Estate 2024

Il passo prima di poter dire “estate”: il giallo dei prati di tarassaco, le prime giornate di sole intenso sulla pelle, la luce negli occhi e nella linfa, clorofilla, verde acceso. L’erba che inizia a diventare alta, il rumore delle motoseghe di mattina, i fiori selvatici ovunque: macchie viola, blu, tonalità di giallo e rosso, rosa. All’improvviso poi non è già più primavera, l’estate entra dando un calcio alla porta principale anche se certi temporali in questo periodo la fanno spaventare e dimenticare di se stessa. E allora l’estate si fa piccola, ogni tanto, e diventa per un attimo tempo autunnale: le piogge fortissime, la nebbiolina che sale e avvolge le montagne. Ma te ne accorgi, che è estate, dalle sere che non passano, più chiare che mai, e dal calore che traspira dalla terra.

Il verde, più che verde come non è mai stato. Dall’acquazzone la terra trattiene il necessario per restare viva e l’erba resta quella primaverile, invece del secco e dei ciuffi giallastri della stagione più calda dell’anno: negli stessi angoli dove di solito ci sono sassi quest’anno in montagna spuntano ciuffi d’erba morbida.

Tu con le tue forbici da giardiniere. Le rose che nessuno ha più il coraggio di potare e lentamente si alzano sul muro, fino al tetto.

Una sera d’estate e un bambino con la felpa a righe blu e azzurre, ginocchia livide e stivalini blu di Spiderman con il bordo rosso: salta nella pozzanghera più grande dopo averla cercata a lungo, una pozzanghera che sia sufficientemente grande per poterci saltare dentro comodamente. Intorno un profumo dolce nell’aria, di erbe selvatiche senza nome. I ciuffi di erba ancora intrisa di pioggia, un paio di alberi con le piccole prugne ancora verdi a cui tu hai voluto a tutti i costi dare un morso per poi sputare forte.

Le amarene, acerbe, come pois rosseggianti fra le foglie, non ancora pronte all’inizio di giugno. Un cancello che dà sul nulla di un giardino mai tagliato. Le foglie della menta che nascono nelle fessure tra i sassi e basta passarci una mano per profumare l’aria tutt’intorno. La domenica di pioggia, forte e scrosciante: il vapore nebbioso tra le montagne, poi le nuvole che si scostano e lasciano vedere il cielo così azzurro che la giornata sembra stia per iniziare invece è già finita. Il profumo delle patate nel forno, le cose di un giorno di pioggia, la noia, i libri, i giochi, l’inventare, i vetri della finestra rigati dall’acqua di traverso, le piante dell’inverno da portare finalmente in giardino per dissetarsi dell’acquazzone. Non sono ancora arrivate le lucciole.

Di nuovo la pioggia, fortissima. Per tutto il giorno di san Giovanni, dalla sera prima al giorno dopo. Un codirosso che vola davanti alla finestra quando spiove, immobile per un attimo nell’aria, e si ferma sulla grondaia della legnaia. Il cielo quando torna sereno verso sera e l’odore di bagnato fra i prati. Camminare nei giardini dopo la pioggia. Le amarene ancora troppo aspre.

Seguire le curve della strada al tramonto, quando la luce è ancora sfolgorante.

Una ghiandaia che arrriva ogni giorno, prende un biscotto e se ne va; ogni tanto resta ferma, su uno dei rami più alti dell’acero, e si guarda intorno, soprattutto quando il biscotto non c’è. Allora aspetta che io entri in casa a prenderlo e poi vola via: una volta ci siamo guardate negli occhi.

L’estate in città. L’afa, il profumo degli oleandri e i vecchi signori seduti davanti alle saracinesche dei garage mezzi aperti a chiacchierare su una sediolina, con le gambe incrociate e una sigaretta fra le dita. I muri dietro, con lo specchio appeso al muro e un calendario rimasto a chissà quando, le piastrelle azzurrine di una volta. I vecchi, che una volta avevano la barba corta e le facce giovani che ora non sappiamo più immaginare.

