A piedi sul Cammino di Santiago di Compostela

Puente Portomarin

Da almeno duemila anni i pellegrini percorrono i sentieri che compongono il Cammino di Santiago di Compostela, una delle strade più antiche al mondo, che si snoda attraverso Francia, Spagna e Portogallo. Camminiamo sulle orme di chi è venuto prima di noi, inconsapevoli del bagaglio che ciascun viaggiatore nei secoli ha portato in questi luoghi dove il tempo sembra essersi fermato.

Ognuno porta il suo bagaglio di pensieri e sogni: uno zaino che a dire il vero oggi si può spedire fino alla fermata successiva, ma che di solito ogni backpacker ama portare sulle spalle perché diventa casa e chiocciola. Preparato con cura e parsimonia (ogni chilo sarà sulle spalle!) lo zaino è compagno di viaggio, insieme alle scarpe, anche queste fondamentali. Quando si tratta di percorrere venti o trenta chilometri al giorno all’improvviso il corpo, che di solito siamo abituati ad avvolgere nelle comodità, torna a essere protagonista: fatica, fame, dolore e piacere.

La dimensione fisica acquista presenza, perché il viaggio a piedi è misura dell’umano: passaggio lento, ognuno portato dal ritmo del proprio piede. Camminando immersi nella natura riscopriamo la meraviglia, il silenzio immenso, l’incontro che è sguardo nello sguardo. Viaggio slow per assaporare il mondo in lentezza.

Nell’andare traggo forza
da ciò che porto,
ciò che lascio e
ciò che decido di tenere con me.
Il peso diventa
zaino che carico sulle spalle
dove riporre
l’intenzione per il mio futuro
il desiderio dell’orizzonte
che muove
un passo dopo l’altro
il mio cuore

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La storia di San Giacomo

Questo percorso millenario è legato alla figura di San Giacomo: decapitato in Palestina, la Legenda Aurea racconta che il suo corpo percorse il mare fino ad approdare in Galizia, trasportato su una barca guidata da un angelo. I testi medievali narrano che Giacomo di Zebedeo venne sepolto in un bosco di fronte alla distesa marina, nei pressi del porto romano di Iria Flavia. Poi il tempo si chiude su se stesso e del luogo nessuno riesce più a ritrovare traccia, offuscata dalla vegetazione e celata dal segreto degli anni che passano inesorabili. Il ritrovamento di una tomba nel IX secolo accende di nuova luce la memoria di San Giacomo, figlio di pescatori, che oggi troneggia all’interno della cattedrale di Santiago de Compostela dedicata al santo, la cui costruzione inizierà nel 1075.

La tradizione riporta, infatti, di avvistamenti mai cessati. Segni, come la visione luminosa intravista dal mistico anacoreta Pelagio nell’830 nelle aree che forse nascondono resti antichi villaggi celtici. Questo luogo verrà chiamato campus stellae: campo della stella, l’attuale Santiago de Compostela. Il re delle Asturie Alfonso II il Casto ordina la costruzione di un luogo sacro, che dall’893 verrà abitato dai monaci benedettini. Ma la presenza di Giacomo non smette di aleggiare sulla storia dei vivi, tanto da apparire sui campi di battaglia alla guida dell’esercito cristiano durante la reconquista nell’840. Sarà detto Matamoros, colui che uccide i mori, simbolo terribile dell’epoca crociata. Distrutta e ricostruita, la cattedrale nei secoli continuerà a vivere e accogliere i pellegrini di passaggio.

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Viaggio a piedi a Santiago de Compostela

Dichiarato Patrimonio dell’Umanità nel 1987, Santiago di Compostela è attraversato dal fiume Tambre e si trova di fronte alla vasta immensità dell’oceano Atlantico. La memoria del mare è una traccia che questo luogo porta nella sua storia e forse non a caso la storia lo fissa nel nome del mistico Pelagio, colui che scopre questa terra, la cui radice etimologica riporta al significato legato all’acqua: “pelago”, mare profondo, mare aperto. Compostela, conchiglia, è anche il simbolo del cammino.

