Perdersi d’estate

Il profumo dei gelsomini arrampicati sui cancelli che si disfano nell’afa

in città

rumore d’acqua degli irrigatori di sera
villette a schiera con le finestre aperte
i discorsi colti a frammenti.
Vicini che preparano grigliate,
ragazzi che tornano a casa con la borsa del calcetto sulle spalle
innamorati, nascosti nel buio.

Un vecchio signore annaffia l’orto.
Dopo cena si indugia sul terrazzo, a gambe incrociate
sperando che la brezza calma della sera
non passi mai.




Siamo storie nella Storia del mondo

Siamo storie, siamo storie nella Storia del mondo

Le idee sono fili da inseguire che ci portano alla scoperta di luoghi diversi, talvolta sconosciuti, a pochi passi da noi. Le idee sono persone. Passo dopo passo, attraversiamo le pagine di libri, tempi e cuori. Perché in fondo che cos’è un libro? Si potrebbe dire molto su come la sua forma sia evoluta e cambiata nel tempo. Ciò che emerge dalla profondità di questo oceano del tempo è che ogni libro è un’onda capace di restituirci l’anima di chi non è più ed è stato.

Dentro una biblioteca ritroviamo le voci di tutti coloro che di persona potremo forse non conoscere, ma che incrociamo attraverso una voce che resta traccia, come inchiostro sulla pelle del mondo.
Sì, un libro, un’idea, una persona possono cambiare il mondo.
Ognuno di noi è un custode del tempo, un custode di segreti. Il pericolo della dimenticanza è appostato dietro l’angolo, come un’ombra nera o una luce troppo forte che rischia di cancellare questa traccia evanescente. La traccia effimera del nostro passaggio sulla terra. Eppure ogni giorno continuiamo a raccontare, continuiamo a raccontarci.

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Siamo storie nella Storia del mondo. Siamo piccole storie che scorrono nel fiume del tempo della grande storia del mondo. Non possiamo dimenticare che nei tempi più neri, dal passato alla triste pagina di un presente che purtroppo continua a ripetersi, le biblioteche sono state bruciate. In guerra le idee sono il nemico più pericoloso, perché l’idea contiene il seme della passione, della ribellione, della libertà. I libri e chi li custodisce è contrabbandiere invisibile della cultura originaria, che è capacità di coltivare l’umano che è in noi.




Bellezza, un atto di resistenza

A volte dimentichiamo che la vita è una scommessa fin dal primo respiro e la capacità creativa
prende radici dalla mancanza. È attraverso l’immaginazione che l’umanità trova soluzione agli enigmi dell’esistenza.

Bellezza che cura

Arte e cultura da secoli sono considerate una terapia, una cura per il corpo e per lo spirito che si aggiunge alle molte forme in cui può essere intesa la medicina. Sì, perché il potere della bellezza, delle forme e delle parole è immenso: a raccontarlo e ricordarcelo sono stati i saggi di ogni tempo, mistici e artisti. Attraverso i sensi attiviamo la capacità di cambiamento che è in noi, sollecitiamo cuore e cervello, sperimentiamo emozioni e sensazioni. Ritroviamo la strada verso casa, la porta del difficile accesso a noi stessi. La bellezza ha un effetto curativo? Sì. Attraverso le tecniche di neuroimaging oggi sappiamo che le esperienze vissute sono in grado di accendere specifici neuroni e mettere in circolo molecole segnale come endorfine, dopamina e ossitocina, attiva quando facciamo l’amore ma anche durante il parto e nella gestione del dolore. Questi neurotrasmettitori agiscono sui centri più ancestrali del cervello, sono connessi a funzioni vitali come il battito cardiaco e la respirazione, oltre a influire sul modo in cui il nostro organismo si mantiere in salute attraverso la rete linfatica che collega l’encefalo al sistema immunitario.

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La bellezza è un atto di resistenza… e resilienza

Vivere la cultura e respirare bellezza forse non ci salverà dall’attacco di virus e cellule impazzite, eppure, giorno dopo giorno può fare la differenza. Perché in fondo, anche in questa medicina che per secoli ha sezionato, tagliato e aggiustato con ago e filo, un po’ come poteva, si sta svegliando una consapevolezza nuova. Uno dei sintomi è la (ancora lenta) trasformazione del vocabolario: siamo stanchi di ascoltare parole come “nemico da combattere” e sentirci paragonare a robot a cui cambiare i pezzi. Il linguaggio della medicina, così come quello della comunicazione medico-paziente, ha bisogno di una trasformazione già dalle parole.

