Storia di Nat Love

Nato schiavo, è un uomo libero e decide di andare a prendersi il suo futuro diventando un cowboy

La storia del cowboy Nat Love

cowboy Nat Love

Era nato in un giorno di giugno del 1854, nessuno sa esattamente quando. Si chiamava Nat. Nat Love.

Era nato schiavo in una piantagione del Tennessee. Che cosa significa essere schiavo? Schiavo è quando qualcuno pensa che puoi essere di sua proprietà. Tu ci credi davvero, che qualcuno possa di proprietà di qualcun altro, ti sembra possibile? Nat Love era nato in un mondo e in un tempo in cui qualcuno credeva che fosse possibile e infatti il suo cognome, “Love”, era il nome del proprietario della piantagione dove viveva. Ma con un nome come quello, che dopo tutto significa una delle parole più rivoluzionarie del mondo, “amore”, la vita doveva avere in serbo una bella sorpresa pronta ad accadere.

Nat Love, nato in un caldo giorno di giugno di due secoli fa, nel 1854, aveva un papà e una mamma. Il suo papà faceva il caposquadra e la sua mamma era la responsabile di cucina che sfamava tutta quella gente impegnata dalla mattina alla sera nel lavoro dei campi. Aveva anche un fratello e una sorella: si chiamavano Sally e Jordan.

Sai che agli schiavi era proibito leggere? Ma il papà di Nat, che si chiamava Sampson, gli insegnò a leggere. In segreto. In quel periodo in America ci fu una grande guerra perché gli schiavi si erano stufati di essere schiavi e altri che schiavi non erano pensarono che fosse una cosa molto brutta continuare a considerare le persone come proprietà di qualcuno così tutti insieme fecero una guerra, per difendere la libertà e dire a tutti che siamo persone e le persone sono libere.

Siamo persone e le persone sono libere

Alla fine ce la fecero: vinsero la battaglia, anche se poi fu necessario molto tempo per convincere la testa delle persone che ognuno di noi è davvero una persona libera e la libertà è dentro ognuno di noi. I genitori di Nat continuarono a vivere dove erano sempre vissuti, coltivando tabacco e mais. Ma il papà di Nat morì e così Nat iniziò a cercare un modo per aiutare la sua famiglia: avevano bisogno di mangiare, di vestiti e cose utili. Come posso fare per aiutare la mia famiglia, si chiedeva lui?

Devi sapere che Nat Love era davvero bravo con i cavalli. Sapeva cavalcarli, capirli, addestrarli. Forse, in una semplice parola, li amava. Fu così che Nat inizia a lavorare in un ranch e un giorno succede che si trova a una festa di paese, una di quelle serate dove c’è la musica, si beve, si balla e si festeggia sotto le stelle per tutta la notte. C’è anche una lotteria: tu compri un biglietto poi estraggono dei numeri e se sei così fortunato da sentire i numeri che hai in mano allora hai vinto. Bè, quella volta Nat Love non poteva credere alle sue orecchie: era proprio il suo numero quello che stavano dicendo.

Vinse un cavallo. Lo vendette al proprietario del ranch dove lavorava per 50 dollari e con quei soldi decise di partire. Sì, proprio così. Partì per il viaggio alla conquista del suo futuro. Aveva 16 anni e decise che sarebbe andato nel grande West, il territorio dall’orizzonte sconfinato, dove tutto era possibile, terra di briganti, deserto e cowboy.

Vaqueros, i primi cowboy

A Dodge City, nel Kansas, Nat Love iniziò a lavorare come cowboy al Duval Ranch, in una tenuta sul fiume Palo Duro. Imparò a seguire una mandria a cavallo e tenere lontani i ladri di bestiame. Nat Love galoppava con il suo cavallo in lungo e in largo per la prateria, con il suo lazo e un vecchio cappello sulla fronte. Correva nel vento della notte e fra la polvere del giorno sotto al cielo sfolgorante, caldissimo d’estate, ghiacciato d’inverno. Era forte e coraggioso, lo conoscevano tutti nei dintorni.

Un giorno Nat Love sellò il suo cavallo, salutò chi conosceva e cavalcò fino in Arizona. Lì, sul fiume Gila, c’era un ranch, il Gallinger Ranch, e lui iniziò a lavorare lì. Quando aveva tempo andava al saloon, che era un po’ il bar dell’epoca in quei posti e al bancone conobbe tanta di quella gente: cowboys famosi come Billy the Kid, Pat Garrett o Bat Masterson. Lui era solo un ragazzo e loro già dei grandi, per questo gli piaceva ascoltare le loro storie e continuare a sognare.

