserte. Sulla pelle delle città il disegno di una nuova anatomia e nel vuoto sterminato l’annuncio lugubre del – restate a casa -.
Il cielo è limpido e le stelle risplendono, anche in Cina. I livelli di smog non sono mai stati così bassi, i decibel si abbassano e il silenzio cresce. Negli ospedali si muore e si continua a nascere. Fra le corsie deserte neogenitori emozionati e l’urlo dei neonati, coraggiosi e bellissimi, capitati in questo momento storico bizzarro, con i corsi preparto tutti annullati, niente teorie né le normali procedure mediche, la vita esposta in tutta la sua vulnerabilità, potente, incontrollabile, caotica come un fiume in piena, mare in tempesta, oceano immenso nella sua pace al di là del singolo.

Mai come adesso che non si può, abbiamo voglia di fare sport, di aria aperta e picnic, di organizzare gite e dei pranzi in famiglia, di andare al lavoro nel solito treno dei pendolari con troppe persone rispetto al numero dei posti. E poi il caffè orrendo delle macchinette, le corse al nido e a scuola che sbrigati a finire il caffellate anche stamattina è già tardi. Tornati a quella solita normalità che ora guardiamo un passo indietro quanto tempo passerà prima di iniziare lamentarsi di nuovo?

Per ora granelli di sabbia nell’ingranaggio. L’orologio è lì sull’ingresso. Non serve più controllare, stare attenti al minuto. Il tempo è immobile: per qualcuno una scoperta, per altri una tacca sul muro nel carcere della giornata. C’è chi ritrova la fantasia e quelli a cui prudono le mani. Il divano con il tappeto scovato in quel mercatino, la stampa presa in viaggio: forse per la prima volta troviamo tempo per sederci. Lo sgabuzzino sgombrato, dopo anni aperti gli ultimi cartoni del trasloco e nel frattempo abbiamo già divorziato. Abbiamo abitato la casa solo nelle manciate di minuti ritagliate dal lavoro e appena c’è un week end via, fuga nell’altrove, ora ce ne rendiamo conto. Abitare casa è una cosa nuova.

Ora abbiamo tempo, non sembra vero. È bellissimo, è terribile.
Tutto il mondo vive una sospensione e come nelle più ardite meditazioni, ognuno nella propria cella, c’è chi rischia di impazzire e chi dentro di sé, nella forzata immaginazione, (ri)trova creatività, senso del gioco, silenzio dell’anima.
Quello che viene meno ci fa ricordare ciò di cui abbiamo più bisogno. La disconnessione attiva la connessione, la lontananza porta vicinanza. Le brutte notizie portano la ricerca delle buone e di entusiasmo nuovo. Il contrasto fa riemergere, prepotente, il senso originario.

Nel frattempo nel mondo, là fuori, combatte chi vive in corsia, chi ogni giorno lavora dietro una cassa, chi consegna pacchi e medicinali, chi si veste con guanti e tuta per curare, aiutare, stare vicino, compiere il proprio dovere, fare la propria parte. Astronauti in missione sul pianeta Terra esplorano il territorio più difficile: il corpo dell’umanità.

Ci rendiamo conto delle piccole cose che fanno la qualità della vita e della salute. Camminare, fosse anche per andare a buttare la spazzatura o a piedi al supermercato. È da anni che lo raccontano gli esperti: vita attiva, il potere degli abbracci, un sorriso a chi incontri, il buon cibo preparato in casa. Mai come adesso l’abbiamo capito, quante storie.
Non c’è cosa migliore come sperimentare la privazione sulla pelle, è quello che ci hanno sempre ripetuto i nonni che all’epoca avevano provato la guerra, è quello che racconta chi ha vissuto grandi fatti. Non c’è come provare sulla pelle per capire: la consapevolezza si scrive con l’esperienza.

Ne usciremo migliori? Trasformati, più consapevoli, capaci di ricordare tutto quello che stiamo capendo? Forse. Per ora impariamo la grandezza della vita e il potere della morte, l’ansia palpabile quando si moltiplica in mille sguardi e la condivisione capace di far sentire più umani, più vicini, più uniti. Scopriamo internet in modo nuovo, persino sui social. Sperimentiamo nuovi stili di vita e di lavoro, più digitale per tanti, e che una nuova scuola è possibile: bisogna iniziare a pensarla, costruirla pagina dopo pagina, perché queste scoperte possono diventare una risorsa per tutti. Quando sarà passata l’emergenza bisognerà ricordare di non dimenticare. Un nuovo modo di intendere il lavoro e l’esistenza è possibile, è un virus del sistema che ci sta costringe a riprogrammare i nostri mondi, e i nostri bisogni. Dal cuore alla mente.

Camminando sul filo della distanza e di questa solitudine obbligata recuperiamo il filo perso nella fretta e forse troviamo nuove risposte a vecchie domande. O sprofondiamo nella paura, nello sconcerto e nel pessimismo (tutti fattori che, tra l’altro, fanno crollare salute psichica e difese immunitarie, spiega la medicina), oppure possiamo imparare a dare di nuovo valore alle cose, alla nostra forza e alla vita. È un esercizio quotidiano, è una nostra scelta. Lo stiamo imparando sulla pelle. Il viaggio dell’umanità ha attraversato smisurati territori di ombra, paura, incertezza per arrivare a nuovi paesaggi, è così che funziona crescere. Si cresce attraversando l’ignoto.

