Jay Fai, chef a Bangkok. Ovvero prendere il rischio della propria vita

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Il suo vero nome è Supinya Junsuta, ma tutto il mondo la conosce come Jay Fai. Il suo è uno dei posti più famosi dove mangiare a Bangkok e nel 2018 è stata premiata con una stella Michelin.

Da oltre quarant’anni Jai Fai cucina, ogni giorno fino a tarda notte. Come inizia la sua storia? Nata nel 1945 da una famiglia cinese, Jai Fai lavora da quando è poco più che una bambina. Da giovane cuce e il suo lavoro di sarta la rende felice. È un incendio l’evento che cambierà la sua vita: perde tutto, compresa la fedele macchina da cucire.

Un giorno, racconterà, mentre osserva sua madre cucinare e una fila di clienti in attesa ha una folgorazione. Credi che io non possa farlo? Per tutta la vita ha avuto davanti a sé la madre: la spesa all’alba, le sue ricette, i gesti misurati di chi ha intessuto la sopravvivenza della famiglia fra il mercato e le strade di Bangkok dove si affacciano i tanti che con una padella e un chiosco riescono a trasformare il cibo in un rituale nella città più celebre al mondo per lo street food. Questa volta è lei a mettersi dietro ai fornelli e il suo, nello specifico, è il fuoco vivo che avvolge grandi wok pieni di olio bollente dove si tuffano spaghetti di riso, pesce e verdure fresche comprate ogni giorno negli indimenticabili banchi dei mercati di Bangkok.

All’inizio Jay Fai prepara chicken noodles, kuaitiao khua kai: spaghetti di pollo preparati secondo la consuetudine cinese. In testa non ha che un pensiero fisso, sfamare la famiglia; la sopravvivenza: aiutare chi ama ad avere un’esistenza migliore. È da questo che nasce il coraggio di un pensiero nuovo. “I took a risk“, racconta alle telecamere della serie tv “Street Food”. Decide di correre un rischio e questa espressione, pronunciata in lingua inglese, lascia un sapore differente sulla bocca. Sì, perché se in italiano insieme al rischio si corre, come sulla lama di un rasoio, come il filo di un funambolo teso fra due rocce, in inglese il rischio lo si prende, “I take a risk” dice la corretta costruzione grammaticale: lo afferro, lo tengo fra le mani, accetto di prenderlo come si raccoglie qualcosa da terra, come quando si sorregge qualcuno e gli si tende la mano.

Il rischio è qualcosa che guardo negli occhi,
lo abbraccio
lo prendo, è mio. È una mia scelta

Acquista gamberi e frutti di mare, trasformando i noodles serviti con il solito pollo in un prodotto più ricercato e di qualità. Materie prime più costose, che verranno vendute a prezzi più alti: più prelibatezze, più spesa, più rischio, più guadagno. La fila degli avventori è sempre più lunga, le giornate interminabili.

È una dura vita, lo sanno bene i venditori ambulanti di cibo che in Asia trasformano la strada in una vera e propria casa. Prima dell’alba il mercato è già sveglio; il trasmestio di chi trasporta le merci si mescola ai movimenti leggeri di chi dispone le verdure, in bell’ordine sui banchi di legno insieme ai mazzi di coriandolo fresco appena tagliato, aglio e frutta matura. Ora dopo ora, la strada diventa una cucina all’aperto, dove si impasta, si frigge, ci si saluta e si grida, si attendono i bambini, si sorride e si piange, fianco a fianco in un’esistenza collettiva e multipla dove si condividono odori, istanti, briciole di vite intere.

Anno dopo anno, dallo street cooking diventare chef, sentirsi tale: sperimentare la consapevolezza del proprio valore. “You can be younger, but I’m stronger“, ricorda Jay Fai ai collaboratori. Mi fa sorridere di pura emozione l’immagine di questa donna che prima di iniziare a lavorare si ferma dentro lo specchio per dipingere le labbra di rosso, come un grido di battaglia, e, a oltre settant’anni, di se stessa dice che continuerà a cucinare fino a quando avrà energia.