La vita avventurosa di Nat Love

Un’altra volta dovette guidare una mandria fino a Deadwood, che a dire il vero signfica qualcosa di molto simile a “bosco morto”, un nome che non invoglia visite, nel territorio del Dakota, una pianura arida dove il cielo blu si staglia sulla terra piatta e arancione. Proprio lì lo scrittore Edward Lytton Wheeler diede a Nat Love un soprannome con cui rimase famoso per il resto della vita: Deadwood Dick, perché al rodeo di Deadwood Nat vinse e stravinse tutte le gare dimostrando di essere il più grande cowboy di sempre.

In quel periodo c’era un’altra tempesta nell’aria. Antiche tribù come quelle dei Sioux avevano la loro guerra da portare avanti. Si ribellavano contro chi voleva rinchiuderli nelle riserve e aveva rubato loro la sacra terra. Gli indiani, che abitavano queste vaste pianure da sempre, non avrebbero mai pensato che la terra fosse di qualcuno e men che mai loro. La terra è della terra: siamo noi ad appartenere alla Terra, dicevano, ed è un pensiero bellissimo questo. Ma altri, che invece la terra la volevano ed erano pronti a strapparla, arrivarono fino a quelle pianure ai confini del mondo e iniziarono a uccidere i bisonti che correvano liberi cacciando via gli indiani. Ma questa è un’altra storia.

La seconda vita di Nat Love, ovvero quando il cowboy appende il cappello al chiodo

Quello che invece accadde al cowboy Nat Love è che in Arizona un giorno incontrò anche lui gli indiani. I pellerossa, li chiamavano, perché passavano la loro vita libera, a cavallo e all’aperto; dormivano in grandi tende chiamate tepee, erano abbronzati e forti, indossavano collane e piume colorate fra i capelli scuri. Tu immagina una giornata polverosa e calda con il sole alto, loro, i pellerossa della tribù Pima, sui loro alti cavalli selvaggi, che cavalcavano senza sella, e lui, un cowboy di nome Nat Love, solitario sul suo cavallo. Loro pensarono che lui fosse uno dei cattivi, uno dei cowboy che arrivavano lì per distruggere le loro tende e rinchiuderli. Così lo inseguirono con le loro frecce e Nat Love fu ferito quattordici volte, raccontò dopo.

Fu la pelle a unirli. Perché Nat Love era nato in America, ma aveva una storia che veniva da lontano, da un paese immenso chiamato Africa dove il sole brucia fortissimo, dove una volta c’era il mare e ora il deserto che solo certi azzurri cavalieri sanno esplorare. Anche lì un giorno era arrivato qualcuno, di nuovo, che credeva si potessero possedere le persone e così le aveva caricate su una nave e portate via, al di là del mare, verso una nuova terra sconosciuta che poi era diventata nuova casa, la stessa in cui era nato Nat Love e anche loro. Sta di fatto che la sua storia Nat Love ce l’aveva scritta in faccia, negli occhi e sulla pelle. E anche loro: è così che si riconobbero.

Perché succede che a volte basta un attimo per riconoscersi, soprattutto se hai centinaia di anni sulle spalle e una storia che per tutta la vita non ha cercato altro che libertà. Dicono che solo chi abbia conosciuto che cos’è la prigione possa sapere com’è fatto il gusto autentico della libertà. Forse anche per questo Nat Love proprio non poteva fermarsi. La tribù Pima avrebbe voluto adottarlo e farne un membro del loro gruppo: lo curarono e lui visse nelle loro tende, scoprendo le erbe che loro raccoglievano da millenni, da mangiare e per curare le ferite. Scoprì che cosa significa sedersi attorno al grande fuoco, insieme, e vedere un cielo stellato come solo nel deserto e in certe sterminate praterie si riesce a scorgere. Vide l’amicizia e il senso di solitudine, che sempre è nel nostro cuore, perché, ricordati bene: il Destino è dove ti porta la strada che hai nel cuore, solo a lei devi essere fedele. Perché solo tu sai per che cosa batte il tuo cuore.

