Vivere il tempo in quarantena

E la gente rimase a casa
E lesse libri e ascoltò
E si riposò e fece esercizi
E fece arte e giocò
E imparò nuovi modi di essere
E si fermò

E ascoltò più in profondità
Qualcuno meditava
Qualcuno pregava
Qualcuno ballava
Qualcuno incontrò la propria ombra
E la gente cominciò a pensare in modo differente

E la gente guarì.
E nell’assenza di gente che viveva
In modi ignoranti
Pericolosi
Senza senso e senza cuore,
Anche la terra cominciò a guarire

E quando il pericolo finì
E la gente si ritrovò
Si addolorarono per i morti
E fecero nuove scelte
E sognarono nuove visioni
E crearono nuovi modi di vivere
E guarirono completamente la terra
Così come erano guariti loro
Kathleen O’Meara, poesia scritta nel 1869

Ora o mai più

Il tempo si spezza e si entra nel mondo sospeso.

Si chiamano punti di riferimento temporali. Sì, perché non ci orientiamo solo nello spazio, ma anche in quello che è il nostro sentimento del tempo. Il tempo, che di per sè non esiste, ma esiste su di noi: è effetto di pelle e ci si incolla sull’epidermide. Il tempo è ruga, solco della terra che attende il passaggio dal seme a albero; il tempo è cicatrice, ferita, sorriso che si apre, sguardi che si perdono o si incrociano in un istante fatale.

Abbiamo bisogno di scialuppe di salvataggio per fuggire dal tempo, a volte. O altre volte di barchette di carta che sappiano traghettare intatti i momenti di cui abbiamo bisogno attraverso l’oceano inconsapevole dell’oblio. Una boa, almeno: da raggiungere a nuoto, bracciata dopo bracciata, che ci ricordi il destino, parola ambigua che in lingua italiana con un solo vocabolo è capace di unire spazio e tempo. “Destino”, quello del tempo di una vita, destino la fermata ultima di un treno. Smemorati cronici, al binario dell’esistenza con la valigia della nostra storia, cercando il senso indietro o avanti, tra qualche chilometro. Un punto che interrompa l’orizzonte indistinto e uguale a se stesso. Un punto di riferimento, appunto.

Il primo giorno del nuovo anno è uno di quei giorni definiti “punti di riferimento temporali” scrive Daniel H. Pink, che di mestiere ha fatto lo speech writer per Al Gore. Dobbiamo immaginarci una cosa simile al bar dell’angolo, la casa di mattoni rossi o il semaforo all’incrocio: la nostra mappa quotidiana è fatta di riferimenti che dividono e suddividono… lo spazio, ma anche il tempo. Nello stesso modo in cui lo sguardo si appiglia a costruzioni che emergono sul piano visivo, spieghiamo e organizziamo la nostra mappa temporale. Dentro l’ordine dei giorni cerchiamo il bandolo di una matassa che al tempo del Covid si è fusa e confusa.
La scatola dei gomitoli ora è diventata inestricabile. Torneremo mai quelli di prima?
Vogliamo tornare quelli di prima?

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Oggi mi sono svegliata e c’era brutto tempo. Niente sole, aria fredda. Nonostante questo, ho voluto mettere la musica ad alto volume e ho costretto la mia famiglia a ballare in salotto. Poi ho cantato ad alta voce. E poi mi sono venute un paio di idee che non ho voluto lasciar scappare. Così le ho segnate su un’agenda trovata sulla mia scrivania. Cose che oggi ho potuto solo sognare, ma che finito quest’incubo vorrò, anzi dovrò assolutamente realizzare. Le ho scritte in bella calligrafia, tutte in verde, come la speranza. Perché i sogni belli meritano cura e attenzione. Poi ho chiuso l’agenda. Sulla cover c’era scritto: “Fai le cose con amore”. Niente succede mai per caso. . . . #quarantine #mysweetquarantine #coronavirus #covid_19 #covid19italia #sogni #todreamlist #todolist #cosedafare #hope #speranza #amore #picoftheday #pictureoftheday #instahope #futuro #future #pensieribelli #solocosebelle #riflessioni #insegnamenti #gratitudine #grazie #eternamentegrata

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“Favole al telefono” di Gianni Rodari durano solo una pagina, ma non tutti sanno perché. Sono state raccontate al telefono da un commesso viaggiatore che ogni sera chiamava la sua bambina a casa per darle la buona notte e, come scrive Rodari, le interurbane costa(va)no. Sono favole moderne e adesso quasi non lo sono già più, perché sono state scritte negli anni Sessante, edizioni Einaudi 1962 per l’esattezza. Oggi siamo nella contemporaneità. Il telefono praticamente non costa più e non esiste nemmeno più
– nella mente il rumore del telefono grigio beige della nonna, dove infilavi il dito nella rotella e per iniziare a chiamare descrivevi un cerchio nello spazio come un rito magico –
ora da un capo all’altro dell’oceano passa un filo che ci permette di parlare e addirittura vedere quelli a cui vogliamo fare ciao. Siamo viaggiatori del XXI secolo, eppure se togli “20” davanti, rimane ’20.
Siamo di nuovo nei meravigliosi Venti, il sapore dell’inizio. Un altro giro di valzer.
Perché ogni secolo, ovvio e incredibile, ha i suoi anni Venti. Da piccola io mi chiedevo com’erano state le persone degli anni Venti; cercavo di immaginarmele quelle vite dell’Ottocento, Settecento, Novecento.
I sogni, gli incidenti e i bivi della vita. Le svolte, gli orizzonti cercati.
Le illuminazioni improvvise e le saggezze dell’età. Le cucine e le case, i visi allo specchio.
Che faccia avevano, quali abiti e sogni, che speranze e incubi abbbiamo indossato in tutti gli anni Venti della Storia.
E chissà, come saranno quelle degli anni Venti del Duemila col senno di poi.
E chissà, come saremo noi nel nostro sguardo di domani

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Credits © Vittorio Giannitelli

Una storia di didattica a distanza in tempo di Coronavirus

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TRISTEZZA E ALLEGRIA di Alexsandra Serjant, 5E – Un lavoro rappresentativo delle emozioni contrastanti di questo periodo. Insieme a questo, sul sito dell’Istituto Comprensivo Ceretolo sono presenti o in via di caricamento gli elaborati creati da bambini e ragazzi della scuola infanzia, primaria e secondaria

L’Istituto Comprensivo Ceretolo di Casalecchio di Reno, Bologna, accoglie bambini e ragazzi da 3 a 11 anni: comprende scuola dell’infanzia, primaria e scuola secondaria di primo grado, quella che tutti conosciamo come scuola media. Qui la didattica online è partita immediatamente e rappresenta un esempio felice su come la volontà di fare scuola possa combinare l’esigenza di apprendimento e il bisogno di contatto umano, empatia e relazione, obiettivi che la direzione scolastica fra i principali.

Questa è solo una delle molte storie che è possibile trovare sul territorio italiano, l’auspicio è che ci siano tanti altri casi e racconti di esperienze da raccogliere e su cui meditare. È la storia di un successo condiviso, perché dietro a questo impegno c’è una parola chiave: rete. Rete internet come supporto alla didattica. E non solo. Capacità di fare rete è quello che ha unito i genitori, a cui viene richiesto un impegno di cui tutti sono consapevoli, corpo docenti, preside e, ovviamente, ragazzi. Capacità di fare rete anche a livello personale, andando oltre ruoli e vincoli, come il caso di un papà e l’azienda in cui lavora, che hanno reso disponibili alla scuola tempo e competenze per il miglioramento del supporto tecnologico. Questo è il significato più profondo del saper fare gioco di squadra: sapere che cosa posso offrire agli altri delle mie risorse, farmi avanti, prevedere i bisogni dell’altro. Non è questo che prima di tutto, al di là di ogni programma ministeriale, dovremmo insegnare?

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Contro l’elettrificazione delle città, 1889

Rispondere alle necessità ampliando l’orizzonte mentale è la sfida del cambiamento e ogni trasformazione parte da questo, dalla possibilità di affrontare la realtà grazie al potere dell’immaginazione. Nella storia è stata l’immaginazione a portarci verso nuovi continenti e nuove scoperte geografiche. Territori di uno spazio che è quello geografico, sociale, culturale e, prima di tutto, spazio e tempo della mente, del corpo. Spazio e tempo interni a noi stessi. Uno spazio in cui scrivere di proprio pugno nuove storie. Una nuova storia

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Didattica a distanza: si o no?

In questi giorni tantissime sono le polemiche sulla didattica a distanza. C’è chi di didattica a distanza non ha minimamente voluto sentir parlare: non siamo obbligati a farlo, mi raccontava una mamma di fronte all’avviso dei docenti ai genitori. A quanto pare è esatto, i docenti non sono tenuti a farlo e in tante scuole è successo questo. Per oltre un mese gli insegnanti si sono limitati, soprattutto nel caso dei bambini alle primarie, prima a consigliare il ripasso di argomenti già fatti, in seguito dare compiti a casa tramite avvisi mail e WhatsApp. Stancamente, solo qualche giorno fa, alcuni si sono arresi a provare una diretta video: un’ora alla settimana, dopo giorni passati a organizzare gli accessi e accordarsi con i genitori su orari e modalità del collegamento.

Per i più piccoli (e i loro genitori!) ecco la giornata: studiare da pagina tale a talaltra, qui gli argomenti affrontare (ovviamente a dover spiegare l’adulto presente) e gli esercizi, che ancora non si capisce quale colore usare per i numeri, a meno di non avere una sapiente legenda a fianco (o il proprio figlio). Su questo punto bisogna aggiungere che qualche adulto smarrito si sta ancora interrogando sul senso e la necessità di variazioni cromatiche, almeno tre, nella scrittura dei decimali e sulle operazioni in colonna in rosso-blu-verde, abitudine che per un bambino di otto anni richiede più tempo nella stesura del colore che nella risoluzione del calcolo.

E io? Tu? Lui? Genitore, non dico straniero e nemmeno senza istruzione, ma ormai distante dagli anni di scuola, con uno o magari più figli, posso e devo saper spiegare le operazioni in colonna? Personalmente già alle elementari avevo problemi di calcolo su quanto ci mettesse l’acqua a riempire vasche e lavandini in problemi rimasti celebri come assurdi rompicapo.
Ma il problema non sono io. La questione è di tutti. Suvvia, si dice, non si tratta di complicate equazioni, ma semplici operazioni matematiche di terza elementare.
In gioco c’è altro.