Nel 2018 la guida Michelin ha premiato le crab omelettes di Jay Fai, celebre per la gustosa frittata di granchio preparata a forma di involtino, arrotolata su se stessa, che da anni ha perfezionato insieme ai frutti di mare serviti con noodles fritti, funghi e spezie fresche. Ma non è questo l’importante. La questione è che non importa come siamo: importa come ci sentiamo. Ciò che importa, e realmente riesce a fare la differenza nelle nostre vite, è il coraggio che ci mettiamo. Cambiare rotta implica un rischio: significa provare a pensare in modo nuovo, deviare dal percorso. Accettare il rischio, come quando si tratta di riformulare una ricetta, scegliere un ingrediente differente, puntare sulla qualità. E non è solo una questione legata al prezzo che c’è da pagare in termini di costi e benefici, bensì qualcosa che va oltre. Amore per la sperimentazione, capacità di ascoltare il proprio istinto, inseguendo l’ispirazione del momento.

Qualche volta accade grazie a noi stessi ma per qualcuno che non siamo noi: forte, fortissima è l’energia che riusciamo a tirar fuori per chi amiamo. Per loro sì, combattiamo, osiamo, andiamo fuori dagli schermi. Rischiamo. È qualcosa di cui Jay Fai non è l’unica a parlare: la famiglia. La sopravvivenza come necessità, rivincita e riscatto; la molla che ti fa alzare la mattina consapevole che dal tuo lavoro dipendono anche altri. Dalle tue battaglie dipende anche la felicità di chi fa parte della tua vita.

Dietro di te c’è chi è venuto prima e ti ha dato l’esempio, davanti a te tutti quelli che verranno.
Oggi sta a te, a me, a noi. Ognuno con la sua giornata da affrontare, ognuno con la sua avventura e la sua visione da costruire.

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Franz Kafka al parco e la bambola viaggiatrice

 

Un anno prima della sua morte, Franz Kafka visse un’esperienza insolita. Passeggiando per il parco Steglitz a Berlino incontrò una bambina, Elsi, che piangeva sconsolata: aveva perduto la sua bambola preferita, Brigida. Kafka si offrì di aiutarla a cercare e le diede appuntamento per il giorno seguente nello stesso giardino. Non essendo riuscito a trovare la bambola, Kafka scrisse una lettera, fingendo che fosse per Elsi da parte di Brigida.
“Per favore non piangere, sono partita in viaggio per vedere il mondo, ti riscriverò raccontandoti le mie avventure…”, così cominciava la lettera.
Per molti giorni, Kafka e la bambina si incontrarono; egli le leggeva queste lettere attentamente descrittive di avventure immaginarie della bambola amata. La bimba ne fu consolata e quando i loro incontri arrivarono alla fine Kafka le regalò una bambola. Era ovviamente diversa dalla bambola perduta; in un biglietto accluso spiegò: “I miei viaggi mi hanno cambiata”.
Molti anni più avanti la ragazza cresciuta trovò un biglietto nascosto dentro la bambola ricevuta in dono. Diceva: “ogni cosa che ami è molto probabile che la perderai, però alla fine l’amore si muterà in una forma diversa“

Da “Kafka e la bambola viaggiatrice” di Jordi Sierra i Fabra

 

Dalle memorie di Dora…

“Quando eravamo a Berlino, Kafka andava spesso allo Steglitzer Park. Talvolta lo accompagnavo. Un giorno incontrammo una bambina, che piangeva e sembrava disperata. Le parlammo. Franz le chiese che cosa le fosse successo e venimmo a sapere che aveva perso la sua bambola. Subito lui si inventò una storia plausibile per spiegare la sparizione. “La tua bambola sta solo facendo un viaggio, io lo so, mi ha scritto una lettera”. La bambina era un po’ diffidente: “Ce l’hai con te?” “No, l’ho lasciata a casa, ma domani te la porto”. La bambina, incuriosita, aveva già quasi scordato le sue preoccupazioni, e Franz se ne tornò subito a casa, per scrivere la lettera.