Il cuore scalpitante di Nat Love batteva per essere libero e così alla prima occasione buona acchiappò un pony e galoppò via. Quando si fermò era arrivato in Texas. Dopo una manciata di anni la sua vita si intrecciò a quella di Alice e fu per sempre: ebbero una figlia, che crebbe fiera e bella, bella come solo sa renderti lo sguardo orgoglioso di chi ti guarda con libertà. A Denver Nat Love lavorava come facchino in una stazione di autobus. Ogni tanto si fermava e guardava tutta quella gente che andava e veniva, instancabilmente, da una parte all’altra dell’America: viaggiatori solitari, donne con i loro bambini, vagabondi, operai diretti verso le famiglie lontane. Ognuno partiva con un viaggio nel cuore, ognuno tornava con un sogno dentro, che lo aveva portato lontano o lo riportava a casa. Un giorno ci saltò sopra anche lui su quel treno perché iniziò a lavorare lungo la linea ferroviaria che collegava la città di Denver a Rio Grande; si occupava dei bagagli a bordo dei vagoni letto.

Te lo immagini tu, un vecchio cowboy mescolato ai bauli e ai pacchi da caricare e scaricare dai treni? Se riesci a immaginartelo allora sappi che nessuno, proprio nessuno di noi, potrebbe mai indovinare quante vite può vivere una persona in tutta la sua vita. Quando aspetti alla fermata di un bus e guardi chi arriva e chi va riflettici bene, anche solo per un momento. Perché forse è solo con il potere dell’immaginazione e qualche piccolo dettaglio spesso così minuscolo da passare inosservato se riusciamo a farci un’idea delle vite degli altri, che sempre, e lo ripeto, sempre, rimarranno comunque un grande, insondabile, segreto.

Così pensava Nat Love, cowboy che era stato schiavo ed era diventato uomo libero, cosa che in fondo era sempre stato, libero, dico, anche quando gli altri ancora non lo sapevano. Perché non dobbiamo mai, dico mai e poi mai, aspettare che siano gli altri a farci scoprire ciò che siamo: impara a essere la storia che di te vuoi lasciare. Tutto è possibile, ma solo quando inizi a farlo accadere. Fu così che dopo essere stato domatore di cavalli, cowboy, padre, facchino e addetto ai treni, Nat Love prese la penna in mano: divenne scrittore, cosa che anche quella forse era sempre stato perché non aveva mai smesso di raccontarsi la sua storia, anche solo per non dimenticare tutta la strada fatta, fin dove l’aveva portato.

Con la storia della sua autobiografia mise da parte un bel gruzzoletto; continuò a vivere in California, dove si era trasferito con la sua famiglia. Lavorò anche come corriere e guardia per una società di sicurezza, un mestiere che in fondo gli ricordava l’inizio della sua vita, quando doveva tenere d’occhio la mandria e stare attento ai ladri di bestiame: solo che qui non andava a cavallo e attorno non si levava la polvere delle sterminate praterie nel selvaggio West, c’era Los Angeles e le sue strade immense dove un giorno, di lì a non molto, avrebbero costruito grattacieli infiniti, che forse li chiamano così proprio perché come dita impavide sembrano fare il solletico all’alto. Los Angeles, la città degli angeli, degli Anni Ruggenti, gli anni venti, dove si sarebbe suonato il jazz tutta la notte: le melodie che i suoi genitori cantavano al tramonto nella piantagione di Love, ormai scomparsa, insieme a tutte quelle persone che ci erano passato. Gente che aveva sudato, lavorato, cantato, ed era morta sognando un altro mondo: un mondo diverso e migliore che forse non avrebbe visto mai ma che da qualche parte, nel cuore, esisteva da sempre.

E allora Nat Love prima di tornare, passo dopo passo, a casa da sua moglie Alice a volte si sorprendeva a fermarsi un attimo, in una pausa ribelle, perché fosse anche solo per una manciata di istanti dobbiamo ricordare di rubare al ritmo della routine infernale un respiro che ci faccia ricordare di essere sognatori. Guardando il tramonto non poteva non sfuggirgli un sorriso: quante vite può vivere una persona. Eppure, in fondo in fondo, non andiamo mai via dal nostro cuore: è lì dentro che viviamo e quello che sentiamo lo portiamo anche fuori, ovunque andremo.