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Trasmettere è accompagnare

Saper fare una cosa non è saperla spiegare. Si tratta di due processi distinti e molto diversi.
Le video-lezioni hanno diversi limiti. Lo sappiamo.
Una linea internet che magari si connette e disconnette, i salti di voce, dover convincere quelli piccoli a darsi una mossa e mettersi seduti alla scrivania, magari dopo essersi lavati i denti e indossando una t-shirt invece del pigiama.

Il collegamento video della didattica a distanza impegna bambini e adulti, sì. Li costringe a una fatica che equivale, almeno all’inizio, a qualche ora di studio, un cambiamento mentale e una dose generosa di pazienza, senza contare dover svuotare una stanza, se non altro dai rumori della cucina e creare le condizioni, di silenzio e tranquillità per poter attuare il collegamento.

Quelli di noi che hanno scelto la vita freelance lo sanno da sempre: lavorare da casa ha bisogno di impegno, disciplina, responsabilità, tre parole fondamentali nell’auto-organizzazione. Adesso sembra che ce ne siamo finalmente accorti, primi fra tutti quelli che fino a qualche settimana fa sognavano il lavoro da casa. Ora, in ciabatte mentre l’acqua della pasta già bolle, rimpiangono tutte le cattiverie dette o pensate sugli insegnanti dei figli e non vedono l’ora di tornare al solito ufficio, va bene perfino rivedere il collega antipatico. Il caffè delle macchinette non sarà mai sembrato così buono come al ritorno da questa quarantena (almeno per i primi… tre?… giorni). Il fatto è che lavorare e studiare da casa in modo continuativo ha bisogno di organizzazione. Questa è un’emergenza, ne siamo tutti consapevoli. Ecco perché questa è una via provvisoria, al contrario di chi fa vita freelance o homeschooling ed è strutturato su modalità del tutto diverse.

Il senso originario del fare scuola

La didattica a distanza non pensa di sostituire la scuola, no. La didattica a distanza è semplicemente un modo che si aggiunge al fine di fare scuola. Se andassimo indietro all’origine di questa parola abusata, offesa e strapazzata, troveremmo che skholé nell’antica Grecia è il tempo dedicato all’otium, ozio che nulla a che fare con il far nulla, bensì, al contrario, briosa attività del tempo libero, cura delle proprie passioni, inseguimento di ciò che interessa. Solo in un secondo momento “scuola” inizia a indicare il luogo, lo spazio fisico dove si fa scuola.
Fare scuola è un concetto, un ideale, un obiettivo e ancora di più: fare scuola è uno stile di vita. Significa svegliarsi con l’intento di usare ogni giorno per imparare. Oggi più di ieri. E non importa quanti anni hai, perché si impara ogni attimo, fino all’ultimo respiro. Non importa come e con quali mezzi: utilizziamo tutti gli strumenti possibili.

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C’è una storia nella mia mente, l’ho letta anni fa non so più in quale libro. È la storia di un padre ebreo durante la seconda guerra mondiale. Insieme alla famiglia si nasconde in uno scantinato, dove rimangono tre anni e più. La figlia è una bambina di sette o otto anni. Per tutta la guerra, durante tutto quel tempo in un seminterraneo, con pochi libri e condizioni minime, continuarono a studiare, insieme, mettendo insieme nozioni in parte estratte dalla memoria e in parte, immagino, da una risorsa di creatività non da poco. Non perserono mai un solo giorno di scuola. Non avevano granché materiali, né quaderni nuovi da iniziare: nel suo lavoro di trasmissione dovette ricorrere alla memoria e all’immaginazione.
E c’è un’immagine, indelebile, che più di tutto mi è rimasta in testa di questa storia: ogni giorno, il padre e sua figlia si prendevano per mano e facevano la strada per andare a scuola.

Nei pochi metri offerti da quel seminterrato a scuola si ci andava, passo dopo passo. Facevano il giro del letto, e poi lungo la stanza, fino ad arrivare al tavolo, dove si sedevano pronti per iniziare la lezione di quel giorno. Era il solito tavolo della cucina, l’unico presente nella stanza, ma in quel momento era un altro tavolo.
Perché in quello spazio quotidiano si creava un territorio immaginario: un nuovo spazio ritagliato dalla guerra dove per qualche ora ogni giorno si faceva scuola. Per pensare, immaginare, imparare. Alla fine del conflitto la bambina, con molto stupore, si rese conto che era quasi in pari con il programma. Insieme, in quella vita solitaria e isolata, erano riusciti a raggiungere tutto ciò che gli altri avevano continuato a fare all’esterno.

“Ci siamo trovati catapultati in una realtà diversa nel giro di pochissimi giorni. Questa è un’esperienza che lascerà il segno a livello umano e didattico. Di difficoltà ce ne sono molte, a livello disciplinare e anche per l’impegno che la didattica a distanza comporta nella necessità di dover instaurare nuovi rapporti con le famiglie e gli studenti.

La modalità che abbiamo organizzato è una video-lezione ogni giorno. Il computer è chiaramente un mezzo diverso per il rapporto emotivo rispetto al contatto fisico a cui siamo abituati. Questo cambia le dinamiche relazionali e ci ha portato a fare nuove scoperte.

Che cosa possiamo osservare? Siamo tutti insieme, ma l’effetto va anche in direzione del rapporto uno a uno. In alcuni casi gli studenti, soprattutto qualcuno facile a distrarsi o con qualche difficoltà nel mantenere la concentrazione, ha raccontato di percepire l’insegnante in una modalità più confidenziale, come unico per lui.

Una relazione di vicinanza.

Mi sarei aspettata una distanza. Davanti ho solo il freddo schermo del computer, invece no. Attraverso la webcam ognuno entra nella casa dell’altro e questo non è un fattore da poco. Io sono entrata a casa dei miei studenti e loro nella mia: abbiamo visto le nostre cucine, gli studi e gli angoli di una camera aggiustata per l’occasione, giorno dopo giorno. Abbiamo visto la nostra umanità. I luoghi del nostro vivere quotidiano.

Questo cambia i rapporti. Al di là della difficoltà dovuta al mezzo e all’impegno richiesto da un’attività come questa, al di là dalla situazione critica che ci siamo trovati all’improvviso a vivere, quello che stiamo sperimentando è un nuovo modo di entrare in relazione.

Lo studio è importante e i programmi rendono impegnativa l’attività. D’altra parte la fascia con cui quotidianamente mi confronto vive un’età particolare: in questo momento i ragazzi respirano l’anomalia del periodo e in generale hanno fame di relazioni. Fra i ruoli che riveste, la scuola ha la funzione di un luogo che permette loro di stare insieme. Il lato negativo delle relazioni può svilupparsi anche nel rapporto umano classico, fra studenti e studenti, o fra insegnante e studenti.

Oggi, lentamente, stiamo sempre più facendo riferimento a una didattica che si serve di video e immagini. Usciremo un po’ tutti cambiati da questa esperienza.

Uno dei vantaggi da non perdere? Alcune metodologie, per anni ignorate, potrebbero essere molto più sfruttate.

Quello che in queste settimane mi ha stupito è vedere che in alcuni casi chi a scuola si trovava più in difficoltà online ha dimostrato una grande apertura, coivolgimento e concentrazione. Viceversa, alcuni più disinvolti hanno scoperto di sentirsi imbarazzati.

Una cosa è certa. Il metodo della didattica a distanza si basa molto sulla responsabilità dello studente. Chi riesce ad autoregolarsi ti segue; per chi è difficile ritagliarsi uno spazio, fisico o mentale, risulta tutto più faticoso. In questo la famiglia fa naturalmente la differenza, sia nei termini di una disponibilità a livello mentale, sia per quanto riguarda l’organizzazione pratica degli spazi.

In questo senso per agevolare tutti abbiamo cercato di proporre orari più elastici, consapevoli che anche le attività devono tener conto del fatto che siamo tutti a casa e che, quindi, si tratta di una situazione eccezionale ritagliata dal contesto quotidiano. Naturalmente spiegare in presenza, essere immersi nella propria classe, possiede un’efficacia maggiore che non una telecamera, ma in certi casi il fatto di non sentirsi osservati dai compagni e quindi, anche meno giudicati, insieme alla sensazione di un’attenzione personalizzata ha contribuito a risultati nuovi”
Pia Fucà, docente di matematica e scienze

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Album di famiglia in quarantena

Creare ponti nella distanza

Dare compiti e pensare che un genitore sappia o debba saper spiegare la lezione non è la stessa cosa che trasmettere e spiegare, per questo personalmente cogliamo l’occasione per fermarci e vedere l’impegno degli insegnanti di tutta Italia che, pur con le difficoltà del caso, hanno provato ad accendere quel collegamento, tecnologico e dell’anima, usare un computer e Google in modo nuovo, studiare come fare, trovare un modo per passare il sapere, ritrovare lo sguardo di tutti, cercare di tenere viva l’attenzione e creare una routine giornaliera o almeno provarci.

Guardiamo verso le scuole abitate da presidi e docenti entusiasti. Facciamo caso, magari prendendo un pizzico di ispirazione, ai genitori che non si sono tirati indietro e hanno trovato un modo per svuotare un angolo, della casa e della mente, preparare lo spazio, esserci laddove serviva una guida, dare una mano e poi, quando serve, lasciare la privacy ai figli e agli insegnanti, far presto a chiudere la porta per sparire nell’anonimato di un’altra stanza. Osserviamo, con un grazie dal cuore, i piccoli, i bambini e i ragazzi, perché fra noi, sono sempre quelli che per primi non temono le novità e si lanciano nell’ignoto, soprattutto non temono il nuovo quando anche noi adulti sappiamo essere di supporto.

Certo mancano le occhiate furtive tra i banchi, la cartaccia da appallottolare e gli amici del cuore che senza di loro la scuola non è la stessa; manca sbirciare fuori dalla finestra guardando il mondo fuori con nostalgia, le feste di compleanno insieme e l’intervallo, forse da sempre una delle parti migliori della giornata. Lo sappiamo, vedersi e toccarsi non ha prezzo. Eppure siamo qui, a vivere questo periodo strano e diverso che qualcosa ci lascerà, qualcosa ci sta già insegnando.