Si mise al lavoro in tutta serietà, come si trattasse della creazione di un’opera. Era nella stessa condizione di tensione in cui si trovava non appena si sedeva alla scrivania o stava anche solo scrivendo a qualcuno. Tra l’altro, si trattava effettivamente di un vero lavoro, essenziale al pari degli altri, perché la bambina doveva assolutamente essere resa felice e preservata dalla delusione. La menzogna doveva dunque essere trasformata in verità attraverso la verità della finzione. Il giorno successivo portò la lettera alla bambina, che l’attendeva al parco. La bambola spiegava che ne aveva abbastanza di vivere sempre nella stessa famiglia ed esprimeva il desiderio di cambiare un po’ aria, in una parola, voleva separarsi per qualche tempo dalla bambina, cui per altro voleva molto bene. Prometteva tuttavia di scrivere ogni giorno – e Kafka scrisse effettivamente una lettera ogni giorno, raccontando di sempre nuove avventure, le quali, seguendo il particolare ritmo vitale delle bambole, si snodavano in modo rapidissimo. Dopo alcuni giorni la bimba aveva scordato la perdita reale del suo giocattolo e pensava solo e semplicemente alla finzione che le era stata offerta come sostituto. Franz scrisse ogni frase di quella sorta di romanzo in modo così accurato e pieno d’umorismo che la situazione della bambola risultava perfettamente comprensibile: era cresciuta, era andata a scuola, aveva conosciuto altre persone. Rassicurava sempre la bimba del suo amore, ma alludeva anche a complicazioni della sua vita, ad altri doveri e altri interessi che, al momento, non le permettevano di riprendere la vita in comune. La piccola veniva pregata di riflettere sulla cosa e veniva così preparata all’inevitabile rinuncia.

Il gioco durò come minimo tre settimane. Franz aveva una paura terribile al pensiero di come avrebbe potuto finire il tutto. Perché la fine doveva essere una vera fine, vale a dire che doveva consentire all’ordine di sostituire il disordine causato dalla perdita del giocattolo. Cercò a lungo e decise alla fine di far sposare la bambola. Descrisse dapprima il futuro marito, la festa di fidanzamento, i preparativi del matrimonio, poi in ogni dettaglio la casa dei giovani sposi: “Vedi tu stessa che dovremo rinunciare a rivederci in futuro”. Franz aveva risolto il piccolo conflitto di un bambino attraverso l’arte, attraverso il mezzo più efficace di cui disponeva personalmente per riportare ordine nel mondo

Paul Auster nel libro Follie di Brooklyn racconta questo fatto così.

“Secondo la testimonianza di Dora scriveva ogni frase con una cura maniacale del dettaglio, e la sua prosa era precisa, spiritosa e avvincente. In parole povere, era la prosa di Kafka, e lui per tre settimane andò tutti i giorni al parco e scrisse ogni volta una nuova lettera alla bambina. La bambola diventa grande, va a scuola, conosce altre persone. Continua a ripetere alla bambina che le vuole bene, ma allude a certe complicazioni che le rendono impossibile il ritorno. A poco a poco Kafka prepara la bambina per il momento in cui la bambola sparirà dalla sua vita per sempre. Si spreme per creare un finale soddisfacente temendo che se non lo troverà si possa rompere l’incantesimo. Dopo aver vagliato alcune ipotesi, alla fine decise di far sposare la bambola. Descrive il giovanotto di cui lei si innamora, la festa di fidanzamento, le nozze in campagna, perfino la casa dove ora abitano la bambola e suo marito. E poi, nell’ultima riga, la bambola dice addio alla sua vecchia e affezionata amica.

Ma a questo punto naturalmente la bambina non sente più la mancanza della bambola. Kafka le ha dato in cambio qualcos’altro, e alla fine delle tre settimane le lettere l’hanno guarita dal suo cruccio. Lei ha la storia, e quando una persona è abbastanza fortunata da vivere all’interno di una storia, da vivere in un mondo immaginario, i dolori di questo mondo svaniscono. Perché fino a quando la storia continua, la realtà non esiste più”.

Il potere di una storia

L’aneddoto racconta di Franz Kafka e le lettere immaginarie che una bambola in viaggio scrive alla bambina che l’aveva perduta. Di come la perdita si trasforma grazie al potere del racconto: il potere dell’immaginazione.