Forse questo bisogno di cambiamento lo stiamo già vivendo:
è la rivoluzione della bellezza
parte da noi, dalla capacità di accorgerci del mondo,
dagli atti di gentilezza e
dalla consapevolezza della gratitudine
che guarisce e ci fa godere della vita,
anche delle sue lacrime,
che fanno parte della storia
come la bonaccia dopo la tempesta e le attese,
i temporali estivi, le nevicate che tutto sommergono
il coraggio che sboccia di nuovo
e non si placa.
Rubare tempo
per ascoltare storie
e accorgersi della bellezza,
ricordare il viaggio dell’esistenza
tessendo il filo
di un attimo da non dimenticare.
Nella trama del tempo
cucire il senso
sapendo che
ogni giorno
è un viaggio,
non sappiamo
dove ci porterà.
Il senso è in ogni passo
e allora, avanti
senza meta
né destino

Vivi… fino all’ultimo respiro

Le parole hanno un potere, un’energia grandissima. Nessuno può dirci quanto ci resta da vivere: nessuno può saperlo. Quello che sappiamo, invece, è che il nostro corpo è un grande mistero ed non esiste un corpo senza la mente. Siamo un tutt’uno. Ecco perché quello che ascoltiamo, ciò che leggiamo e vediamo, quello che ci emoziona e fa ridere, commuovere e stupire ha un effetto. Le nostre emozioni si prendono cura di ciò che siamo, del nostro bisogno di sorridere e avere una qualità di vita, nei giorni felici così come in quelli più tristi. Anche nella malattia, fino all’ultimo respiro: siamo vivi. La dignità passa anche attraverso questo: la consapevolezza della nostra umanità.




Perdersi a Bologna

Quando il sole di giugno esplode e la luce è così intensa da far male agli occhi
chi la spegne quella maledetta lampadina?
Un attimo di pace, una nube passeggera.
La vampa del caldo e la città che si scioglie
ferma al semaforo
la signora indiana che un anno fa aveva il pancione ora con il suo bambino a passeggio
la frutta nel sacchetto
i coraggiosi che ordinano tortellini e lasagne.
Dentro san Petronio l’aria è un respiro immenso e freddo che si dimentica del traffico fuori.

Il vento che a fine giornata si incanala fra i portici,
la luce opaca del tramonto che riempie le strade e inonda i tetti…




Perdersi in un profumo

Una volta a scuola ci hanno dato un tema da fare, eravamo alle Medie. Il titolo non lo ricordo. Aveva a che fare con il tempo passato a scuola, la nostra vita lì in quell’edificio dove i piani si aprivano come ali intorno alle scale centrali, con tante aule come piccole scatole da dove fuggire per una passeggiata solitaria quando fingevo di dover andare in bagno e finivo per prendere la strada più lunga solo per vagabondare fra i corridoi vuoti sbirciando dentro le classi. Quello che ricordo è che dopo quel tema, il mattino della correzione, l’insegnante ci disse che tutti noi avevamo citato il caffè.
Ogni giorno, fra le dieci e le dieci e trenta, due colpi di nocche alla porta e un attimo breve di attesa; la bidella col suo grembiule azzurro entrava con passo spedito e togliendolo dal vassoio, appoggiava sulla cattedra l’espresso appena fatto.

Perdersi in un odore
il profumo di caffè che riempie la stanza,
la polvere quella tostata e macinata fresca, al momento:
ogni volta apro il barattolo e sorrido.

Perdersi in un profumo,
l’infanzia ha quello di sapone da bucato
inconfondibile
e affondare il naso dentro le lenzuola appena cambiate,
i sacchetti di lavanda in fondo ai cassetti
l’interno dell’armadio che sa di buono
apri le ante e chiudi gli occhi, da piccoli ci giocavamo a nascondino
immobili, sulle pile di coperte ben lavate e profumate
sarei potuta rimanere là per ore.

Perdersi in un puzza,
un profumo, un odore.

Le fragoline di bosco quqndo le schiqcci per sbaglio,
il legno delle matite colorate e la gomma che cancella bucando il foglio,
l’odore dei corridoi di scuola
il disinfettante
quello del dentista di menta e colluttorio.
Le scale appena lavate del palazzo,
l’odore delle strade,
dell’ospedale.
L’odore delle sale d’aspetto.

L’odore del treno, delle stazioni e la puzza di benzina di quando ti fermi a fare il pieno.
Il finestrino giù e l’aria che entra
che odore avrà?
Il nostro cane, che se ne intende, mette la testa fuori e con il naso all’insù, mentre la macchina va, analizza
le correnti e tutte le loro provenienze.