Grazie a Farwest.it per le informazioni su Nat Love. Da leggere per approfondire:

 “The Life and Adventures of Nat LoveBetter Known in the Cattle Country as ‘Deadwood Dick’ by Himself”, autobiografia (1907)
 “Life and Adventures of Nat Love”

7 marzo

“Fermati, viaggiatore, per un momento, e guarda
Uno che ha viaggiato più di te;
In tutto il mondo, per ogni grado,
Anson e io abbiamo solcato il mare.
Sono passate zone torride e gelide
E, alla fine, arrivammo a terra al sicuro-
In pace, solenni eccociIn pace, solenni
Lui alla Camera dei Lord – io qui”

Stay, traveller, a while, and view
One who has travelled more than you;
Quite round the globe, thro’ each degree,
Anson and I have ploughed the sea.
Torrid and frigid zones have pass’d
And-safe ashore arrived at last-
In ease with dignity appear,
He in the House of Lords – I here.

Se ti capitasse di camminare fra le sale del National Maritime Museum di Greenwich, il più importante Museo Marittimo del Regno Unito, vai a cercare il Centurion: il falegname Benjamin Slade, che lavorava nei cantieri navali di Plymouth, realizzò il modellino di legno che vedi chiuso nella teca, completo di tutto, dai minuscoli tasselli in legno alla polena, che un tempo accompagnò questa nave in mare aperto.

Oggi, 7 marzo 1941, il capitano Anson doppia capo Horn e attraverso lo stretto di Le Maire passa dall’Oceano Atlantico al Pacifico. L’equipaggio è sfinito, ma intanto li coglie di sorpresa una tempesta da ovest: le vele sono a brandelli, la nave rolla così tanto che chi non sa mantenersi in equilibro aggrappato al legno della prua finisce inghiottito dal mare. L’uragano.

Si acquieta per poi cominciare di nuovo. Passa il giorno e sopraggiungono le stelle. Arriva l’alba, meravigliosa speranza fra le nubi nere. E passa un’altra giornata in balia delle onde. L’uragano squassa il Centurion per cinquantotto giorni di fila. Quelli che non uccide la tempesta, li uccide lo scorbuto: la mancanza di frutta, verdura, acqua, vitamine. Ogni giorno si lasciano all’acqua salata i cadaveri dei marinai, dai sei a otto.

Anson tiene la rotta seguendo il sessantesimo parallelo sud; ad occhio, dovrebbe trovarsi a duecento miglia a ovest della Terra del Fuoco, pensa. Dopo due mesi dalla completa oscurità appare la luna: Anson punta verso nord. La meta è l’isola di Juan Fernandez. La foschia si dirada e all’orizzonte appare la terra. Terra! Ma, contro ogni aspettativa, è Capo Noir, al margine occidentale della Terra del Fuoco. Com’è possibile? In realtà, la nave nell’azione disperata di combattere contro la tempesta, era rimasta quasi ferma. Adesso si tratta di recuperare la rotta e in fretta, perché se fossero morti altri uomini, non ne sarebbero rimasti abbastanza per manovrare le vele.

Il giornale di bordo, giorno 24 maggio 1741, segna che Anson conduce il Centurion alla latitudine dell’isola di Juan Fernandez, trentacinque gradi a sud dell’Equatore. Est o ovest, qual è la direzione giusta? Anson decide di puntare a ovest, il Centurion naviga per quattro giorni. Poi, qualcosa gli fa cambiare idea. Inverte la rotta. Anson non sa di trovarsi a poche ore dalla costa agognata. Nel frattempo, dopo quarantotto ore ecco che si avvista terra, di nuovo. Ma si tratta della costa del Cile, dominio spagnolo.

Anson e l’equipaggio del Centurion caleranno l’ancora a Juan Fernandez il 9 giugno 1941, due mesi dopo. Degli uomini imbarcati, oltre cinquecento, rimarranno meno della metà. Questa pagina strappata dal libro dei giorni è dal libro “Longitudine” di Dava Sobel, che narra la storia della difficile, difficilissima conquista della longitudine, la scoperta che riuscì a cambiare la navigazione.

Fra l’altro, proprio nell’isola di Juan Fernandez al Centurion si spezzò il cavo dell’ancora: trascinato in mare fu di nuovo riportato, con grande difficoltà a terra. Costruito nel cantiere navale di Portsmouth e varato il 6 gennaio 1732, la nave HMS Centurion apparteneva alla Marina Britannica. A Canton lo scafo venne abbattuto e ricostruito dai falegnami cinesi; dopo aver catturato il galeone Manila fece ritorno in Inghilterra attraverso il Capo di Buona Speranza e una volta giunto a Londra l’equipaggio marciò per le strade della capitale carico di bottino. Un bottino che i marinai dilapidavano in poche notti, come narrano le voci dei porti, perché allora non esistevano certo fondi di investimento e le proprie tasche, insieme alla vita spesa in mare e per il mare, erano l’unica certezza.