Il fatto è che la vita ci cambia, ci trasforma. Lungo la strada accade di perdere, ciò che amiamo e perfino noi stessi. La perdita è qualcosa di cui nella vita dovremo fare esperienza, accade a ognuno di noi. Eppure l’arte, che è in fondo è sempre, in ogni sua forma, arte di coltivare l’umano che è in noi, in questo caso riesce a trasformare il racconto di questo dolore in una cosa grande, una cosa nuova: nell’avventura del vivere. Ed è così che le nostre perdite diventano cicatrici del vissuto, cuciture di un ordito dove è ricamato un mondo intero, quello della nostra esistenza.

Com’è stato possibile? C’è voluta immaginazione, questo sì. La fantasia necessaria non solo per trovare le parole giuste, ma anche lo strumento utile in quel momento: il mezzo adatto alla situazione e in grado di essere compreso da una bambina. La lettera diventa il tramite dell’altrove che si trasforma in presenza attraverso l’immagine. Un’immagine che non esiste se non nella forma delle parole, nell’eco che la voce dell’altrove genera in chi ascolta. Le lettere immaginarie che documentano il viaggio della bambola sono il racconto di un viaggiare che anche quello esistenziale: lei parte spinta dalla necessità di rompere con l’abitudine, parte spinta dalla curiosità. Perché c’è sempre un altrove che ci chiama: è una voce che talvolta diventa urlo silenzioso e altre bandiera di una nave che osa salpare. In questo viaggio che è quello della vita noi partiamo da casa, dal conosciuto, per attraversare posti e contesti nuovi; incontriamo persone, facciamo esperienze, cerchiamo e troviamo. Prendiamo decisioni, scegliamo nuovi spazi da abitare. se in una versione del racconto la bambola fa ritorno, nell’altra no. No, non torna perché la finzione a questo è servita: creare una narrazione in grado di compensare la perdita, capace di solcare l’ignoto come un funambolo che si mantiene in piedi sul filo sottile dell’esistere e grazie a quello, passo dopo passo, attraversa il vuoto camminando nel buio di ciò che non sa come sarà.

“La fine doveva essere una vera fine, vale a dire che doveva consentire all’ordine di sostituire il disordine causato dalla perdita”. Sì, un concetto che la semiotica ha snocciolato, come ci ricordano le analisi delle narrazioni fiabesche. Vladimir Propp, linguista e antropologo russo, descrivendo lo schema generale di una fiaba, porta alla luce uno scheletro che va al di là della tradizione russa:

Equilibrio iniziale
Rottura dell’equilibrio
Ristabilimento dell’equilibrio

Il terzo punto, che va verso il ristabilimento dell’equilibrio, è sempre il costituirsi di un ordine nuovo. Non possiamo tornare al punto di partenza, mai. Lo stato A, iniziale, si trasforma, e quello a  cui si arriverà, C, è un equilibrio nuovo, a cui si arriva grazie alle forze entrate in gioco nel percorso. Fra l’equilibrio iniziale e lo stato finale, fra A e C, esiste B: è la zona intermedia, lo spazio della trasformazione. È impossibile passare dal prima al dopo senza la fatica del cambiamento, esso è un passaggio, un transito. Non è uno spazio, ma un tempo, è la parentesi del viaggio in cui ogni cosa che conoscevamo è trascinata via, spesso con violenza estrema.

Ecco perché ci vuole tempo. Insieme al potere dell’immaginazione, il tempo è l’ingrediente che ha permesso il trasformarsi della perdita. Kafka ha incontrato la bambina per tre settimane: ogni giorno una lettera, ogni giorno un racconto che come una tessera va a incastrarsi in un puzzle più ampio. Le storie non sono consolatorie in quanto semplice tentativo di dare una spiegazione. Una storia talvolta non ha spiegazioni. Il tempo è ciò che utilizziamo per andare a ritroso e ritrovare un filo che non sappiamo dove ci condurrà, eppure è lì. Quanto dura il gioco? Tre settimane in questo caso. A volte ci vuole molto di più, a volte non c’è nemmeno una fine. Il fatto è questo: gioco, ludus. Giocare significa prendersi la libertà di vivere il tempo e raccontarselo, cercare un senso, forse non trovarlo nemmeno, eppure proseguire. Immaginare un viaggio, quello della vita, quello dell’esistere. Andare avanti. Tornare ogni giorno in quel posto, il luogo dove tutto è iniziato, e ripartire da lì.