Nota come pettine di mare o pettine di San Giacomo, è il segno di riconoscimento del viaggiatore: segno di rinascita, purificazione e protezione, tradizionalmente si riconsegnava a Cabo Fisterra, Finisterre, il promontorio sull’Oceano Atlantico nella Costa da Morte dove sembra fosse situata, qui davanti all’infinito oceano mare, l’Ara Solis per la celebrazione dei riti dedicati al sole. Nella mitologia celtica gli eroi intraprendevano l’ultimo viaggio nell’insondabile spazio eterno al di là di queste rocce, mentre le donne si inginocchiavano a pregare per la fertilità. Vita e morte, pericolo e salvezza, acqua e terra, finito e infinito: nel mistero azzurro si rinnova l’andare umano. Dietro una storia troviamo una molteplicità di altre storie, come rivoli di un fiume che tutto trascina nella sua corrente senza fine: sotto ai nostri passi risuonano altri passi, più antichi e cancellati dalla polvere eppure ancora parlanti, ancora capaci di narrare storie che bisbigliano nel silenzio.

Chi ha percorso questi sentieri sa quanto la meta sia un luogo disegnato da una semplicità quasi ascetica, rigore dell’anima. Le strade scavate in un paesaggio che si distende al sole, fra boschi e piccoli villaggi, portano nei vasti prati dove una piccola cappella di pietra accoglie i viandanti. È l’andare che fa il viaggio, non la meta. Alla fine, ci si ritroverà, seduti a godere un raggio di sole, più forti di quando si è partiti. Incredibilmente, più riposati e ricaricati dalla fatica e da quell’indomita forza che scopriamo solo quando ci mettiamo alla prova.

Preghiera del pellegrino

Quand’anche avessi percorso tutti i sentieri,
superato montagne e valli da est a ovest,
se non ho scoperto la libertà di essere me stesso,
allora non sono ancora arrivato.

Quand’anche avessi condiviso tutti i miei beni
con persone di altre lingue e culture;
quand’anche avessi per amici dei pellegrini dell’altra parte del mondo
e dormito negli stessi alloggi dei santi e dei principi,
se, domani, non sono capace di perdonare al mio vicino,
allora non sono ancora arrivato.

Quand’anche avessi portato il mio sacco dal primo all’ultimo giorno e sostenuto i pellegrini a corto di forze,
o ceduto il mio letto a qualcuno arrivato dopo di me,
donato la mia borraccia senza alcuna contropartita,
se, di ritorno a casa e al lavoro non sono capace di seminare attorno a me la fratellanza, la felicità, l’unità e la pace,
allora non sono ancora arrivato.

Quand’anche avessi ogni giorno mangiato e bevuto a sazietà,
a disposizione tutte le sere un tetto e una doccia,
ricevuto delle cure per le mie ferite,
se non ho visto in tutto questo l’amore di Dio,
allora non sono ancora arrivato.

Quand’anche avessi visitato tutti i monumenti
e ammirato i più bei tramonti,
imparato a dire buongiorno in tutte le lingue,
gustato l’acqua di tutte le fontane,
se non ho indovinato chi è Colui che, senza nulla attendere in cambio, mi offre tanta bellezza e tanta pace,
allora non sono ancora arrivato.

Se adesso smetto di camminare sulla tua strada,
di proseguire la mia ricerca e di vivere in coerenza con ciò che ho imparato; se, d’ora in avanti, non vedo in ogni persona, amico o nemico, un compagno di strada;
se, ancora oggi, il Dio di Gesù di Nazareth
non è per me il solo Dio della mia vita,
allora non sono ancora arrivato.
[preghiera di Fratello Dino]

Sembra che questa preghiera sia stata trovata in una delle tappe lungo il Cammino di Santiago di Compostela, nella chiesetta romanica di S. Maria La Real a O Cebreiro. Non l’ho vista con i miei occhi, l’ho trovata fra le maglie di questa grande rete che è internet, dove ognuno di noi lascia frammenti di sé e del suo viaggio nella vita. Fedelmente riporto i nomi di chi l’ha trovata: Peter e Florence van der Heijde, e del traduttore Giacomo Tessaro.

Le immagini sono fotografie scattate da Lina Brambina, viandante e guida, che insieme a Luisella ha accompagnato il gruppo di ragazzi dell’ITC Tosi di Busto Arsizio, coraggiosi viaggiatori partiti dalla Lombardia alla scoperta di un angolo di mondo e di se stessi.