L’odore fresco delle cantine che sale dalle grate nei giorni di caldo. I viali alberati e la loro ombra lunga sul marciapiede, il profumo dolce dei gelsomini e gli oleandri, bianchi o rosa.

Il rumore del traffico nelle serate di giugno, quando le luci si accendono e il tramonto svanisce lentamente. Camminare senza fretta al parco per godersi il fresco, la sera tardi e il mattino presto; il traffico che non si ferma mai. Le cicale, più forti di tutto.

Ultimi giorni di giugno. Una medicina presa da non prendere più. Finalmente le lucciole; le lucciole che riempiono i prati volando nella notte.

Sono stanco morto, dici appoggiato sul divanetto rosso: ti va di prendermi in braccio? Certo dico io, e ti abbraccio stretto. E con la tua piccola testa che si appoggia al mio collo, ti sussurro nei capelli: ti voglio tantissimo bene. Anche se peso tanti chili? Chiedi tu. E ti addormenti, un gradino dopo l’altro. Ecco… Tutte le volte che ci hanno detto “adesso sei grande”, tutte le volte che ci dicono “adesso sei grande”: tutti i modi in cui si dice “Adesso pesi”. Tutte le volte che abbiamo fatto capire o ci hanno fatto capire: “adesso sei di peso”. Invece, dovremmo iniziare a dire: “adesso sei così forte, adesso sei così grande, adesso sei così tanto…”

Mamma, esci! Senti, i grilli. Quanti! Camminare fra i prati di notte, a vedere le lucciole e le stelle. Ma non troppo in là, che un po’ il buio fa paura.

Le giornate di luglio col sole che acceca, il sudore e la luce così forte in faccia. La ghiandaia che non vediamo da un po’. Le cicale in città e i grilli in montagna. Le mattine così fresche e le fragoline di bosco trovate per caso camminando per strada. L’amaca, che c’è chi la ama a prescindere e per tutti gli altri – come me – è una scoperta: dondolarsi piano con un libro e pensare a niente, i piedi a penzoloni e i pensieri lassù fra i rami più alti e verdi, appesi alle nuvole.

Una pineta tra i faggi, lassù, nel bosco, tagliata, dove ora al suo posto c’è un vasto e desolante orizzonte vuoto.

Lei che se n’è andata in un giorno d’estate, senza un perché, come anni prima se n’era già andata, anche allora senza un perché. Lui, che questa estate non la vedrà: te ne sei andato via quando nessuno lo credeva possibile. Le presenze assenze, o forse assenze che si fanno presenze con la forza del silenzio e dei pensieri. Il sole che non cura tutto ma tanto, il mare che con il suo sale asciuga e cicatrizza, dipinge e leviga, modella e trasforma le lacrime in oceano. Noi che siamo ancora qui e – purtroppo – non abbiamo mai imparato bene a usare ago e filo per cucire vestiti e nemmeno assenze.

Le finestre che rimangono chiuse e gli scuri che si spalancano, chi fa ritorno dopo un anno e chi no. I vasi di fiori nuovi. I semi che crescono, con molta pazienza. Nessuno ha raccolto le pere e ora c’è un vecchio albero carico di frutti.

Anguria e melone, le cose più buone del mondo, dici tu.

L’estate dei tuoi quattro anni. L’estate dei gattini, delle giornate infinite che iniziano di mattina presto e si rincorrono al sole, fra gli amici e le amiche, i bambini, i vecchi, i giovani; le mosche a cui sfuggire, il caldo che sembra troppo caldo e la mente che sogna di tuffarsi nella neve.

Iniziare a pulire una fontana e chiamarla “la fontana delle paure” perché quella dei desideri esiste già e del resto ci vuole anche un posto dove buttare un obolo per le nostre paure.