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Quando Pupi Avati voleva fare il musicista

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“Io amavo la musica ma la musica non amava me. Attraverso il cinema invece riesco a dire chi sono. Il mio primo errore è stato quello di aver confuso la passione con il talento. Volevo essere un grande musicista, ma come musicista ho fallito. Ho rimediato con il cinema. Ma ancora oggi vorrei essere un grande musicista”
Pupi Avati, intervista la Repubblica

All’anagrafe Giuseppe Avati, nasce a Bologna il 3 novembre 1938: Pupi Avati, figlio di antiquario, sarà conosciuto come regista, grazie alla poesia delle immagini capaci di ritrarre le atmosfere più intime di Bologna, il volto della gente, i suoi passi nel tempo. Ma non sempre si ricorda la sua passione per la musica. Dal 1959 al 1962 Pupi Avati fa parte della Doctor Dixie Jazz Band; a fargli rinunciare il sogno di una carriera nel jazz come clarinettista sarà l’ingresso nella band di Lucio Dalla, che come racconterà, si dimostrò più bravo di lui. Sì, perché quel musicista che sembrava modesto non lo preoccupava all’inizio, si legge fra le pagine dell’autobiografia di Pupi Avati “Sotto le stelle di un film“. Poi sarà quella che Pupi Avati chiama “duttilità, una predisposizione, una genialità del tutto impreviste” a metterlo nell’angolo. Dalla non è solo bravo, ha la musica nel sangue e forse è proprio così che si scopre un dono. Il talento si esprime in campi diversi, ma è ciò che viene naturale, spontaneo come una sorgente: ikigai, si direbbe in Giappone. Quando ci muoviamo in quel territorio allora riusciamo a diventare fluidi, duttili, capaci di cambiare e assecondare il ritmo, dimenticare la tecnica e danzare con estro. Purtroppo in quel territorio pochi di noi vivono stabilmente, anzi per scoprirlo servono anni di tenacia e pazienza, a volte tutta una vita.

Pupi Avati e il cinema

Nei quattro anni successivi Pupi Avati lavora come rappresentante per i surgelati Findus: anni che definirà i peggiori. Eppure, nel frattempo trama i suoi sogni, ne tesse una tela con cui evadere dalla frustrazione, per farne un tappeto magico con cui immaginare la realtà e viaggiare nella memoria, volare oltre. Nel 1970 grazie a un misterioro finanziatore gira due film, Balsamus, l’uomo di Satana e Thomas e gli indemoniati. Nell’arco della vita i momenti di difficoltà non sono mancati, come quando resta disoccupato per quattro anni: mi consideravo un fallito, racconterà di quel periodo. Nel 2018 ha festeggiato 80 anni e nel 2019 è atteso il suo 50esimo film, Il signor diavolo. Ma questa è un’altra storia. È già storia.

Del suo lavoro ha detto che ama più raccontare tutte le volte in cui è inciampato che i successi, perché è lì che ci si riconosce di più: il dolore è una via per la conoscenza. A proposito, il clarinetto invece lo porterà con sé sempre, tutta la vita: ogni sera qualche nota, un momento di meditazione e di sogno, dice. Perché in fondo dentro ognuno di noi vive ancora l’adolescente che siamo stati, i nostri sogni camminano con noi. Giorno dopo giorno.

A volte un fallimento è quello che ci permette di trasformare il viaggio della nostra vita e andare verso nuovi orizzonti

Qual è il tuo miglior fallimento?




Il miglior fallimento

 

Fallimento: insuccesso, esito negativo / Dizionario della Lingua Italiana Palazzi Folena (1992). In lingua italiana la parola fallimento è anche, in termini giuridici, la condizione dell’insolvenza che segna la resa di un imprenditore di fronte all’impossibilità di pagare i creditori. Disfatta. Mancare il bersaglio, sbagliare, fallire.

Il verbo fallire in lingua latina è fallere: ingannare, trarre in errore, venir meno, sbagliare. Dentro ci si ritrova l’impatto forte, qualche volta devastante, dell’errore di valutazione, lo stesso che ci fa inciampare di fronte a un ostacolo da poco, a prima vista, che invece si rivela ostico. Una salita che nasconde una montagna difficile da scalare; uno scoglio che si rivela così liscio da farci precipitare all’improvviso, giù dritti nella bocca spalancata dell’abissimo. L’errore di valutazione pesa come un macigno e ci appesantisce perché diventa il sassolino nella scarpa dello sbaglio che portiamo dietro, ce lo trasciniamo come un’amarezza repressa e incastrata nei giorni.