Torneremo ad abbracciarci, ha scritto Enrico Battisti, il preside (ops, adesso si dice dirigente scolastico) dell’Istituto Comprensivo Ceretolo di Casalecchio di Reno, Bologna. Torneremo a fare lezioni sui banchi di scuola e magari persino all’aria aperta, perché ora abbiamo capito quanto sia importante e quanto ci manca. Torneremo a sederci fianco a fianco, riempire di urla e disegni i corridoi ma, forse, da adesso sappiamo che il contatto può accadere anche (non solo, ma anche) attraverso uno schermo. Perché fare scuola può accadere, ovunque, come ci ricorda l’antica saggezza dei greci e dei latini. Alle radici della nostra cultura (ri)troviamo la virtualità, un concetto antico dell’apprendimento che siamo noi a dover riscoprire, noi che ci crediamo i moderni.

E allora non posso non pensare ai bambini in ospedale, alle impazzite chat dei genitori che si riempiono di messaggi confusi in due giorni di assenza per un’influenza, a tutti i casi in cui una persona, per condizioni esterne o di salute, per un periodo debba stare altrove: adesso sappiamo che ci sono modi in cui possiamo rimanere connessi, lasciarci messaggi con le cose da fare, commentare e commentarci, vederci, parlare, ascoltare una spiegazione. Usiamoli senza timore che il cambiamento ci sconvolga la vita. È accaduto in molte, tutte, le epoche. Il cambiamento ci sconvolge, sì: uccide i nostri schemi di pensiero e le abitudini, ci lascia confusi e inerti. Ci travolge e sommerge.
Poi, alla fine, ci trasforma. Dagli ostacoli della vita nascono nuove opportunità.
E insieme al nuovo noi rinasciamo, più forti di prima.

“Sono voluta partire solo nel momento in cui ci sono stati tutti i ragazzi. La prima settimana tramite il registro elettronico e Classroom abbiamo iniziato con l’invio di materiali per il ripasso e il consolidamento. Visto che la situazione si prolungava, non poteva bastare e anche per questo abbiamo deciso per avviare un contatto diretto con i ragazzi. Per quanto riguarda le risorse, oggi tutti i ragazzi possiedono dispositivi mobili in grado di funzionare come supporto per le video-chiamate, attuate con Meet: smartphone, o tablet o computer.

Il problema più grande riguarda i ragazzi che già erano difficilmente presenti a scuola: a distanza il rischio è ancora più presente, perché, inutile dirlo, molto fa la famiglia. Quando una persona è a rischio dispersione scolastica, ci sono casi in cui i servizi sociali tentano di contattare le famiglie, ma sono i genitori stessi a essere assenti, non rispondere al telefono o evitare il confronto. Per chi ha questo tipo di difficoltà e vive in una casa che non facilita, né supporta lo studio, la distanza può diventare ancora più grande.

La risposta nella mia classe è stata positiva. Sono tutti presenti e, devo dirlo… molto puntuali!

A dire il vero non mi aspettavo di ottenere facilmente l’attenzione dei ragazzi. Anche in classe non sempre è semplice riuscire a essere ascoltati e coinvolgere, soprattutto con i caratteri più forti e autonomi. Inoltre, mi sarei aspettata che online il caos fosse dietro l’angolo, anche per l’età: rispondere rimanendo in attesa del proprio turno non è facile per nessuno. Invece adesso noto che i tempi di risposta si allungano. Ci aspettiamo di più. Ognuno lascia una pausa che consente agli altri, e alla linea, di entrare nella discussione senza sovrapporsi E SE QUESTO AVVIENE LASCIA LA PAROLA ALL’ALTRO. Stiamo imparando a usare meglio il mezzo tecnologico e stiamo anche imparando a relazionarci in modo nuovo. Incredibilmente, è migliorata la disciplina.

L’esperienza di queste settimane di didattica a distanza sta rendendo i ragazzi più responsabili.

Questa mattina, per esempio, abbiamo fatto un tema. La consegna è stata tramite Classroom e poi abbiamo attivato la modalità Meet per permettere la visione di tutta la classe. Mi sono fermata a dare qualche indicazioni e spiegare le tracce. Qualcuno è intervenuto per ulteriori richieste chiarimento, a cui ho risposto.

Poi uno studente, una persona che a dire il vero non mi sarei mai aspettata, ha domandato il silenzio.

Altrimenti non riesco a concentrarmi.

Disciplina, responsabilità e maturità, questo è quello che stanno dimostrano. Perché ci vuole autodisciplina e maturità per seguire una routine, organizzarsi anche da casa, tenere alta la concentrazione. Ecco, i miei studenti si collegano in orario, chiedono informazioni, sono solleciti, risultano preparati anche nelle interrogazioni.

Diventare adulti significa anche questo: diventare responsabili di se stessi.

Inoltre, con la didattica a distanza è possibile stabilire appuntamenti diversi con gruppi di alunni e non solo far lezione a tutta la classe come ci obbliga la didattica in presenza. Gli alunni con lacune, oppure quelli con bisogni educativi speciali (BES), o anche quelli con disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) possono usufruire non solo di misure dispensative e compensative, ma anche di momenti a loro dedicati attraverso un approccio più specifico. Cerco, in questo particolare periodo, di prestare ancora più attenzione ad una didattica inclusiva a distanza”
Rita Rossi, docente

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Alcuni dei disegni creati dai bambini della stanza gialla, scuola Infanzia Arcobaleno, durante l’esperimento di didattica a distanza in questo periodo di quarantena

Il cambiamento è immaginare nuove risposte

Un caso interessante dell’Istituto Comprensivo Ceretolo di Casalecchio di Reno, Bologna, è rappresentato dalla storia di didattica a distanza dei piccolissimi della materna, perché grazie all’entusiasmo di alcune insegnanti anche lì è stato sperimentato un modo per sentirsi più vicini grazie ai dispositivi tecnologici già noti nelle altre classi.

È stata la prima volta ed ha segnato un inizio che sarà argomento di riflessione per il futuro. Nessuno desidera sostituire la presenza con la didattica in remoto. Qualcuno di noi pensa di poter fare a meno del contatto umano? No, tuttavia esistono contesti storici, sociali e di vita che ci impongono di pensare in maniera nuova.

“La scuola dell’infanzia è la scuola della socializzazione. In questa fase l’apprendimento avviene attraverso il gioco e la relazione, quindi quando è venuta meno la sua realtà abbiamo fatto una riflessione su quello che potevamo fare. Per questo abbiamo deciso di creare dei momenti di vicinanza: far sentire che noi insegnanti non eravamo sparite.

A una famiglia che conosco è capitato questo. I bambini non vedendo più le loro maestre hanno pensato che… fossero morte! La cosa può far sorridere, ma in realtà riguarda le emozioni profonde di un bambino che ha una routine basata sulla vicinanza ai suoi compagni, alle maestre e alla scuola, vissuta come spazio di gioco, apprendimento e relazione. E poi bisogna ammetterlo… non erano solo loro a sentirsi soli. Mancava anche a noi non vedere con quelle piccole pesti! Per questo abbiamo escogitato nuove soluzioni.

All’inizio abbiamo pensato di creare un audio di saluto, che mandavamo ai rappresentanti di classe, i quali a loro volta lo diffondevano ai genitori. Devo dire che i rappresentanti di classe hanno dato un apporto fondamentali e hanno agito da forti collanti. In questo caso la chat dei genitori ha assolto una funzione utile e si è rivelata importante per la comunicazione. Ma non ci bastava. Continuavamo a percepire una distanza destinata a diventare più grande ogni giorno. Ci siamo chieste: che cosa possiamo fare per recuperare almeno in parte la sensazione di vicinanza e intimità che di solito descrive le nostre giornate?

Avevamo già un blog di sezione: è una piattaforma che utilizziamo in modalità privata per documentare alcune attività o consegnare ai genitori le fotografie, per esempio in occasione di gite e visite d’istruzione. Abbiamo in parte convertito il blog a un nuovo utilizzo trasformandolo in un recipiente, sia di proposte nostre ai bambini, sia come contenitore delle esperienze dei piccoli. È chiaro che in una fascia d’età come questa i genitori rimangono i tramiti senza i quali nulla è possibile: la loro risposta è stata meravigliosa, piena di entusiasmo.

Abbiamo iniziato con i disegni, che i bambini facevano e i genitori ci inviano per immagini via mail e che poi noi caricavamo. Il blog è diventato un contenitore di memoria.

Eppure, avevamo ancora la sensazione che mancasse qualcosa. Abbiamo deciso di attuare un’indagine fra le famiglie per sapere se potevano essere interessate a rimanere in contatto con noi tramite altri strumenti. Naturalmente abbiamo pensato a un’indagine in forma riservata, perché non volevamo si sentissero in qualche modo obbligati a partecipare. Per questo si è evitato chat come WhatsApp per adottare la soluzione di un questionario in forma anonima tramite un modulo Google. In realtà tutte le risposte che abbiamo ricevuto sono state entusiasmanti; i bambini avevano voglia di un contatto più diretto con la classe e i genitori erano pronti a sostenerci e seguire i figli in questa avventura.

Come scuola eravamo già in possesso della piattaforma Google Suite. Abbiamo richiesto gli accessi anche noi della materna, nonostante di norma questi strumenti vengano utilizzati a partite dalla primaria. Naturalmente si è trattato di una modalità di accesso semplificata: è stato aperto un corso su Classroom utilizzando solo la funzione stream. Questo ci ha permesso di utilizzare un altro contenitore in cui raccogliere le esperienze dei bambini e, cosa non secondaria, relazionarci con un coinvolgimento maggiore.

All’inizio i bambini, con il supporto dei genitori, caricavano disegni e noi commentavamo. Gradualmente, i bambini, insieme agli adulti, hanno iniziato a osservare i loro lavori reciprocamente. Hanno iniziato a lasciare commenti, piccoli pensieri per i compagni, esclamazioni. Ora ci accorgiamo che sempre più hanno preso, e prendono ogni giorno, dimestichezza. E conquistano autonomia, indipendenza.