Dal 1734, anno della sua prima sortita, a bordo ospitava John Harrison, orologiaio inglese testardo e autodidatta, che per oltre quarant’anni, sfidando le autorità scientifiche e le guerre di corte, avrebbe continuato a sperimentare il suo cronometro, fino a ottenere l’ambito premio offerto dal Parlamento. Nel 1741 il Longitude Act, infatti, aveva stanziato l’equivalente di milioni di sterline per chi avesse saputo risolvere il problema del calcolo della longitudine in mare aperto.

Per trentasette lunghi anni il Centurion navigò per ogni mare. Con il capitano George Anson attraversò l’Oceano Atlantico, dall’Africa alla Giamaica. Aveva una missione speciale: dare fastidio alla flotta spagnola intercettando il Galeone Manila, un nome in codice che era stato dato alle navi della corona spagnola che dal porto di Manila attraversavano il Pacifico sbarcando ad Acapulco, cariche di merci, che veniva scaricate per poi viaggiare via terra fino a Veracruz, in Messico, e poi di nuovo caricate dai galeoni indiani per arrivare fino in Spagna. Dal 1565 al 1815 questo commercio continuò, ininterrottamente, fra Spagna e Messico e non senza difficoltà, a causa dei venti e delle correnti.

Cose che si fanno d’inverno

Le piccole cose capaci di renderci felici durante il tempo invernale. Giorni lunghi, lunghissimi che poi ci si volta indietro e ancora una volta sembrano passati in fretta. I giorni dell’inverno sono quelli in cui avremmo voglia di casa e di rotolarci fra le coperte e invece magari bisogna svegliarsi presto e uscire quando è ancora buio – che succede anche questo – e poi scopri comunque che può essere bellissimo, passato il primo momento più difficile, l’aria in faccia e il mondo che si sveglia, ognuno a modo suo, le giornate di nebbia infinita, guardare fuori dai vetri di uffici e scuole, sognare, immaginare, preparare biscotti e nuove idee…

Cose che si fanno d’inverno

Ascoltare musica e se si può i dischi, con il vecchio mangiadischi arancione o un nuovo giradischi per tornare a sentire il fruscio dei 45 e 33 giri, imparare a posizionare la puntina… piano piano, nel punto giusto

macinare i chicchi di caffè e immergere il naso nel profumo forte, scaldare le fette di pane nel tostapane e preparare colazioni sontuose con marmellata, burro salato o formaggio. E poi i pancakes: il cesto dei pancakes della domenica, quando svegliarsi è più dolce e papà con la frusta impasta tutto poi cuoce per tutti

i caffè lunghissimi e i piedi nudi sul divano, mangiare biscotti dalla scatola e non importa per le briciole

passare da una stanza all’altra, giocare e fare caos e poi riordinare tutto e trasformare anche il riordino in un nuovo gioco, in cui trovare cose e riscoprire oggetti perduti

disegnare, dipingere con gli acquarelli, leggere libri belli, guardare film e inventare storie

spiare il Tempo dalla finestra, che come diceva lo scrittore Joseph Conrad «Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?»

indossare sciarpa e cappello di lana e poi uscire fuori, con l’aria fredda che soffia sulle dita e sulle guance

osservare i rami degli alberi disegnati dal ghiaccio, le case e le aiuole: pensare a quando ci sarà così sole che diremo – si muore di caldo- e indosseremo pantaloni corti e infradito e magliette e sembrerà così strano ripensare a queste giornate qui, immerse nella nebbia e strizzate nel gelo, sembrerà strano tanto oggi sembra strano e innaturale immaginare che fra qualche mese saremo in questa stessa strada, svestiti e con le braccia abbronzate, circondati di fiori e alberi pieni di verde

fare picnic in salotto, con tanto di tovaglia da stendere sul tappeto e tramezzini e frutta

ascoltare la pioggia che cade di notte e se nevica rimanere minuti interi incantati a osservare il pulviscolo della tormenta di fiocchi attraverso la luce gialla dei lampioni sotto casa

accendere fili di luci per tutta casa e mica solo a Natale, arrotolati lungo le scale e sul soffitto della cucina, per scaldare le stanze di casa e il cuore