Ho provato, ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò meglio
Samuel Beckett

Un amico italiano mi racconta della sua paura del fallimento, quella che sta dietro un progetto tante volte sognato. Partita iva, tasse, progetti, ansia, curriculum, gli occhi degli altri puntati. Il fallimento, la paura di una macchia. Mi racconta di essersi confrontato con degli amici americani. Fallimento, perché? Ci hai provato, dicono loro; questa nel caso sarebbe una parte da sottolineare nel curriculum, non da tacere. Sì, perché significa che adesso, grazie a quello che è successo, ne sai di più rispetto a prima. Hai iniziato a calare i sogni nella realtà, hai osato, cercato informazioni, ti sei confrontato con la burocrazia, conosci meglio i nemici: hai accumulato esperienza.

Il punto è proprio questo, in mezzo c’è l’insuccesso. Vivere un insuccesso non è bello, non risulta granché piacevole, è vero, eppure contiene anche tutto il valore di ciò che è accaduto, qui, nel mondo, e dentro di noi. Ho vissuto, ho cercato, ho camminato. Passo dopo passo.
Le persone che si applicano alla scienza sono abituate a trattare il fallimento perché sanno che dietro un esperimento riuscito esistono mille, milioni di tentativi fatti in precedenza, essi coesistono. L’esperimento che farà esultare non vive da solo, è fatto di tutte le prese di coscienza che si stratificano, tutte le azioni disperse al bivio sbagliato, tutti gli inciampi. Che in fondo, non si tratta di perdersi al bivio sbagliato, quanto più di esplorare strade differenti e poco alla volta creare la mappa di questo intricato, immenso e vario labirinto del vivere. Nelle nostre scelte di ogni giorno portiamo scritte sulla pelle le strade percorse, il viaggio fatto fino ad oggi, le cadute e i nuovi orizzonti che abbiamo voluto.

Se il fallimento è inganno, caduta nella trappola, allora la presa di coscienza è un atto di consapevolezza che mi permette di vedere in ciò che è accaduto il senso di quello che ho vissuto, ciò che mi serve per respirare di nuovo, alzarmi, prendere dalla vita quello di cui ho bisogno. Sarà forse per questo che potremmo iniziare a guardare con più simpatia un verbo negletto e trascurato, una parola che quasi sempre diciamo sospirando e, anzi, abbiamo quasi dimenticato, sostituendola con altri sinonimi: erro. L’errante nelle favole antiche aveva la sagoma del personaggio magico: pellegrino e viandante, vagabondo sacro, faceva del viaggio ragione di vita, in senso fisico ed esistenziale. Oggi il mito diventa paura, pazzia di un clochard da rinchiudere. Eppure erro, che è “andare errando”, “vagare qua e là”, ci insegna che prima dello sbaglio esiste il coraggio della libera esplorazione, quella capacità di “discostarci dalla retta via / Vocabolario della Lingua Latina IL / che a volte ci fa cadere in errore, è vero, ma soprattutto ci insegna a camminare nell’incertezza, con curiosità; uscire dal seminato, nelle azioni e nei discorsi, correre il rischio di smarrirci e osare. Osare esplorare, osare pensare, osare fiutare la nostra direzione e come un segugio andare-verso, correre, seguire l’istinto, tornare indietro, scoprire nuovi odori, sommare le tracce, districarsi, ferirsi, andare a caccia di ciò che vogliamo, ciò che non basta, non accontentarsi. Continuare a cercare.

La mappa della nostra vita sovrappone le strade fatte a quelle ancora da percorrere grazie alle tracce di ciò che abbiamo imparato nel percorso.