Sono i bimbi, attraverso la mano scrivente del genitore, a commentare i video e i lavori dei compagni. Quella che si sta creando è una sorta di galleria d’arte e creatività virtuale.

Dopo un po’ non bastava neanche Classroom: avevamo tutti voglia di vederci. Mancava il ridere insieme, gli sguardi, le voci. Per questo, siamo passati a Meet. È un bisogno anche nostro quello di vederli e sono entusiasta di vedere il loro comportamento cambiare.

Al primo incontro abbiamo invitato tutti e venti i bambini. C’era un po’ di ansia, come sempre quando ci si deve connettere per una video-chiamata… tanto più se davanti a una classe di venti. Con i genitori ci eravamo scambiati alcuni messaggi nel caso qualcosa fosse andato storto. Si sa, in questi casi può esserci la linea che cade, uno smartphone che finisce i giga o le batterie: succede! Ma un bambino piccolo può rimanerci davvero male e non volevamo che questo accadesse.

È stato un successo. Divertente e coinvolgente, una magia.

Adesso quando entriamo in Meet tutti insieme loro sanno che i microfoni devono essere spenti. Iniziamo noi insegnanti leggendo una storia, una legge e l’altra guarda lo schermo dove – è meraviglioso – riusciamo a vedere tutta la classe al completo. Un po’ come se fossimo davvero tutti insieme.

Poi chiamiamo ognuno di loro per nome e la vera emozione è vedere questi bambini di pochi anni che hanno anche imparato a accendersi da soli il microfono, adesso lo sanno fare senza l’aiuto dei genitori.

Dopo il successo del primo Meet abbiamo iniziato a pensare in piccoli gruppi: cinque bambini per volta, due volte alla settimana. I genitori sono vicini, ma in disparte, senza suggerire in modo che ogni bambino sia libero di intervenire, domandare, rispondere. L’adulto semplicemente accompagna l’esperienza in silenzio.

Facciamo piccole attività. Abbiamo trovato giochi interattivi, spunti, ispirazioni.

Abbiamo riadattato la programmazione pianificata a settembre all’inizio dell’anno.

Soprattutto, abbiamo cercato di ristabilire delle routine.

Il venerdì era il giorno del libro della scuola, che veniva letto insieme ai genitori durante il week end e riportato a scuola il lunedì. Adesso il venerdì è il giorno in cui si legge una storia e la cosa emozionante è che sta diventando un’attività che coinvolge tutti perché spesso all’ascolto si uniscono fratelli e sorelle più grandi, i genitori.

A scuola la mattina facevamo il calendario, che era visivo, appeso al muro con i giorni della settimana in colori diversi. Adesso facciamo l’appello e abbiamo cercato un modo per fare lo stesso il calendario: un bambino a turno fa l’assistente. Domani che giorno sarà, che giorno era ieri? Che tempo fa oggi?

Nei Meet siamo sempre in due, una condivide schermo con bambini, l’altra mostra l’attività da fare gioco e quindi l’interfaccia. Grazie a Meet abbiamo la possibilità di vederci tutti: è stata un’emozione ed è un modo per fare gruppo.

Naturalmente molto dipende dai genitori, soprattutto quando i figli sono piccoli. Alcune colleghe si sono inventate altre modi per creare un contatto con i bambini e i genitori, soprattutto quando una famiglia si mostra più in difficoltà o se ci sono barriere linguistiche. In questi casi può funzionare una didattica a distanza più personalizzata, oppure dedicare ogni giorno a un bambino. Ma non dobbiamo credere che siano solo i bambini di famiglie disagiate quelli più difficili da raggiungere. Alcuni genitori non desiderano essere coinvolti, ritengono che sia superfluo o inutili: per tanti motivi semplicemente non sono disponibili.

Sul Meet la nostra regola è che il microfono di gruppo è rigorosamente spento, viceversa nella modalità di collegamento in piccoli gruppi il microfono è acceso. Nella parte finale del Meet di gruppo ogni bambino prende la parola e risponde al suo nome: all’inizio era il genitore a intervenire e accendere il microfono. Ora sono loro a farlo. Sembra banale, eppure è un esercizio di coordinazione occhio-mano fondamentale. Hanno imparato a usare il mouse, le cuffie e il microfono. È meraviglioso vedere i loro progressi.

Dopo tutto non è che questo che deve insegnare la scuola dell’infanzia? Imparo a vestirmi da solo, allacciarmi le scarpe, imparo i piccoli gesti che fanno la mia indipendenza: la scuola dell’infanzia è la scuola dell’autonomia.

Le nuove tecnologie anche alla scuola dell’infanzia sono uno stimolo per farsi domande. Che cosa può essere d’ispirazione per i piccoli? Sarebbe bello che da questa esperienza nascesse una continuità, perché questo può rivelarsi una crisi: un acceleratore del cambiamento. L’auspicio è che questi strumenti possano trovare un’integrazione con la didattica in presenza e, una volta tornati alle nostre vecchie aule, rendere l’apprendimento ancora più ricco”
Miriam Migliori e Rosa Anna Avitabile, docenti di scuola dell’infanzia

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La parola a…

Enrico Battisti, dirigente scolastico

“Noi siamo stati fra le prime scuole ad attivarci con la didattica online. Avevamo già la piattaforma Google Suite attiva per tutti gli alunni e per i docenti, ma prima dell’emergenza non veniva utilizzata con tutte le sue potenzialità. Nel giro di dieci giorni la piattaforma è stata estesa a tutti gli ordini di scuola del primo ciclo di istruzione presenti nel nostro istituto.
Devo dire che la nostra tempestività nell’attivazione della didattica online è stata resa possibile anche grazie all’intervento di un papà, Gabriele Santomaggio, Senior Software Developer in SUSE, che si è immediatamente offerto per dare una mano e ha messo a disposizione gratuitamente le sue competenze collaborando con la nostra animatrice digitale, Rossella Pagano.

La piattaforma Classroom è stata resa disponibile a tutte le classi. L’obiettivo? Veicolare contenuti didattici e non solo. Il tentativo è stato fatto per sfruttare le tecnologie in modo da andare a colmare un vuoto che oggi si evidenzia soprattutto a livello emotivo e, soprattutto per quanto riguarda i bambini più piccoli, sostenere un punto di vista empatico e relazionale.
So di aver chiesto molto alle docenti e ai docenti, ma la risposta non si è fatta attendere ed è stata ricca di entusiasmo e coinvolgente, anche da parte degli insegnanti che in tempi rapidi hanno deciso di imparare una piattaforma che non avevano mai utilizzato prima. Abbiamo ritenuto fondamentale, in un momento di emergenza come questo, lavorare anche solo per far sentire la nostra voce: stabilire un contatto umano, che per gli studenti costituisce un ponte di collegamento con quella che fino a qualche settimana fa rappresentava la normale routine quotidiana. La risposta dei docenti è stata straordinaria: hanno fatto fronte comune, sono stati capaci di recepire e affrontare i bisogni del momento. Devo dire che è stato straordinario aver riempito un vuoto giornaliero grazie a videoconferenze capaci di puntare anche al piano emotivo.

Per quanto riguarda la prima e la seconda elementare abbiamo calendarizzato appuntamenti grazie all’aiuto genitori. Crescendo, i ragazzi hanno più autonomia. In terza e quarta all’aspetto relazionale si aggiunge la necessità di un’attenzione mirata verso la didattica: lo strumento delle videoconferenze e classroom sta cercando di colmare anche il vuoto informativo. Le classi della secondaria di I grado al momento hanno una sorta di diario settimanale. Le giornate sono costruite con spiegazioni, compiti, interrogazioni, nel tentativo, che sappiamo non facile, di creare un’ordinarietà anche nella didattica a distanza e dare ai ragazzi la possibilità di una routine, pur in un periodo di emergenza come quello che stiamo vivendo.

Certamente l’impegno richiesto alle famiglie è notevole e di questo dobbiamo ringraziare i genitori, che nella nostra scuola hanno dimostrato una grande apertura nell’affrontare la necessità dell’oggi, imparare strumenti nuovi a livello tecnologico e costruire un ponte di dialogo fra scuola e figli. Un ringraziamento particolare va all’impegno dell’associazione genitori Ceretolo che, supportando la scuola con co-finanziamenti ingenti, sta permettendo alle famiglie più in difficoltà di superare il gap di “digital divide”, ma anche al DSGA, al personale ATA e tutti i collaboratori scolastici che, in prima linea, tengono aperta la scuola per consegnare i nostri computer in comodato d’uso agli alunni che ne hanno bisogno. Insomma un vero esempio di comunità educante.

Da un punto di vista emotivo mi sta piacendo molto il fatto che le famiglie sentono vicinanza con la scuola, perché la scuola deve coprire il vuoto quotidiano, è chiamata a farlo. E poi ci sono le sorprese inaspettate, come ragazzi che in dinamiche scolastiche di “normalità” erano poco partecipi e attivi e che invece con la didattica a distanza si sono dimostrati esattamente il contrario”.

In questo periodo all’Istituto Comprensivo Ceretolo di Casalecchio di Reno, Bologna, sta per partire un altro progetto: Adotta un nonno… al telefono, sostenuto (oserei dire, ispirato) dall’entusiasmo di alcuni genitori e coordinato da Rita Rossi, docente.

“Credo che il ruolo che possono svolgere le tecnologie sia di coprire le distanze, raggiungere le persone più sole, come gli anziani, e aiutarle a sentirsi meno sole. Due generazioni, i giovanissimi che vivono la noia della quotidianità e gli anziani che vivono la noia dell’abbandono e della solitudine, attraverso un contatto possono diventare più vicini e affrontare il vuoto di queste giornate. Dietro al progetto “Adotta un nonno” c’è l’idea che i ragazzi possano usare la tecnologia per sentirsi utili e non soltanto in modo passivo. Passata l’euforia iniziale, infatti, anche la didattica onine diventa in breve ordinaria, di routine. In poco tempo, insieme alla stanchezza per una novità che è già abitudine, subentra il rischio di subire passivamente tecnologia. Al contrario, il messaggio che come scuola desideriamo dare ai ragazzi è: siete anche voi partecipi di questo momento storico. Potete essere fautori di un cambiamento e intervenire nel cambiamento di una persona, voi stessi e gli gli altri”.