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Iglesia de San Pedro de Portamarín

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Mesón A Brea

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La Fuente del Peregrino

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La Biblioteca “Gino Pallotta” di Fregene

Dal diario di bordo di Alessia Moricci

Ogni volta che mi capita, abbastanza spesso per fortuna, di varcare la soglia della Biblioteca “Gino Pallotta” di Fregene, sento di fare una cosa buona e giusta, buona per me, perché posso partecipare ad eventi culturali sempre di notevole spessore, che mi arricchiscono umanamente ed intellettualmente, e giusta perché la Biblioteca si trova in una villa confiscata ad un boss, per cui mi vengo a trovare in un luogo in cui Cultura e Legalità hanno preso il posto della mafia, e questa è un vittoria per tutti.

La Biblioteca “Gino Pallotta” si trova a Fregene in Via della Pineta, la strada che, per chi arriva nella cittadina, conduce direttamente al mare, da cui dista meno di un kilometro. L’edificio in cui è collocata, come dicevo, è una villa di 250 mq, circondata da un ampio giardino e disposta tutta su un piano.

Quando nasce la Biblioteca “Gino Pallotta” di Fregene?

La Biblioteca nasce nel 1995 da un gruppo di amici appassionati di lettura e viene intitolata a Gino Pallotta, giornalista ideatore del premio culturale “Premio Internazionale Fregene di Giornalismo, Letteratura e Divulgazione scientifica”. Il fondo originario, di 900 libri, comprende una copia di tutti i volumi ricevuti dalla Segreteria del Premio Fregene durante la sua attività. In origine ha sede all’interno di un villino liberty su due piani, situato all’ingresso di Fregene. A gestirla sono un gruppo di volontarie e volontari, che imparano ad amministrare la struttura e a catalogare, a fare il prestito, implementare la collezione di libri e a instaurare rapporti professionali con gli utenti.

Nel 2010 si costituisce la “Associazione Culturale Biblioteca Gino Pallotta di Fregene”. Nel frattempo, grazie alle donazioni librarie di soci ed utenti, il patrimonio si incrementa sempre di più e il numero di Bibliotecari volontari raggiunge le 12 unità. Quattro Bibliotecarie si iscrivono al corso online e conseguono l’attestato di BiblioFaD, organizzato da BAICR cultura della relazione e Biblionova società cooperativa. Grazie ad esso, le Bibliotecarie possono procedere alla catalogazione dei libri in sbn web. Nel 2010 si avviano anche le procedure per l’adesione della Biblioteca al Servizio Bibliotecario Nazionale (SBN) e l’inserimento nel Polo Comune di Roma (RMR).

Dalla Banda della Magliana a Casa della Cultura

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Nel 2016 il Comune di Fiumicino destina un’abitazione sequestrata ad un esponente della criminalità organizzata, (Giuseppe De Tommasi, ex Banda della Magliana) a “Casa della Cultura”, e decide di ospitarvi la nuova sede della Biblioteca, che viene inaugurata dopo un opportuno restauro nell’aprile dello stesso anno. Anche dopo il trasferimento, tutto lo staff della Biblioteca continua ad operare a titolo volontario e gratuito, con grandi meriti e ottimi risultati. Configurata come Biblioteca di pubblica lettura, la Biblioteca “Gino Pallotta” è divenuta un punto di riferimento culturale di rilievo nel territorio di Fiumicino, con un patrimonio librario di circa 20.000 volumi accessibili a tutti, previa iscrizione gratuita.

Da maggio 2019 la Biblioteca Gino Pallotta di Fregene è diventata plastic-free: le Bibliotecarie hanno deciso di aderire alle nuove norme europee, da attuare entro il 2021, per contrastare la diffusione dei 10 prodotti di plastica monouso che più inquinano le spiagge e i mari d’Europa, acquistando stoviglie compostabili e biodegradabili per i consueti spuntini allestiti al termine degli eventi.

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Tra i molti eventi che la Biblioteca ha ospitato, ricordo in particolare la presenza di Dacia Maraini, Lia Levi, Biancamaria Frabotta, Federica Angeli, Marcello Teodonio, Giovanni Tizian, Ritanna Armeni, e le affollatissime conferenze di storia dell’Arte di Sandro Polo.
Per concludere questo viaggio a Fregene, vi mostro un video di promozione della lettura a cura della Biblioteca Pallotta.