rispolverare i giornali vecchi e i libri che non si ha ancora avuto tempo di leggere perché non è vero che accumulare è peccato: ci sono momenti in cui troviamo cose, oggetti, libri e sogni e li mettiamo da parte, in angolo della testa e dell’anima, poi arriva il giorno giusto e allora li apriamo ed esploriamo, succede così di tenere fra le mani sorprese che avevamo preparato per noi stessi, senza saperlo, infiniti momenti fa

preparare il tè delle cinque e se non è a quell’ora poco importa, l’importante è fermarsi e sorseggiare piano. Piano piano, che il tempo: il Tempo, questo nessuno ce lo regala, ce lo dobbiamo prendere e a volte anche rubare, disegnare per noi e per ciò che amiamo, per trovare spazio per glia abbracci e cuscini sul divano, parole da scrivere e raccontare, piante da annaffiare

e non importa se è inverno, forse fioriranno anche i gerani se li lasciamo dentro alle finestre. Per fare finta che l’estate sia già tornata, o forse mai passata: la bella stagione del cuore, che non importa quanto freddo faccia, è un battito di farfalla dentro, un arcobaleno nella pioggia

svegliarsi e riaddormentarsi. Perché almeno una volta durante l’inverno dobbiamo concederlo a noi stessi, di non sentire la sveglia e continuare a sognare e rotolarci fra le coperte quando ormai è troppo tardi per fare tutto.

365 giorni in viaggio nel Tempo

365 giorni in viaggio nel Tempo, 365 giorni in giro per il mondo: piccole storie dalla storia dei giorni per crescere umani e scoprirsi sognatori

365 giorni in viaggio nel Tempo

Se c’è una cosa di cui sappiamo proprio poco, siamo d’accordo tutti, è dell’amore. E di come accade la magia che ci porta a esplorare mondi, varcare soglie, esplorare orizzonti, trovare nuovi mondi, scongiurare universi, mescolare forme, non arrenderci all’evidenza, raccontarci ancora. Dietro c’è la passione. La passione dell’amore, l’entusiasmo: lo chiamano ikigai in Giappone, quello che ci mantiene ancora in vita, anche per oggi. Possiamo chiamarlo in mille modi diversi: non cambierebbe la sua essenza; è il sangue nelle arterie, ossigeno vitale, linfa sacra.

Attraverso le storie gettiamo semi e cresciamo umani, un po’ più umani, e attenzione, non in quanto bipedi, c’è un grosso malinteso sull’umanità. L’umano a volte si nasconde bene sotto peli e mantelli e ruvide zampe, ma in fondo ha a che fare con lo stare, il ritmo nel nostro mondo fra le onde della vita, il modo in cui ci guardiamo e guardiamo gli altri.

C’è sempre qualcuno convinto che il periodo più felice dell’ esistenza sia stato quelo in cui eravamo piccoli, molto piccoli. Ma non lo ricordiamo. Ci mettiamo tutta la vita a ritornare lì e ripartire col senno di poi. Non ci siamo mai più mossi da lì, in fondo. Ci mettiamo una vita intera a tornare a essere ciò che siamo sempre stati. È che non lo ricordiamo.

Siamo tutti viaggiatori intergalattici, arrivati qui da chissà dove, su questo pianeta, una biglia azzurra che viaggia nel vuoto e non sta mai ferma, come il nostro cuore, appeso al miracolo di un segreto elettrico che lancia impulsi e si rigenera, a ogni sospiro. E noi con lui.

Ce ne andremo, non sappiamo quando ma sappiamo già che il viaggio qui ha una fine. Non ricordiamo come e quando siamo arrivati, ce lo hanno raccontato altri. Di questo viaggiare, invece, e del suo destino finale ci ricordiamo ogni giorno, se non vogliamo fingere di dimenticare.

Viaggiamo attraverso lo spazio, eppure non siamo altro che viaggiatori del tempo. Andiamo alla scoperta della geografia di ciò che siamo stati e cercando, scavando fra le strade perdute, gli errori e la bellezza, con lo sguardo verso l’orizzonte di domani, è così che ci scopriamo sognatori.

sognatori, una parola bellissima. Abbiamo bisogno di scoprirci sognatori perché il mondo ha bisogno di poesia, bellezza, giustizia, misericordia. La vita ne ha bisogno. Per crescere abbiamo bisogno di immaginazione. E di immaginarci.