Facciamo di nuovo funzionare la creatività, (ri)scopriamo che viaggiare è immaginare. Probabilmente non avremo mai più case così pulite e se tutto va bene inizieremo una nuova stagione della vita assaporando in modo diverso il gusto del tempo. Un tramonto estivo, il gelato che sgocciola sulla maglia pulita, il solletico dell’erba sotto la schiena, la sabbia e il vento in faccia, gli amici e le piccole cose; le riunioni di famiglia, il bello dell’aria pungente sulla faccia quando il naso diventa rosso, le mani screpolate e i guanti di lana, gli scaffali della biblioteca dove perdersi e il cappuccino al bar, la briscola e la carta ruvida del giornale da sfogliare la domenica mattina al sole, le rondini che tornano, il cinema, le zingarate, il profumo di pane all’alba dalla saracinesche dei forni, le fughe del venerdì sera dopo la settimana di lavoro, il treno troppo pieno. Nuovi orizzonti in tasca come nuove mappe pronte da disegnare.
E guai chi si lamenterà per la spazzatura da portare fuori.

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Dipinto di Max Ernst, citazione di Jan Fabre (1978)

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Potremmo chiamarlo il Virus del Contrappasso.
Potenza invisibile nell’era della visibilità.
Minaccia il respiro ma migliora la qualità dell’aria.
Costringe a casa le famiglie ma riconsegna ai genitori il ruolo di educatori.
Relativizza l’intelligenza artificiale vendicando il mondo animale più selvatico.
Ridicolizza l’opinione del popolo valorizzando la competenza degli esperti.
Penalizza il contatto fisico dimostrandone l’insostituibilità.
Elimina gli eccessi dando forza all’essenziale.
Favorisce lo smartworking chiarendone i limiti di intelligenza.
Elimina gli alibi maschili parificando i ruoli domestici.
Isola le persone indicando il bisogno di reciprocità.
Disarma la discriminazione selettiva alimentando la coscienza sistemica.
Non credo al castigo biblico ma Dante era un genio
Francesco Morace
sociologo italiano, presidente dell’istituto di ricerca Future concept lab e ideatore del Festival della crescita

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Street art – Opera di Nello Petrucci a Pompei

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Domanda sul #coronavirus. Fatemi sapere 😘🖤❤

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Favole al telefono, che prende ispirazione dal celebre libro di Gianni Rodari, è un’azione del progetto di educazione alla lettura LeggiAMO 0-18 del Friuli Venezia Giulia #LeggiAMO018 #FavoleAlTelefono #ioleggoacasa #LeggiAMOacasa
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Fiorista, Bari centro, via Putignani

 

Daniele Bettuzzi “Den” è un autore e chitarrista di Palagano, piccolo paese sull’appennino modenese. Qui la sua pagina Facebook  insieme al video Pure, realizzato nel 2019, per mettere una spolverata di buon umore all’anima.

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The Fantarlettis, la pagina creata da Mattia, Educatore Musicale, e Virginia, Educatrice di Nido bilingue per raccontare l’avventura di crescere insieme alla loro figlia Dalia, ci invita a guardare in alto verso il cielo. Dal terrazzo, dalla finestra. da ovunque, lui è sempre lì.

 

 

Qualcuno che la sa lunga
mi spieghi questo mistero:
il cielo è di tutti gli occhi
di ogni occhio è il cielo intero.

È mio, quando lo guardo.
È del vecchio, del bambino,
del re, dell’ortolano,
del poeta, dello spazzino.

Non c’è povero tanto povero
che non ne sia il padrone.
Il coniglio spaurito
ne ha quanto il leone.

Il cielo è di tutti gli occhi,
ed ogni occhio, se vuole,
si prende la luna intera,
le stelle comete, il sole.

Ogni occhio si prende ogni cosa
e non manca mai niente:
chi guarda il cielo per ultimo
non lo trova meno splendente.

Spiegatemi voi dunque,
in prosa od in versetti,
perché il cielo è uno solo
e la terra è tutta a pezzetti.
Gianni Rodari

 

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#pensierinodellanotte Ricordo che ho sempre avuto la passione per il tennis . Anni fa avrei potuto giocare ed imparare ma rimandavo sempre la cosa . Poi nel 2011 cambia improvvisamente la mia vita . Ironia della sorte per un virus , che innesca una patologia chiamata Guillain Barrè , che in questo caso paralizza le parti motorie e nel caso peggiore anche l’apparato respiratorio. Ho dovuto re-imparare a camminare , a mangiare , a prendere in mano una forchetta , alzarmi da una sedia , salire le scale , scendere le scale . Gesti che per tutti possono essere normali . Io ne sono uscito ovviamente , sono tornato a vivere la mia vita , ma con qualche acciacco in più . Quindi ora il tennis lo posso solamente guardare , ma avrei una voglia matta di giocare , ma non posso. La vita ti mette sempre di fronte a delle scelte e delle opportunità . Siamo noi che dobbiamo essere bravi a coglierle. La famosa frase “carpe diem. Cogliere l’attimo , ma essere in grado anche di assaporarlo e di renderlo unico . Oggi viviamo certamente in una situazione di privazione forzata , della nostra libertà , del vivere quotidiano, di gesti che fino a ieri ci sembravano ovvi e scontati ma che domani ,credetemi , saranno e risulteranno esclusivamente come grandi conquiste ! Notte ❤️ #celafaremo

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