 

Il patrimonio della Biblioteca “Gino Pallotta” di Fregene

Sono circa 20.000 i volumi disponibili nella biblioteca, con sezioni specializzate sulle tematiche relative a: Arte, Storia, Saggistica, Narrativa, Libri per bambini e adolescenti
Prestiti: media annuale di circa 15.000 documenti
Eventi: 40 eventi annuali, circa, fra cui: presentazioni di libri alla presenza dell’autore, eventi musicali, mostre, proiezioni di film, corsi a tema (fra cui lezioni di bridge). Alcuni sono organizzati in collaborazione con il Comune di Fiumicino e/o con Associazioni culturali, Artisti, ecc.

Tra le iniziative organizzate vi è il concorso letterario “Scrittori di classe” riservato agli alunni delle scuole medie del territorio (8 edizioni). Il Premio consiste nella pubblicazione di un libro con i 20 componimenti migliori e 100 euro da spendere in libri ad ogni vincitore. Il Concorso prevede inoltre l’elaborazione di un disegno: il migliore sarà l’immagine della copertina del libro.

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Biblioteca “Gino Pallotta” di Fregene: organigramma

Direttrice: Federica Ricci Del Riccio
Consiglio Direttivo: Presidente Giovanni Bandiera, Vice Presidente Marina Pallotta, Tesoriere Filippo Gammarelli, Segretaria Laura Battisti. Membri : Silvana Boscolo, Silvana Nardelli
Bibliotecarie: Laura Battisti, Silvana Boscolo, Giovanna Di Maio, Patrizia Ercolani, Regina Filippi, Silvana Nardelli, Pia Natalini, Donatella Narder, Giulia Manca di Mores, Anna Maria Paccasassi, Marina Pallotta, Federica Ricci Del Riccio.

Biblioteca “Gino Pallotta” di Fregene: orari

da lunedì a sabato 17.00 > 19.30 orario estivo (1 giugno – 15 settembre)
giovedì 9.30 > 12.30

da lunedì a sabato 16.00 > 19.00 orario invernale (16 settembre – 31 maggio)
giovedì 9.30 > 12.30

La Biblioteca “Gino Pallotta” si trova in Viale della Pineta 140 a Fregene.
Contatti: 06\65210745 – 06\65210744; bibliofregene@libero.it
Puoi trovare ulteriori informazioni sul sito web della biblioteca Pallotta

Che cosa fa nella vita Alessia Moricci?

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Sono una bibliotecaria e mi interesso non solo di libri e promozione della lettura, ma di cultura a 360°. Amo visitare mostre, musei, ascoltare la musica, il teatro, il cinema, da alcuni anni partecipo come organizzatrice al cineforum “Cnema per noi”, dell’Associazione culturale “L’Albero” di Maccarese. Partecipo spesso alle iniziative presenti sul territorio, da Santa Marinella, a Cerveteri, Ladispoli e Fiumicino. Durante gli incontri, che spesso hanno luogo in biblioteche, mi piace farmi trascinare in altri mondi attraverso le parole sapienti degli autori, artisti e relatori. Credo nel potere “terapeutico” delle parole e nella bellezza, che ci salva costantemente ogni giorno dalle brutture di questo mondo, basta ascoltare.

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Pieve Santo Stefano: Piccolo Museo del Diario e Fondazione Archivio Diaristico Nazionale

Ogni viaggio inizia da un punto di partenza diverso da quello precedente

 

di Daniela Lamponi

Questo diario di bordo ha avuto inizio dal desiderio condiviso di tre amiche di visitare il Piccolo Museo del Diario a Pieve Santo Stefano (AR). Così una mattina di giugno, lasciandoci alla spalle il Lago di Bracciano, siamo partite.

Prima tappa: Anghiari, conosciuta per la famosa battaglia che vi ebbe luogo nella metà del 400 coinvolgendo il Ducato di Milano e la coalizione formata dalla Repubblica di Firenze, Venezia e dallo Stato Pontificio. La battaglia fu vinta dai Fiorentini. Leonardo ne realizzò una pittura murale per Palazzo Vecchio a Firenze che rovinandosi con il tempo fu ricoperta dall’affresco di Vasari raffigurante La battaglia di Marciano della Chiana. Ad Anghiari ha sede la Libera Università dell’Autobiografia (http://lua.it/) fondata da Duccio Demetrio e Saverio Tutino, ma di questa e della sua biblioteca comunale, chissà, forse ve ne parlerò in un futuro non ben identificato.

Assurdità o sacrosanta verità?