Il 25 marzo 2020 il dirigente scolastico ha diffuso sul sito dell’Istituto Comprensivo Ceretolo una circolare che è diventata tam tam fra scuola e famiglia. Torneremo ad abbracciarci.

Ho pensato, allora, di raccogliere nella pagina collegata a questo link quanto di bello stiamo ancora riuscendo a produrre in questo pur difficile momento.
Una sorta di “diario” work in progress in cui inserire disegni, pensieri, messaggi vocali e, perchè no?, messaggi video per chi vorrà… semplicemente come ricordo di questo periodo che ci obbliga a vederci solo in video e a non poter vivere le nostre giornate con i nostri amici, i nostri alunni, i nostri affetti.

Credo di esprimere il pensiero di molti se dico che spero che questo periodo passi quanto prima, ma mi sento anche di dire che tutto passa e anche questo momento sarà solo un ricordo da dimenticare e noi torneremo ad abbracciarci… e sarà bellissimo.
IL DIRIGENTE SCOLASTICO
Prof. Enrico Battisti

Tecnologia e didattica a distanza

Questa primavera in quarantena è stata anche questo, a quanto pare: (ri)scoperta della tecnologia e di un suo utilizzo differente, forse persino più consapevole anche sui social. Nascono nuovi modi per ritrovarsi, dalle lezioni di yoga e meditazione agli aperitivi online per condividere l’happy hour con gli amici anche a distanza. Una delle piattaforme più utilizzate è Zoom, anche se proprio in questi giorni anche Facebook lancia la possibilità di creare stanze virtuali dove incontrarsi, vedersi, chiacchierare. Uniti attraverso la distanza.

E poi ovviamente c’è la scuola. Per fortuna o sbuffando, sono stati loro, docenti, studenti e genitori alle prese con un anno scolastico drasticamente interrotto a dover cavalcare l’onda del cambiamento, con coraggio e non senza qualche difficoltà. Una delle piattaforme più utilizzare nel settore scolastico è Gsuite, servizio offerto da Google che sostalzialmente si suddivide in due strumenti: Classrom, utile per assegnare e correggere compiti, e Meet, con cui lanciare alla classe o ai singoli elementi un collegamento in modo da agire in videoconferenza tramite una video-call. Con Classroom è possibile visualizzare i compiti da fare a casa, caricare gli esercizi fatti e completare con correzioni e commenti.

“Il Servizio Marconi è l’unità operativa regionale che per l’Ufficio Scolastico Regionale segue le azioni del Piano Nazionale Scuola Digitale e coordina le attività di formazione dei docenti in tema di innovazione digitale nella didattica. In questi anni ha dato supporto non solo a noi Animatori Digitali sulla Gsuite, ma anche alle scuole dandoci così la possibilità “oggi” di poter affrontare questo periodo di emergenza.

Con il Dm dicembre – 2014 – n. 912 il Servizio Marconi è elemento costituente l’Ufficio III dell’Ufficio Scolastico Regionale per l’Emilia-Romagna, e si occupa di tecnologie per la didattica. “Il Servizio si occupa del supporto all’Ufficio ed alle Istituzione Scolastiche della regione sulle problematiche connesse alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, con particolare riguardo al tema dell’indispensabile innovazione della didattica e delle modalità d’azione quando le tecnologie entrano in classe o più in generale nel lavoro quotidiano”.

In primo luogo, la didattica a distanza rappresenta, in questo contesto di emergenza sanitaria in ci troviamo, l’unica possibilità di dare continuità all’apprendimento e salvare il percorso formativo ed educativo fino ad ora intrapreso con gli alunni. In questo periodo di sperimentazione forzata, ho compreso che, la didattica a distanza, rappresenta un arricchimento professionale, ma al contempo un’esperienza complessa che, per certi versi, risulta più impegnativa delle lezioni in presenza.

La lezione on-line con gli studenti, infatti, richiedono un impegno maggiore anche in considerazione del fatto che, per mantenere alto l’interesse e l’attenzione all’attività didattica, occorre grande creatività e l’acquisizione di materiale, didattico, anche in rete, da reperire preventivamente.

I docenti, inoltre, in questa fase hanno anche hanno anche il compito di responsabilizzare i propri alunni e talvolta di calmare le loro angosce, che, dopo un così lungo periodo, inevitabilmente si fanno sentire.

Un’ulteriore problematica riguarda anche le modalità di organizzazione delle lezioni, dovendo, in primis, garantire a tutte le famiglie, la dotazione di un pc, non solo alle famiglie che ne erano sprovviste, ma altresì a quelle il cui dispositivo era già utilizzato da altri figli o per lo svolgimento dell’attività in smart-working da parte dei genitori. A tal proposito, l’Istituto è intervenuto prontamente, mettendo prontamente a disposizione dei richiedenti il dispositivo necessario a garantire la possibilità di seguire le lezioni.

In conclusione la didattica distanza adesso è l’unico valido strumento che per fortuna abbiamo a disposizione per mantenere il rapporto con gli alunni e mandare avanti il lavoro di istruzione e formazione. Ovviamente non si tratta di superare l’istituzione scuola, che è e rimane essenziale nell’organizzazione della vita sociale, ma questa esperienza insegna che si può contribuire allo sviluppo della cultura anche al di fuori di essa, basta farne buon uso, nella piena consapevolezza che nessun sistema può sostituire il rapporto umano e diretto con gli studenti”
Rossella Pagano, docente e Animatore digitale Ic Ceretolo

La parola a… un papà

Gabriele Santomaggio, Senior Software Developer in SUSE
“Sono un volontario da un paio di anni. Grazie all’azienda in cui lavoro, SUSE, compagnia che progetta sotware, ogni mese ho la possibilità di svolgere alcune ore di volontariato, pagato. Organizzo corsi di informatica e tecnologia diretti ai bambini e docenti; uno tenuto di recente ha avuto come argomento il dark web. Quello che penso è che certe cose non sia sufficiente proibirle: bisogna conoscerle. Mettere la testa sotto la sabbia e fingere che non esistano non ci proteggerà dai pericoli. Appena è iniziata la chiusura della scuola ho scritto al preside per rendermi disponibile e dare il mio aiuto. Quello che ho fatto è stato aiutare a configurare le piattaforme in modo da rendere accessibile a docenti e genitori la possibilità di lezioni in video e di utilizzo di classroom, servizio per il quale è necessario un accesso dedicato a ogni studente.

Innanzitutto abbiamo importato tutti gli studenti. Tramite l’importazione massiva in un giorno siamo riusciti a inserire tutto il database e far avere a tutti gli alunni mail dedicata e password. Al momento in rete sono disponibili diversi strumenti per la didattica a distanza: uno dei più utilizzati è la piattaforma Google Suite, servizio sviluppato da Google che fino a luglio sarà fornito gratuitamente a causa del particolare momento di emergenza. Il primo problema da affrontare con la didattica a distanza è il set up. Questo significa creare un account scolastico per ogni alunno: il primo passo è stato, quindi, inserire i dati di ognuno abbinando una mail dedicata.

Il secondo? Scrivere una documentazione ad uso di docenti e famiglie in modo da agevolare la comprensione degli strumenti, dalle operazioni più semplici, come accedere e cambiare password, ai consigli sulle cose da sapere per l’utilizzo delle piattaforme. Terzo passo, alcuni genitori e docenti hanno scritto un po’ di manuali sull’utilizzo della piattaforma. La scuola ha creato una serie di moduli google per rispondere ai problemi tecnici delle famiglie. Il quarto passo è stato organizzare dei corsi. Sono state organizzate delle mini sessioni serali per spiegare come funziona la piattaforma e per rispondere alle domande comuni. È necessario, infatti, sviluppare delle linee guida in modo da utilizzare la piattaforma tutti allo stesso modo.

Classroom e Meet fanno parte di Google Suite, una piattaforma generica a pagamento che può essere potenzialmente applicata a qualsiasi contesto, dalla scuola ma non solo. In realtà potrebbe essere applicata anche a un’associazione culturale o tutti coloro che, al presente o in futuro, siano potenzialmente interessati a un progetto di insegnamento online. Al momento le resistenze sono ancora molte. Ci sono docenti che ancora troppo spesso per le comunicazioni quotidiane utilizzano il formato mail o addirittura WhatsApp, senza comprendere che questi strumenti in realtà fanno perdere più tempo.

Tecnologicamente è da tempo che abbiamo questi mezzi, ma ora l’emergenza ci sta costringendo a pensare ciò che fino adesso abbiamo potuto rimandare. Come ha scritto qualcuno, dall’esperienza del Covid-19 l’Italia uscirà forse devastata economicamente, ma avanzata d’un balzo tecnologico di vent’anni perché nel giro del poco tempo che abbiamo avuto a disposizione abbiamo già iniziato a sovvertire molte delle nostre abitudini e logiche finora utilizzate nel web”.

Adotta un nonno… al telefono

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La fotografia è uno scatto di Valeria Altavilla pubblicato da Witness Journal: Diana Guigli, storia di una ragazza di 104 anni

Isabella Conti, sindaca del Comune di San Lazzaro di Savena, in provincia di Bologna, ha lanciato un appello chiamando a raccolta tutti gli aspiranti volontari.
Pronto, come stai? Dalla fine di marzo 2020 oltre mille anziani del territorio bolognese vengono raggiunti al telefono e l’obiettivo non è legato solo al bisogno della spesa o le medicine, bensì… un contatto umano.
Perché (anche) le relazioni umane sono un bene di prima necessità.
O quanto meno dovrebbero essere considerate tali.

Il progetto “Pronto, come stai?” nato su iniziativa della sindaca Isabella Conti è una realtà attiva del Comune di San Lazzaro di Savena a Bologna. La risposta dei volontari non è tardata e ha dimostrato grande entusiasmo.

Che tipo di comunicazione stiamo utilizzando?

In un momento in cui molti sindaci hanno scelto, consapevolmente o (con più probabilità) inconsapevolmente una comunicazione basata sull’ansia, c’è chi usa i social e la tecnologia in maniera differente. Perché di strumenti ne abbiamo molti, dal telefono ai social, o le dirette video: l’empatia passa anche attraverso uno schermo. Passa attraverso le parole che decidiamo di dire, le azioni che usiamo per costruire il nostro quotidiano, i colori con cui riempiamo la giornata. Siamo noi il filtro.