I sassi, la terra polverosa che si asciuga al sole; la luce accecante di mezzogiorno, i cappelli calati sugli occhi, l’acqua sulla pelle e sulla testa. I bambini sporchissimi e felici, mezzi nudi e urlanti, a piedi scalzi. Le seggioline all’ombra, dove si siedevano una volta i vecchi che adesso sono andati via ma noi continuiamo a vederli. Il caffè dopo pranzo, imprescindibile, immobili a guardare un po’ l’orizzonte e un po’ l’altrove.

Le canottiere colorate, le collanine, la polvere fra i capelli. I pantaloncini cortissimi e le gambe sempre nude: questo caldo eterno e insopportabile in un attimo svanirà come un sogno, ma tu ancora non lo sai.

Andiamo fuori sull’amaca a guardare le stelle?

La sera in montagna: il silenzio profondo e l’unico suono, lo scroscio della fontana nella notte. L’allocco in amore e il suo verso cantilenato. Il gufo nascosto tra i rami del vecchio noce. Un ululare lontano.

Il profumo forte della menta acquatica. Il rosso dei gerani che finalmente sbocciano.

Addormentarsi dove capita, con la faccia sporca e i piedi neri, troppo stanchi per aspettare il posto giusto. Addormentarsi, soprattutto da piccoli, quando fuori è ancora chiaro, sfiniti dalla giornata. Sfiniti dalla giornata anche i grandi e allora aspettare che si accendano le luci laggiù, oltre le strade e il disegno del panorama: restare nel silenzio dei pensieri. Che in estate è così, ci si sveglia col sole e la giornata sembra infinita, sempre in movimento: sarà forse per questo che da giovani si ama così tanto l’estate, è che sembra di vivere il doppio.

La libertà. O almeno la sensazione di una vastità che ci contiene e possiede. I fiumi dove immergere i piedi e tuffarsi, le rocce da sentire sotto le mani e i piedi. I mazzolini di fiori da cogliere nei prati e regalare a chi ami, l’ombra verde dei boschi come una cupola sacra. Il tempo per incontrare le persone che ti rendono felice il cuore.

Le cose semplici. Pomodori sugosi. Olio d’oliva profumato. Pane. Formaggio. I cani sfiniti dal caldo che dormono per terra all’ombra davanti agli usci.

La sabbia. Impastare le mani nella sabbia. Correre a perdifiato. L’odore del mare. Respirare l’infinito.

Alla fine dell’estate una cicala solitaria su un acero di montagna, senza un perché. Le lucertole giovani. I rami profumati del cespuglio di lavanda. Il tappeto elastico che non è più ricoperto dai piccoli fiorellini bianchi e tu che arrivi di corsa per dirmi che mentre saltavi hai sentito il bramito di un cervo. L’inizio di un tempo nuovo.

Chissà se l’estate finisce il primo giorno di scuola, di pioggia o d’autunno.

Il melo e il pero carichi di frutti, nessuno è ancora andato a raccoglierli. Delle fragoline di giugno nei boschi e sui prati sono rimaste solo le foglie, insieme ai gusci bucati delle nocciole e delle noci da cui gli scoiattoli hanno preso i gherigli. I lamponi hanno lasciato il posto alle more, se uno sa dove trovarle. Per chi ha tempo e voglia di camminare ci sono cesti pieni di funghi. Le bacche preferite dai merli tornano rosse.

L’afa che sembrava così insopportabile è svanita e – almeno in montagna – l’ombra è già più fredda: è successo in un attimo e non sappiamo neanche bene quando.

Torna il signor Fuoco ad abitare nella stufa; le mattine sono più umide e il verde dei prati, che in questa strana estate non è mai andato via, nel giro di poche settimane si accenderà di giallo e rosso: è il tempo dell’autunno. Due gatti non più così piccoli iniziano i loro vagabondaggi: due giovani gatti curiosi di esplorare che ora ci camminano a fianco quando andiamo nel bosco. Gli uccelli sono partiti per il loro viaggio invernale. La falena chiusa nella sua crisalide continua a dormire. Sulla siepe del giardino qualche ape e le ultime farfalle.

Chissà se l’estate finisce il primo giorno di scuola, di pioggia o d’autunno.

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