27 agosto, io e Pavese

Il 27 agosto 1950, moriva, suicida a Torino, lo scrittore Cesare Pavese. Ricordo che la sua morte mi colpì molto. Proprio in quegli anni dell’immediato dopoguerra avevo divorato i suoi romanzi che erano giunti a valanga in libreria. In particolare: Il compagno, La casa in collina, la bella estate, La luna e i falò, quest’ultimo edito a cavallo della sua morte. Mi colpì negativamente la modalità del suo suicidio raggiunto con una forte dose di barbiturici, che non mi pareva una morte “eroica” come mi sarei potuto aspettare da quello che, a quel tempo, consideravo un eroe anche se solo letterario. Anche le ragioni del suo decesso, che si vociferava fosse dovuto a una forte delusione amoroso, mi parve una assurdità. Le due cose unite mi smontarono un poco il mito dell’uomo, ma rimase forte quello dello scrittore.
Negli anni dal 1954/59, per ragioni famigliari, dovetti abbandonare il liceo e iniziai l’attività di rappresentante per una ditta che aveva sede a Torino con la conseguenza di dovermi recare saltuariamente in questa città. Andavo in auto o in treno e per comodità soggiornavo sempre in un vecchio albergo che si chiamava Hotel Roma Cavour ed era di fronte la stazione di Porta Nuova. Credo che fosse un edificio di metà ‘800 e aveva mantenuto la struttura e l’arredamento di quel tempo. Ricordo la camera che mi dettero la prima volta; i mobili erano in legno pregiato e il bagno, molto grande, aveva una vasca con i piedi tipo zampa di leone ma non c’era la doccia. Come tutti i vecchi alberghi nell’aria stagnava quell’odore particolare come un misto di stantio e di cera da pavimenti. Non so perché quella stanza e l’atmosfera che si respirava mi colpirono e non capivo il perché in quanto non rappresentava il massimo dell’accoglienza. Da quella volta ogni volta che scendevo a Torino chiedevo sempre della stessa stanza che era quasi sempre libera.
La sera ero spesso solo e solitamente andavo a cena e al cinema e rientrando in albergo mi fermavo a fare quattro chiacchiere con il portiere di notte. Una sera, parlando gli chiese che mi pareva strano che ogni volta che lo chiedevo la camera fosse quasi sempre libera. Sorridendo mi rispose e disse che si trattava della stanza dove si era suicidato Cesare Pavese e che pensava fossi anch’io uno di quelli che ogni tanto, andavano per ritrovarne lo spirito, poi vedendo il mio stupore mi chiese se volessi cambiare stanza, risposi di no. Non ho mai creduto negli spiriti né tanto meno del ritorno, in qualche modo, dei defunti. Chi è morto è morto e vive solo dei nostri pensieri. Però da quel momento, pensare di dormire nello stesso letto dove si era suicidato Pavese mi dava un certo brivido.
Domenico Alvisi

23 agosto

“Io non augurerei a un cane o a un serpente, alla più bassa e disgraziata creatura della Terra — non augurerei a nessuna di queste creature ciò che ho dovuto soffrire per cose di cui non sono colpevole. Ma la mia convinzione è che ho sofferto per cose di cui sono colpevole. Sto soffrendo perché sono un anarchico, e davvero io sono un anarchico; ho sofferto perché ero un Italiano, e davvero io sono un Italiano […] se voi poteste giustiziarmi due volte, e se potessi rinascere altre due volte, vivrei di nuovo per fare quello che ho fatto già”
Bartolomeo Vanzetti

Gli anarchici italiani Ferdinando Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, emigrati negli Stati Uniti, vengono giustiziati sulla sedia elettrica: è il 23 agosto 1927 venti minuti dopo la mezzanotte. L’accusa, che si rivelerà infondata è per omicidio. Il processo dura sette anni. Nei giorni dopo si scateneranno proteste e rivolte popolari in diverse città della Germania, a Parigi e a Londra.

24 luglio

Hiram Bingham, storico, annuncia agli accademici dell’Università di Yale la scoperta di Machu Picchu in Perù, antica città Inca a 2430 metri d’altezza. Era il 24 luglio 1911 e lo studioso continuerà a scavare, fra rocce ed erbacce, fino al 1915 portando alla luce ciò che oggi è un sito protetto Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco, nel 2007 eletto una delle Sette meraviglie del mondo moderno.