Nessuno dovrebbe sentirsi solo, nessuno dovrebbe sentirsi abbandonato.
Nel piccolo comune di Silea, in provincia di Treviso, la sindaca Rossella Cendron ha deciso di utilizzare un megafono per speciali auguri di buon compleanno porta a porta.

Mi ero resa conto che i miei richiami nelle vie e nelle piazze erano ansiogeni, così ho spulciato all’anagrafe tirando fuori nomi e date di chi festeggiava il compleanno. È un modo leggero di stare vicino alla gente, per portare un po’ di sorriso e penso di esserci riuscita
Rossella Cendro

Prima ha destato stupore, ora quello degli auguri è diventato un momento atteso e così, in questa primavera in quarantena, il compleanno di bambini come Noemi, 8 anni, e Tommaso, 9 anni, ha avuto un’indimenticabile colonna sonora al ritmo delle loro canzoni preferite, su cui la prima cittadina si era documentata.
Gli atti di gentilezza nascono così, sono quelle piccole azioni capaci di cambiare l’umore di una giornata. A cambiare il mondo si arriva un passo per volta, ricordando che i veri guerrieri, in ogni epoca storica, sono quelli che sanno stringere i denti e guardare più in là, come alberi che non si lasciano abbattere ma continuano a fiorire anche nella tempesta.

Attraversare la distanza costruendo ponti

Manciate di chilometri più in là, il Comune di Falconara Marittima sta cercando di costruire un ponte fra due generazioni: giovani e anziani; due estremi che di solito nella vita quotidiana mostrano un legame profondo e indissolubile, nonni e nipoti, uniti da un amore senza spiegazioni e forse anche da una speciale visione data da ciò che comporta stare ai due estremi, in bilico all’inizio dell’esistenza gli uni e sulla fine gli altri.

Hai o conosci qualcuno che ha fra 17 e 25 anni? Puoi aderire al progetto “Pronto nonno” compilando online il documento, il Comune di Falconara Marittima sta cercando volontari.

In Toscana il progetto “Sei forte nonno” del Comune di Forte dei Marmi ha dato il via all’iniziativa di volontariato telefonico dedicata agli anziani organizzando un appuntamento giornaliero al telefono, compresa la voce del sindaco. Un modo per sentirsi più vicini grazie a una voce che arriva sul filo ed entra in ogni casa. Un modo per sapere eventuali necessità e difficoltà, conoscere lo stato quotidiano di chi è più solo… e scambiarsi un saluto.

E siccome abbiamo bisogno di raccontarci storie positive e le belle storie fanno sempre volare nel vento semi destinati a diffondersi e mettere radici, un altro nuovo progetto sta partendo, proprio in questi giorni. Un progetto che, questa volta, coinvolgerà anziani e studenti di scuola. La scuola è l’Istituto Comprensivo Ceretolo di Casalecchio di Reno: siamo partiti da Bologna e torniamo qui, in una provincia emiliana dove da sempre l’importanza del legame sociale è un aspetto coltivato, curato e tenuto in considerazione.

Il valore di una telefonata

Il progetto “Adotta un nonno” dell’Istituto Comprensivo Ceretolo di Casalecchio di Reno, coordinato dalla docente Rita Rossi, si sta attivando grazie alla passione di alcuni entusiasti genitori, che desiderano restare nell’anonimato, al preside e agli insegnanti, i quali stanno facendo rete con il Sindacato Pensionati al fine di portare l’iniziativa di volontariato telefonico all’interno del territorio della provincia bolognese.

Per gli insegnanti si tratta di un’occasione preziosa di apprendimento, attraverso l’intervista e il contatto diretto fra giovani e anziani, entrambi sollecitati a fare domande, raccontare la propria storia di vita. Non dimentichiamo che la parola anziano nasconde una folla molto vasta, che corrisponde a una fascia ampia, frammenti diversi del nostro Paese. Una persona di sessanta o settant’anni, anziani solo per etichetta ma che psicologicamente non consideriamo nemmeno fra gli anziani, rappresenta la prima generazione nata dopo la guerra: la generazione che ha conosciuto l’entusiasmo intrepido della ricostruzione, gli anni d’oro, la forza e chimera economica degli anni Ottanta e che questo può raccontare.

Empatia, un bene di prima necessità

Ma la vera solitudine oggi è fra gli anziani che superano (e sono sempre di più) gli ottanta e i novant’anni. Secondo i dati Istat 2019 in Italia esiste una media di 173,1 anziani ogni 100 giovani. Dal 2009 al 2019, i centenari d’Italia da 11mila sono diventati oltre 14mila; sono raddoppiate le persone che hanno raggiunto il traguardo dei 105 anni e oltre. Queste le stime prima dell’epoca Coronavirus, ora non sappiamo.
È l’ultima occasione per ascoltare le storie di chi ci può raccontare cosa significa essere vissuto in un altro secolo, aver affrontato la guerra, il lavoro minorile e condizioni di vita che oggi non possiamo nemmeno immaginare con la più sfrontata della fantasia.

Sono loro i veri anziani costretti alla solitudine: i vecchi che durante la quarantena scappano a buttare la spazzatura per guardare il cielo e sentirsi ancora vivi. Perché magari vivono soli, in tanti non hanno figli né parenti e non usano internet. In cucina a essere accesa è solo la scatola della televisione, che non fa domande e non dà risposte. E allora una voce che arriva attraverso il filo del telefono diventa viva e vera, portatrice di emozione e di significato.
Sapere che arriverà quella telefonata, a quell’ora del giorno, diventa un appuntamento, un modo per ingannare il tempo e ridere con la vita, sentirsi meno soli. Ed è questo che vedono i genitori. Non tanto, o almeno non solo, una nuova prospettiva educativa, ma semplicemente una possibilità per tornare a essere umani. Perché in un mondo dove siamo tutti sempre più soli, primi fra tutti gli adolescenti rinchiusi nelle bolle delle loro camerette anche in epoca pre-Coronavirus, accerchiati dalla vita virtuale dei videogiochi e di film lontanissimi dalla realtà, forse il vero atto di coraggio è prendere in mano un telefono e usarlo per quello che è: uno strumento con cui far sentire la propria voce.

La cosa più importante

Torneremo ad abbracciarci e lo faremo in presenza, vivi e veri, ma ricordiamoci che l’emozione dell’autenticità può arrivare ovunque, senza limiti, oltrepassare ogni distanza, valicare gli oceani. Lo hanno fatto prima di noi generazioni vissute in trincea, generazioni che dovevano attendere mesi prima di ricevere una lettera sgualcita, una fotografia in bianco e nero sufficiente a creare un legame con ciò che ci si era lasciati alle spalle.
Accade ancora. In tante parti di mondo, solo che adesso non ci facciamo caso.

Qualche anno fa un quattordicenne in fuga mi raccontava che dopo aver attraversato il deserto africano, la Libia, ed essere riuscito a nascondersi sotto il motore di un camion per passare dalla Grecia all’Italia, si era accorto di aver perso qualcosa di molto importante. La cosa più importante.
Il foglietto dove era scritto il numero di telefono del suo vicino di casa.
L’aveva perso in mare, in uno di quei barconi che vediamo al telegiornale e che in molti si fermano a commentare con speculazioni critiche pseudopolitiche che non dicono nulla sulla situazione emotiva delle persone che li vivono, in fuga. Il barcone si era rovesciato e lui dopo una notte in balia delle onde si era svegliato su una spiaggia, fradicio. Illegibile anche il foglietto dove l’inchiostro del numero scritto in blu si era sciolto fra le onde d’acqua salata.
Non ci sono poste in Afghanistan, non c’è un servizio postale. E l’unico numero di telefono capace di raggiungere i suoi genitori attraverso il contatto con una casa vicina, l’unica ad avere il telefono, l’aveva perso.
Era sopravvissuto, ma non poteva dirlo a nessuno.
In un mondo straniero con una lingua sconosciuta, senza contatti: isolato, come un naufrago su un’isola irraggiungibile. Perché irraggiungibile non è tanto, o solo, una questione di lontananza e vicinanza. Irraggiungibile è tutto ciò che non possiamo raggiungere, anche se a pochi passi da dove ci troviamo.

Non cadiamo nell’errore di non fare nulla per la paura di non fare abbastanza.
La cosa più importante è che a volte bisogna semplicemente accontentarsi di ciò che possiamo fare oggi, ognuno di noi ha strumenti a sufficienza per poter incidere, a modo suo, sul mondo. Anche per oggi. E farlo utilizzando la propria resilienza, il proprio coraggio e il proprio cuore, senza cedere a inutili allarmismi, ma anzi usando le parole come frecce capaci di colpire il bersaglio e generare fiducia.

Che cosa vuol dire “addomesticare?”
“È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire creare dei legami…”
“Creare dei legami?”
“Certo”, disse la volpe. “Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo”.
“Comincio a capire” disse il piccolo principe. “C’è un fiore… credo che mi abbia addomesticato…”
“È possibile”, disse la volpe. “Capita di tutto sulla Terra…”
“Oh! non è sulla Terra”, disse il piccolo principe.
La volpe sembrò perplessa:
“Su un altro pianeta?”
“Si”.

“Ci sono dei cacciatori su questo pianeta?”
“No”.
“Questo mi interessa. E delle galline?”
“No”.
“Non c’è niente di perfetto”, sospirò la volpe. Ma la volpe ritornò alla sua idea:
“La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano…”
La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe:
“Per favore… addomesticami”, disse.
“Volentieri”, disse il piccolo principe, “ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose”.
“Non si conoscono che le cose che si addomesticano”, disse la volpe. “Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!”
“Che cosa bisogna fare?” domandò il piccolo principe.
“Bisogna essere molto pazienti”, rispose la volpe. “In principio tu ti sederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino…”

Il piccolo principe ritornò l’indomani.
“Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora”, disse la volpe.
“Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincero’ ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore… Ci vogliono i riti”.
“Che cos’è un rito?” disse il piccolo principe.
“Anche questa è una cosa da tempo dimenticata”, disse la volpe. “È quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore. C’è un rito, per esempio, presso i miei cacciatori. Il giovedi ballano con le ragazze del villaggio. Allora il giovedi è un giorno meraviglioso! Io mi spingo sino alla vigna. Se i cacciatori ballassero in un giorno qualsiasi, i giorni si assomiglierebbero tutti, e non avrei mai vacanza”.
Così il piccolo principe addomesticò la volpe.

