I racconti della zona rossa

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Di Antonio Disi

 

 

“Papà corri, c’è un mostro!” urlavo dalla mia stanza, piangendo.

E lui arrivava di corsa, come sempre, pronto a rassicurarmi.

“Dov’è?” mi chiedeva con un sorriso consolante.

“Nell’armadio, dietro agli sportelli e mi sta guardando!”, gli rispondevo terrorizzato.

Allora restava tutta la notte ad accarezzarmi i capelli e mi prometteva che sarebbe stato li a fare la guardia, così il mostro non sarebbe più tornato.

Ora il mostro è dentro di lui e quasi non apre più gli occhi. Lo osservo da dietro al vetro della sala di rianimazione. Non posso entrare. Ho il corpo e la testa avvolti da una tuta bianca. Il mio respiro è affannato per la maschera che mi copre il naso e la bocca, il suo per la polmonite che gli stringe il petto fino a farlo esplodere.

“Sta resistendo”, hanno detto i colleghi, “nonostante l’età, sembra che il suo cuore non voglia fermarsi”.

Il cuore, il cuore. Mi sembra di sentirlo battere da quaggiù il suo cuore.

“Penso di essere innamorato”, gli confessai in un giorno di primavera .

Si sedette per ascoltarmi e parlare con me dei cuori innamorati.

“Non mi ama più, papà, so che non mi ama”, gli dissi piangendo qualche tempo dopo.

E anche quella volta e tante volte in seguito si sedette per ascoltare e parlare con me di cuori spezzati.

Ora io sono seduto qui fuori, accanto a lui. Vorrei stringergli la mano, come tante altre volte ha tenuto la mia. Ma la sua mano è lontana, troppo lontana e da quaggiù sembra quasi senza vita.

Cerco di capire cosa gli passi per la mente in questo momento. Spero che non abbia tanta paura e che sappia di non essere solo.

Stai tranquillo pà. Il mostro non tornerà mai più.

 

 

Antonio Disi è ricercatore e divulgatore scientifico. Scrive storie, soprattutto sui temi dell’ambiente e dell’energia.
Il progetto I racconti della zona rossa nasce per provare a raccontare l’umanità nel difficile tempo del Coronavirus e confrontarsi con l’impatto sociale dato dalla grande tragedia del Covid-19.

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Penso che ci sia tanto bisogno del racconto e di creare luoghi protetti dove il lettore possa provare senza pericolo sentimenti importanti coma la paura, la gioia, l’amore…
Quando ero piccolo ho sempre pensato che Cappuccetto Rosso non fosse una storia vera ma mi piaceva sentirla raccontare perchè riuscivo ad aver paura ma non c’era pericolo.
Ho sempre scritto con questo pensiero
Antonio Disi

Ho sempre scritto perchè mi piaceva raccontarmi le storie.
Ero affascinato dalla capacità del mio cervello di mettere in collegamento cose più disparate,
creare metafore, inventare storie talmente verosimili da ingannare anche me stesso.
Poi ho cominciato ad usare quelle storie a scuola, nella vita e per lavoro
Antonio Disi

La tradizione inuit di camminare le emozioni

Per prepararci al viaggio verso il Polo Nord del 1990 e testare l’attrezzatura, io e i miei compagni trascorremmo alcune settimane a Iqaluit, una cittadina nel nord est dell’arcipelago artico canadese. In quell’occasione venni a sapere di una bella tradizione inuit: quando ti arrabbi al punto da non riuscire a controllare le tue emozioni, sei invitato a lasciare la tua abitazione e a camminare in linea retta attraverso il paesaggio che ti si para di fronte, andando avanti finché la rabbia non passa. Il punto esatto in cui l’emozione molla la presa viene dunque marcato, infilando un bastone nella neve. In questo modo si misura la lunghezza, ovvero l’intensità, della rabbia. La cosa più sensata che possiamo fare quando siamo arrabbiati, condizione in cui il cervello rettiliano guida le nostre azioni, è allontanarci dalla persona o dalla situazione che ci ha provocato quella reazione.
Erling Kagge,
Camminare. Un gesto sovversivo
la Repubblica, p. 84

Autore del libro “Camminare. Un gesto sovversivo”, Erling Kagge, nato il 15 gennaio 1963 in Norvegia, è esploratore, avvocato, collezionista d’arte. Insieme a Børge Ousland, fotografo, scrittore ed esploratore, che per primo ha attraversato l’Antartico in solitaria, nel 1990 raggiunge il Polo Nord senza supporti esterni, ovvero senza il sostegno di slitte o un team.

La fine di una storia

 

Henri Rousseau-paesaggio-foresta-vergine
Henri Rousseau, Paesaggio di foresta vergine, La pantera

 

« Dicono che è andata così », concluderà Nushiño sputando un’ultima volta prima di andarsene, perché gli shuar si allontanano sempre quando hanno finito una storia, per evitare le domande generatrici di bugie.

Luis Sepulveda, Il vecchio che leggeva romanzi d’amore. Guanda, 1999, pagina 120

 

Alla fine di una storia allontanarsi per evitare le domande generatrici di bugie. Lasciarla così, le parole liberate nell’aria ad agitarsi come falene inquiete attorno alla luce, quella del senso che vorremmo chiedere, indagare, grattare via. Non sempre è possibile dare risposte, anzi il più delle volte non lo è. Nel tentativo spesso si fanno spallucce, si danno pacche sulle spalle, considerazioni abbozzate, consolazioni maldestre dell’inconsolabile.

E allora allontanarsi consapevolmente alla fine di una storia diventa un atto di coraggio, orgoglio. Forza interiore. Capacità di tenere per sé, dentro, il metabolismo che ha bisogno di tempo. Lasciar andare l’altro e avvicinarsi a sé è genera l’energia immensa che viene dal saper lasciare a ognuno la sorte di quella storia, la libertà del proprio pensiero, il silenzio necessario alle parole per radicarsi e nel profondo fiorire come semi, nel buio della coscienza che rimane sola con se stessa. Nella solitudine impariamo a camminare, ognuno con il proprio passo.

Ogni domanda è sempre generatrice di bugie. Lo è in anticipo, lo è per il naturale tendere al voler prendere; un desiderio che mettiamo nelle mani dell’altro, è a lui che chiediamo spiegazione, accumulando interpretazioni. E allora diventa restituzione libera questo sottrarsi che è capacità di sfuggire, ridare all’altro libertà, autonomia. Non c’è bisogno di commentare, alla fine di una storia imparo ad andarmene.