L’odore di erba tagliata è il profumo dell’estate,
caldarroste quello dell’autunno, sentore di legna e calore di fuoco.
Brace,
carbone,
sugo che cuoce
arrosto della domenica.

Odore di pane fresco,
la mattina
fiori appena raccolti
rose sbocciate.
Odore di pioggia
cera di candele,
piante selvatiche
menta




Un giorno che ti succede qualcosa di felice

– Ma tu lo sai perché Jean Berbeck smise di parlare? – gli chiese
– È una delle tante cose che non disse mai.
Erano passati anni, ma c’erano ancora i quadri appesi alle pareti e le pentole sull’asciugatoio, di fianco al lavandino. Non era una cosa allegra e Baldabiou, di suo, se ne sarebbe andato volentieri. Ma Hervé Joncour continuava a guardare affascinato quelle pareti ammuffite e morte. Era evidente: cercava qualcosa, lì dentro.
– Forse è che la vita, alle volte, ti gira in un modo che non c’è proprio più niente da dire.
Disse.
– Più niente, per sempre.

Hervé Joncour continuò per giorni a condurre una vita ritirata, facendosi vedere poco, in paese, e passando il suo tempo a lavorare al progetto del parco che prima o poi avrebbe costruito. Riempiva fogli e fogli di disegni strani, sembravano macchine. Una sera Hélène gli chiese
– Che cosa sono?
– È una voliera.
– Una voliera?
– Sì.
– E a cosa serve?
Hervé Joncour teneva gli occhi fissi su quei disegni.
– Tu la riempi di uccelli, più che puoi, poi un giorno che ti succede qualcosa di felice la spalanchi, e li guardi volar via.

Alessandro Baricco, Seta, pagina 67, Feltrinelli 2008




Perdersi alla Bolognina

Il rumore scivoloso delle foglie bagnate nel parchetto di sotto, quello di fronte alla posta e il cane che corre scompigliando la coda di quelli in fila.
Il punto dove si radunano i piccioni e quello per farli volare via tutti d’un colpo.

Autunno che finisce e nel mese di dicembre la Bolognina appende le sue luci. L’ultima volta che ero qui guardavo l’estate dal balcone. Finiva il Ramadan e il vicino incontrato per caso sul pianerottolo aveva un vassoio enorme con una piramide di verdure fumanti e cous cous con le spezie, ne vuoi un piatto? Te lo preparo sai, mi fa piacere.

Ospitalità sacra. Alla Bolognina vecchie botteghe riconvertite in negozi etnici, una panetteria metà di pane italiano e metà arabo, il negozio di tessuti dove comprare gli scampoli per provare a farci qualcosa. Il bar della signora cinese che mi dice buona giornata e quello sotto i portici, così vagamente anonimo da non dare nell’occhio ma con una bella parete tutta di vetro dove sedersi gomito alla strada, davanti a un cappuccino sfogliare i quotidiani mentre fuori piove e io mi incanto a guardare il traffico ipnotico dell’incrocio, facce grigie sotto l’ombrello e suole fangose, pneumatici che schizzano acqua,la mattina è un’immensa pozzanghera. Non vorrei fare altro che stare a guardare per ore la gente che passa.

Perdersi alla Bolognina
è una mappa di profumi e odori portati a ondate da angoli diversi di mondo.
Nei negozi africani parrucche di capelli veri e olio di macassar,
barbieri indiani che radono uomini che si spiano allo specchio.
La mano di un uomo dalla tunica leggera e lunghissima che regge il manubrio di una bicicletta, piedi nudi nei sandali di cuoio scuro

A Natale la pioggia si è asciugata e le foglie secche dell’autunno se le è portate via il vento. Braccia cariche di spese e file troppo lunghe. In un bar etiope si fa festa, è la vigilia. Dall’altra parte della strada il negozio con l’insegna colorata è ancora aperto, dentro un signore indiano vende empanadas e pollo fritto. Perché non ricette indiane? Non mancherebbero, l’India è piena di pollo fritto. Chissà, è che il negozio è nato sotto questa stella e nello stesso cielo continua a proliferare. A volte succede che uno lascia indietro tutti i profumi con cui è cresciuto per attraversare mezzo mondo e riaprire la valigia, trovare altri odori da abitare e poi ogni giorno andare a lavorare in un altro parallelo, a pochi passi da quella che è la tua nuova casa. Sempre con le spezie in tasca.