E quando l’ora della partenza fu vicina:
“Ah!” disse la volpe, “… piangerò”.
“La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…”
“È vero”, disse la volpe.
“Ma piangerai!” disse il piccolo principe.
“È certo”, disse la volpe.
“Ma allora che ci guadagni?”
“Ci guadagno”, disse la volpe, “il colore del grano”

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L come Libertà

alfabeto-dei-sentimenti-libro

 

di Daniela Lamponi

È da ieri che prendo, poso, riprendo in mano questo piccolo libro: “L’alfabeto dei sentimenti”. Un Abecedario dei sentimenti fatto di poesia, quella di Janna Cairoli, e di illustrazioni, quelle di Sonia MariaLuce Possentini, edito da Fatatrac.

Ognuno ha le sue manie quando ha in mano un libro.
La mia è di andarne a guardare le dediche. Aprendo questo scrigno ho trovato:
‘A Rosa, l’immagine della gioia.’ J.C.
‘Alle persone conosciute durante il terremoto in Emilia, la mia terra, che mi hanno insegnato il coraggio di un nuovo alfabeto.’ S.M.L.P.

E poi, continuando a muovere le dita tra le pagine-tesoro, lettere che diventano parole e immagini preziose nel mentre che si passano il testimone…
A more, B atticuore, C uriosità, D olore, E goismo, F retta, G elosia, l’importanza della H, I dentità, L ibertà, M emoria, N ostalgia, O dio, P aura, Q uiete, R abbia, S olitudine, T ristezza, U guaglianza, V igliaccheria, Z itto. Beh, sarebbero tutte da condividere ma scelgo quella che più mi risuona in questo momento:

L ibertà
Foglia dopo foglia
maglia dopo maglia
mi spoglio.
Un brivido mi toglie
il fiato
l’acqua mi accoglie
e nuoto
Come non ho mai nuotato.
Libero mi sento
e urlo nel vento

*Ci sono due formati, per mani piccole e per mani grandi, e nella versione carte in tavola. Cercatelo nelle librerie, che riapriranno piano piano, e, chissà quando, nelle biblioteche.

paura-alfabeto-dei-sentimenti

Quello che potremmo fare

“E se i bambini perdono l’anno scolastico…”
E se invece di imparare la matematica e la geografia imparassero a cucinare?
A cucire? A pulire?
A prendersi cura di una pianta?
Se imparassero ad accarezzare più spesso i loro animali domestici e a fare il bagno da soli dall’inizio alla fine?
Se sviluppassero l’immaginazione e dipingessero un quadro?
Se noi genitori insegnassimo loro ad essere persone che si adattano, che i sacrifici esistono?
Se imparassero a stare insieme alla loro famiglia in un modo nuovo, diverso …
Se imparassero queste cose, se noi genitori gli insegnassimo ad apprezzare il poco, l’attesa, la pazienza, ecco forse non ci sarebbe un anno perso ma la conquista di un grande futuro
Eleonora Soligo

Quello che potremmo fare…

è imparare una cosa che non ho mai fatto e
insegnarla ai miei figli.
Colorare distesi sul pavimento.
Usare internet per trovare come cucire un vestito,
ascoltare una favola in streaming
iniziare a fare domande intelligenti a Google
impastare tutti insieme il pane fatto in casa
farci le coccole sul divano
spulciare le vecchie riviste e poi
tagliare le figure per farci un collage.
Guardare le vecchie foto delle vacanze,
scrivere un album con i ricordi di famiglia.
Dipingere un muro dopo averlo disegnato,
piantare semi in tanti vasetti sul davanzale
preparare una crostata per merenda.
Leggere a voce alta un libro,
cercare quotidiani di altre lingue e Paesi,
studiare la geografia andando a cercare vecchie fotografie.
Telefonare a quelli lontani,
fare un puzzle di famiglia,
scoprire che so ancora disegnare
o
posso imparare.
Trasformare il tempo in un’avventura nuova…

Cos’è quello che potremmo fare, in quarantena e nel tempo normale, quando torneremo alla solita routine?
Per non dimenticare ispirazione, consapevolezza, idee.
Per non dimenticare che più dei viaggi quello che ci serve è l’immaginazione per viaggiare e diventare espploratori di questa vita in perenne movimento.
Per non dimenticare che l’educazione non è una cosa che si fa tra i banchi di scuola.
Educare è ovunque e in ogni attimo, un modo di vivere il tempo e la famiglia.
Perché si cresce anche quando non pensiamo di farlo, ci si evolve nelle condizioni migliori così come nelle peggiori, anzi spesso sono gli ostacoli ciò che trasformano il viaggio in un’esperienza unica.
Dipende da noi l’uso che vogliamo fare del nostro tempo.

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Per l’inesauribile creatività dimostrata durante la primavera in quarantena si ringrazia Daniela Falduto, igienista dentale a Busto Arsizio e mamma decisamente ricca di fantasia

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Più il tempo davanti a me si accorcia, più quello che sento di dover fare aumenta. Per i miei 80 anni mi sono regalato un futuro: ho fatto un elenco di cose da fare, sto recuperando, leggendo libri su libri. Come se l’ultimo giorno della mia vita fosse il mio esame di maturità: devo arrivarci preparato, devo aver fatto ancora tanti film…

Io vengo da una cultura contadina, dove la morte ha un diritto di cittadinanza che oggi le viene negato, mia zia faceva la vestitrice di morti, il nonno si sceglieva il posto al cimitero davanti al sole…

Io ho paura! Paura che faccia anche male fisico. E poi non so pensarla. Ma frequento i morti: quello che leggo, che ascolto sono opere di chi non c’è più. Come se dovessi andare preparato alla maturità.
Pupi Avati

Dall’intervista di Marina Cappa a Pupi Avati per Vanity Fair, 27 febbraio 2019

Il post è in evoluzione.
Se hai idee su cose che potremmo fare, da soli o in compagnia, aggiungi il tuo pensiero…

Da famiglia ad assembramento

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Di Antonella Malaguti

13 marzo 2020
Lui è seduto con tre bambini su una panchina, a circa 10 metri dal primo gioco utile del parco giochi all’aperto.
Una volante della municipale si avvicina lenta e parcheggia. Scendono in due, attraversano con noncuranza 5 o 6 adulti sulle panchine e sotto gli alberi, scavalcano i tre bambini che in quel momento cavalcano altalene e scivoli e vanno dritti verso di lui.
Forse perché lui e quei tre bambini sono gli unici senza mascherina? Non ci è dato sapere.
“Sono tutti suoi?” Chiede il primo agente allargando il braccio in modo plateale, come se volesse includere tutti i bimbi del Parco della Resistenza.
“No, i miei sono questi tre vicino a me.”
“Sa che questo comportamento adesso non è opportuno?”
“Quale comportamento?”
“Quello di stare qui al parco, con 3 bambini”
“Ma sono i miei figli. Siamo qui tranquilli, a 10 metri dai giochi.”
“Eh, ma queste cose si sa come vanno…”
“…?”
“Arriva un altro bambino, poi un altro, in poco tempo da 3 bimbi diventano 9…”
“Ma non ci sono nemmeno all’orizzonte qui, 9 bimbi…”
“E’ difficile, ma dovete capire che la situazione è cambiata. Non si può più venire al parco.”
“Ma quando è cambiata, la situazione?”
“Stanotte.”
“A che ora?”
Il poliziotto ha un attimo di tentennamento poi continua a parlare di assembramenti, statistiche, normative.
In quel momento arrivi tu, che stavi facendo il tuo consueto giro del parco e cerchi di giustificare un’evidenza:
“Ecco, vede, il fatto è che noi siamo una famiglia numerosa… In un certo senso… siamo già un assembramento…”
Prende la parola il secondo agente, prima di tornare verso la volante.
“Per l’appunto, signora. Anche a casa, cercate di stare distanti, che male non fa”.

Salva

Il virus che ci rende sovrani

antonella-malaguti

Di Antonella Malaguti

Ciò che verrà, ciò che anche la prossima ora, il prossimo giorno mi potranno portare
incontro, sebbene mi sia del tutto sconosciuto,
non lo posso cambiare mediante alcuna paura o timore.
Io l’attendo con il più profondo silenzio dell’anima,
con la più assoluta calma del mare del sentire.
Colui che può andare incontro al futuro con tale calma,
e tuttavia non lasciar venir meno in alcun modo la sua energia,
la sua forza d’azione, in costui le forze dell’anima possono
svilupparsi nel modo più intenso e nella forma più libera.
È come se davanti all’anima cadessero al contempo impedimenti su impedimenti,
quando essa viene compenetrata sempre più
da quell’atmosfera di dedizione di fronte agli eventi che fluiscono dal futuro.
La nostra evoluzione viene ostacolata dalla paura e dal timore perché noi,
attraverso le onde della paura e del timore,
respingiamo quello che il futuro vuole far entrare nella nostra anima.
La dedizione a ciò che viene chiamata “saggezza divina” presente negli eventi,
la sicurezza che ciò che verrà deve essere e che, in qualche direzione,
darà frutti fecondi,
l’evocazione di tale atmosfera nelle parole, nei sentimenti e nelle idee:
questo è lo stato d’animo della preghiera di devozione.
Nella nostra epoca è veramente necessario
imparare a saper vivere con vera fiducia senza alcuna preventiva rassicurazione esistenziale,
con la fiducia nell’aiuto sempre presente del mondo spirituale.
In verità, affinché oggi il coraggio non venga meno,
non resta che “divenire sovrani” nella nostra volontà con la giusta disciplina
e cercare il risveglio interiore ogni mattina e ogni sera.
Rudolf Steiner,
dalla conferenza “L’intima natura della preghiera”
Berlino, 17 Febbraio 1910