Qual è stato il mio miglior fallimento? Quali sono stati i fallimenti da cui ho imparato di più nella vita? Tracciando la mappa della nostra vita dovremmo forse usare un colore diverso per tutti i bivi che ci hanno portato a esplorare altre strade, quelli in cui abbiamo incontrato un ostacolo, quelli dove ci siamo fermati e abbiamo dovuto inventare nuove soluzioni. Celebrarli, guardarli; scriverci sopra un simbolo, che so un semaforo, una valigia, un tesoro, perché quelli sono stati attimi duri, momenti che spesso quasi ognuno di noi non vorrebbe rivivere, eppure è grazie a questi se oggi siamo sopravvissuti alla nostra storia.

Ripensi mai ai tuoi fallimenti?

Il miglior fallimento è quello che ci fa ripartire da capo, guardare un altro orizzonte, inventare una nuova direzione, riscoprire odori e sensazioni mai provate prima, dare alle cose e alla vita un nome a cui non avevamo ancora pensato. Il miglior fallimento apre le porte al vero cambiamento.

Storie di fallimenti, di sogni e cambiamento
Quando Pupi Avanti voleva fare il musicista




L’altrove è un atto di immaginazione

Davanti all’orizzonte siamo piccole matite pronte a scrivere la nostra storia. Di fronte allo stato orizzontale emerge la nostra verticalità. Il fare. L’andare.
Siamo tutti viaggitori di passaggio in questa esistenza dai paesaggi mutevoli. Attraversiamo deserti di incomprensione per andare ancora più avanti; impariamo fin da piccoli a sbucciarci le ginocchia e grattare via le croste. Se siamo fortunati qualcuno ci insegnerà a onorare e amare le nostre cicatrici visibili e invisibili.

Davanti all’orizzonte siamo piccole matite scriventi. Quale forma vogliamo dare alla nostra immaginazione? Perché di questo si tratta: esistono desideri chiusi nel cassetto e idee che facciamo volare. Le ali dell’immaginazione quando atterrano sulla terra diventano progetti. Appoggiati sui rami di un albero come rondini in cerca del prossimo orizzonte acquistano respiro.

Abbiamo sempre continuato a cercarlo, questo altrove infinito.
Questa Atlantide.

È il modo in cui avanziamo nella vita, che ci ha portato a scoprire continenti, esplorare geografia sconosciute, scoprire nuove cose ascoltando la mente, il cuore, i reni, ogni parte di questo organismo senziente




La fine di una storia

 

 

« Dicono che è andata così », concluderà Nushiño sputando un’ultima volta prima di andarsene, perché gli shuar si allontanano sempre quando hanno finito una storia, per evitare le domande generatrici di bugie.

Luis Sepulveda, Il vecchio che leggeva romanzi d’amore. Guanda, 1999, pagina 120

 

Alla fine di una storia allontanarsi per evitare le domande generatrici di bugie. Lasciarla così, le parole liberate nell’aria ad agitarsi come falene inquiete attorno alla luce, quella del senso che vorremmo chiedere, indagare, grattare via. Non sempre è possibile dare risposte, anzi il più delle volte non lo è. Nel tentativo spesso si fanno spallucce, si danno pacche sulle spalle, considerazioni abbozzate, consolazioni maldestre dell’inconsolabile.

E allora allontanarsi consapevolmente alla fine di una storia diventa un atto di coraggio, orgoglio. Forza interiore. Capacità di tenere per sé, dentro, il metabolismo che ha bisogno di tempo. Lasciar andare l’altro e avvicinarsi a sé è genera l’energia immensa che viene dal saper lasciare a ognuno la sorte di quella storia, la libertà del proprio pensiero, il silenzio necessario alle parole per radicarsi e nel profondo fiorire come semi, nel buio della coscienza che rimane sola con se stessa. Nella solitudine impariamo a camminare, ognuno con il proprio passo.

Ogni domanda è sempre generatrice di bugie. Lo è in anticipo, lo è per il naturale tendere al voler prendere; un desiderio che mettiamo nelle mani dell’altro, è a lui che chiediamo spiegazione, accumulando interpretazioni. E allora diventa restituzione libera questo sottrarsi che è capacità di sfuggire, ridare all’altro libertà, autonomia. Non c’è bisogno di commentare, alla fine di una storia imparo ad andarmene.




Il buio

Era come dicono gli shuar: di giorno c’è l’uomo e la foresta. Di notte l’uomo è la foresta

Luis Sepulveda, Il vecchio che leggeva romanzi d’amore
Guanda, 1999, pagina 99