Siamo nel pieno della terza settimana di chiusura delle scuole. La novità iniziale, quasi festosa e densa di quell’emozione che porta con sé tutto ciò che è inedito, mai sperimentato, si sta mutando in allarme.
Il forzato riposo che era sollievo e alibi dalle urgenze del fare si sta trasformando in ansia sottile.
Da bambina, a casa della nonna, mi divertivo a girare su me stessa, prima piano, poi sempre più veloce. Il parquet della sala da pranzo scricchiolava sotto i miei piedi e i confini di tutto ciò che mi circondava si confondevano in una fascia indistinta di forme e colori. Ruotavo fino a cadere a terra, sul pavimento che continuava a girare.
Ora è arrivato il momento in cui vorrei smettere di ruotare, uscire dal vortice dello spaesamento. Da qui in poi non mi diverto più, sento pulsare un senso di nausea.
Siamo chiamati a divenire dervisci?

nevio-vitali-danza-sufi

La prima volta che ho visto danzare i dervisci avevo circa vent’anni. I loro cappelli leggermente inclinati parevano l’asse del pianeta Terra. È stato come osservare la rotazione di corpi celesti. Il moto concentrico di tanti piccoli mondi.
Poi quest’anno, al palazzo del Cinema di Venezia, ho visto danzare Nevio Vitali. Durante il concerto di musica curda è entrato timidamente sul palco: la testa piena di ricci e una buffa gonna rossa. A un certo punto, ha raccolto le mani al petto e ha iniziato a girare.
Non si fermava più.
Tutti i mille astanti in sala si sono irrigiditi. Pareva che si gridasse all’unisono: “Fermati, che se no cadi!”. Io ho trattenuto il fiato, non potevo credere che non si sentisse male. Provavo pena per lui.
E invece Nevio continuava a ruotare.
Mentre lo osservavo in quella folle rotazione qualcosa in me ha ceduto. Le corde di contenimento dei carichi ormeggiati nella stiva del cuore si sono come spezzate. Ho lasciato cadere tutto in mare. Un disastro, e una liberazione.
Ho ripreso a respirare normalmente, i muscoli si sono rilassati. Ovviamente, ho pianto.
Ma questo non significa che ora io sia in grado di continuare a girare.

alla-finestra

The Economist paragona la situazione attuale a una “guerra mondiale”1. Non credevo che la guerra potesse essere così silenziosa.
In queste sere, con i bambini, stiamo leggendo La storia infinita. Ho visto il film alle elementari, mio figlio si chiama come il protagonista. Quello che legge il libro intendo, non il fanciullo Pelleverde che L’Infanta Imperatrice incarica di salvare Fantàsia. Perché i veri eroi sono quelli che vivono la vita di tutti i giorni (e poi non ci avrebbe mai perdonato, se lo avessimo chiamato Atreiu).

Il Nulla che avanza e che non si può guardare, contro cui combatte il protagonista, è come il vuoto che crea attorno a sé il Coronavirus. Non fa male, ma fa sparire dei pezzi di te.
È un buco nel petto, la perdita del tuo ruolo nel mondo. Quando il Nulla si prende la scuola, il lavoro, la mostra che volevi visitare, il corso di danza, la lezione di musica, la biblioteca. Quando tutto questo cade nel buco del vuoto, cosa resta di te?

pensieri sulla quarantena

pensieri sulla quarantena ancora

Umberto Galimberti spiega bene la distinzione fra paura e angoscia. La paura si riferisce a un oggetto chiaramente identificato (la paura di cadere da un albero, la paura di essere bocciato a un esame, la paura di essere rifiutato in amore).
L’angoscia, invece, coinvolge qualcosa di indistinto, di nebuloso. La minaccia che determina angoscia non ha certa provenienza. Come il Coronavirus. “Chiunque può portarlo”, ci mette in guardia il noto filosofo.
Ti devi guardare le spalle.
Le biblioteche sono chiuse e a casa imperversano i bambini. Così, sto lavorando dall’area ristoro di un centro commerciale. Il mio tavolino preferito è verde e abbastanza isolato per sentirmi tranquilla. Mac, auricolari, cioccolata calda e per qualche ora tutti i pezzi sembrano tornare al posto giusto.

Nel pomeriggio, mentre tornavo a casa a piedi dall’”ufficio”, ho virato istintivamente sotto uno stretto portico per evitare una ragazza che portava la spesa e quando sono stata sorpresa da una vecchia che mi veniva incontro a pochi metri ho avuto la tentazione di dribblare anche lei. Mi sono trattenuta per dignità.
Non si dovrebbe dire “paura del buio”, ma “angoscia del buio”.
E dell’angoscia, a volte, ci si può vergognare.

Forse Dora potrà riprendere le lezioni di coro delle voci bianche all’aperto, ai Giardini Pubblici. Ogni bambino porterà da casa un peluche. La maestra li posizionerà sulla ghiaia, a un metro e mezzo di distanza uno dall’altro, in modo che i bambini sappiano qual è il posto che devono tenere per essere lontani fra loro quanto basta per svolgere la lezione in sicurezza.
Così i bambini saranno alla giusta distanza gli uni dagli altri.
Ho passato la vita a tenere le persone “alla giusta distanza” da me. Tenere a distanza è qualcosa che riguarda gli adulti. Sono i grandi che costruiscono muri invisibili, che fanno attenzione a non immischiarsi, a non compromettersi, a non esporsi.
I bambini si abbracciano, si aggrovigliano.
Ho scritto io al direttore del conservatorio per proporre questa modalità alternativa di lezione. Ora spero che la richiesta non venga accolta.

stare-soli-quarantena

L’ultimo Decreto Ministeriale prescrive un metro di distanza gli uni dagli altri, Il Sole24Ore ne consiglia due. Lontani a un intervallo dello stesso ritmo, come i tasti di un pianoforte, i quadranti di una scacchiera, le righe del pentagramma.
Siamo nenia che diventa visibile. Vicini, ma non troppo, senza toccarsi.
Abbiamo imparato anche a stare in fila ordinata alle casse del supermercato come gli svedesi e i tedeschi. Solo la paura poteva insegnare a noi italiani il rispetto del proprio turno.
Lontani a un intervallo dello stesso ritmo, come i grani di un rosario.
Mi chiedo a chi appartengano le mani che ci fanno scorrere, lentamente, fra le dita.

giocare-in-quarantena

I centri commerciali non chiudono mai. Dalla scorsa settimana è ufficiale l’obbligo di fare lezioni on-line, anche per le scuole primarie, ma la spesa on-line non è richiesta. Pare che le corsie dei supermercati godano di una misteriosa e miracolosa immunità.
Abbiamo la dispensa piena di prodotti che compriamo a colli con il gruppo d’acquisto. Forse per questo non abbiamo sentito l’urgenza di precipitarci a saccheggiare i centri commerciali.
Un paio di giorni dopo la chiusura delle scuole sono andata a comprare alcuni ingredienti per fare le piadine. Sugli scaffali dei supermercati era rimasta solo la farina integrale. Per fortuna era quella che mi serviva.
I consumatori di farina 00, evidentemente, sono avidi consumatori anche di televisione.

Modena in quarantena
Modena in quarantena

Oggi abbiamo saputo che anche le lezioni di danza di Alma sono sospese. Questi ultimi brandelli finora irriducibili del ritmo settimanale si dissolvono. Qualcosa era già cambiato: dovevo salutarla sulla soglia della palestra, perché era permesso l’ingresso solo agli atleti. Scendevo a lavorare tre ore in gelateria invece che fermarmi attorno ai grandi tavoli rotondi della sala d’aspetto. Ho scoperto che anche lì fanno una buona cioccolata. Il Coronavirus mi farà alzare la glicemia.

Alma era contenta che io non potessi guardarla. Voleva farmi una sorpresa al concorso. Non sopporta lo spoiler delle coreografie. E si imbarazza quando la osservo. Dice che fisso solo lei. È vero. Quando la guardo ballare tutto il resto scompare. Lei lo sente anche oltre le vetrate a specchio. Lo sguardo delle madri ha un peso fisico.
Penso allo sguardo di mia madre, a tutte le volte che l’ho avvertito posarsi su di me come un macigno. Mentre per lei, magari, era una carezza.

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“Durante l’epidemia non sai cosa fare? Pianta un fiore”.
Mi piacerebbe passare questo messaggio all’ufficio affissioni del comune e incollarlo in formato 70×100 in giro per la città.
Le strade e i parchi dopo settimane di Guerrilla Gardening selvaggio sarebbero irriconoscibili.
Si dovrebbe anche trovare un posto d’onore per un parco in memoria del Covid-19. Dovremmo piantare alberi. Sceglierei un bosco di carrubi, perché tutti i baccelli all’interno dello stesso involucro hanno identico peso. Una delle inspiegabili magie della natura.
Quel bosco rimarrebbe lì a ricordarci che le fragilità di tutti gli esseri umani sono uguali.
PS Questa storia dei carrubi l’ho letta nel libro di Concita De Gregorio “Così è la vita“.

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42 in quarantena

Da stanotte la nostra città è zona rossa. Quel colore che distingue la sua identità storico-politica vira di significato. Dalla falce e martello al Coronavirus.
Non si può più uscire dalla provincia, se non per motivi ??? di lavoro.
Il bar sotto casa era fitto di gente.
Togliete tutto agli italiani, pure il campionato, ma non il caffè.

Nel 2020, nel cielo del Capricorno si ripresentano, in fila indiana, Plutone, Saturno e, dallo scorso febbraio, Marte. Il nostro amico Rino Curti mi ha spiegato che è una quadratura eccezionale, che non si vedeva da mille anni, dai tempi di San Francesco.

Domenica mattina sono uscita presto e tra gli alberi sotto casa ho sentito un picchio. Non sono riuscita a vederlo, ma la scarica di colpi del suo becco sul tronco faceva eco in tutto il giardino. Sono trent’anni che abito qui e non avevo mai sentito un picchio. Forse è arrivato da poco, incoraggiato dalla insolita calma cittadina, più probabilmente abita qui, ma non me ne ero mai accorta.
Questa condizione surreale apre la consapevolezza a vari livelli.

“Mi piacerebbe addormentarmi e svegliarmi a giugno”. Un letargo, questo ci servirebbe.

Oggi con Valentina, cha un figlio in più e dieci anni meno di me, abbiamo fatto un elenco di quello che potremmo fare.

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“Il virus che ci rende sovrani” è stato scritto da Antonella Malaguti.
Sovrani di cosa? Di noi stessi, delle nostre paure, del tempo.

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