Quando sono in movimento, tra i primi luoghi che vado a cercare in un posto nuovo c’è la sua biblioteca. Per alcuni può risultare un’assurdità e per altri una sacrosanta verità. Una biblioteca ci dice molto di cosa accade in un territorio, di come si muove quella che definisco ‘la Cultura dal basso’ e del valore che l’Amministrazione le riconosce. La Biblioteca Comunale di Pieve non mi ha potuto accogliere perché chiusa per ferie: spero di poterci ripassare a settembre in occasione del Premio Pieve 2019.

‘Io posso darle un risarcimento: la memoria storica nazionale’

La storia che sto per raccontarvi è fatta di persone, circa 8.200, delle loro vite e delle loro emozioni e come è ovvio che sia, una storia del genere difficilmente potrà essere dimenticata… almeno da me. La premessa è che Pieve trovandosi nella zona della Linea Gotica fu pressoché rasa al suolo dai tedeschi durante la II Guerra Mondiale. Alla fine del conflitto, del passato rimanevano due chiese e una parte del palazzo pretorio.

Era il 1984 quando Saverio Tutino, giornalista e scrittore, e Pietro Minelli, Sindaco, si incontrarono a Pieve. Giacomo Benedetti, referente Piccolo Museo, una sorta di Caronte che ci ha traghettato per circa 1 ora e mezzo tra cassetti, foto, lenzuola, voci, vite, riferendosi a questo incontro ci ha raccontato che Saverio disse: “Sindaco, Pieve ha completamente perso la memoria. Io, se vuole, posso darle un risarcimento e il risarcimento è la memoria storica nazionale.” Il Sindaco Minelli accettò la proposta, riuscendo a vederne il significato profondo, lasciando i suoi uffici al Museo e diventando una sorta di Sindaco ‘itinerante’. Da quell’incontro è nato l’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano.

Mentre ascoltavo questo aneddoto non ho potuto fare a meno di immaginare questi due uomini che la vita aveva fatto ritrovare, a quello che le loro scelte hanno significato per la memoria dell’Italia, alla forza della loro visione e al loro coraggio.

Piccolo museo del Diario

“Il Piccolo museo del diario è un intenso percorso multisensoriale e interattivo nato per raccontare l’Archivio Diaristico Nazionale e le preziose testimonianze autobiografiche che esso conserva. Un percorso museale che accoglie il visitatore in maniera coinvolgente e innovativa e lo conduce per mano attraverso le scritture di persone comuni che hanno raccontato la storia d’Italia da un punto di vista assolutamente inedito.”

Visitare il Piccolo Museo è stato come trovare un tesoro racchiuso in migliaia di pagine e non solo (v. Clelia Marchi, 1912-2006, che scrisse su un lenzuolo matrimoniale). E’ un tesoro fatto di vite, di emozioni, di verità.

 

 

La memoria storica arriva senza filtri, senza censura. E durante la visita le storie prendono vita davanti allo spettatore. Aprendo cassetti si inizia ad ascoltarne il racconto oppure a vederne i protagonisti come se tutto fosse sospeso nel tempo e nello spazio.

 

 

 

 

 

 

La storia di Vincenzo Rabito (1899-1981) è sicuramente una di quelle che restano impresse e a lui è dedicata una stanza del Piccolo Museo. Siciliano semi-analfabeta, ad un certo punto della sua esistenza prese una macchina da scrivere ed iniziò a ritrovare le fila della sua vita. Una vita senza spazi le parole sono scritte consecutivamente, una catena di caratteri che si inseguono sui fogli. Il suo diario è stato poi ritrovato dai familiari e pubblicato da Einaudi.

 

 

 

 

Premio Pieve

“Cercate nelle soffitte e nei cassetti i carteggi d’amore dei nonni, le lettere d’emigrazione, i taccuini dalle trincee di guerra, il diario di un vecchio antenato, inviateci le pagine personali che avete scritto durante la vostra vita, le memorie autobiografiche di eventi passati, ma anche i vostri diari intimi giovanili: raccoglieremo questo materiale in una sede pubblica e lo metteremo a disposizione delle generazioni future. Naturalmente cerchiamo documenti autentici, non rielaborati né corretti da altri. Gli scritti inediti che perverranno entro il 15 gennaio di ogni anno potranno anche partecipare gratuitamente alla selezione del Premio Pieve che prevede per il vincitore un premio in denaro e la pubblicazione con l’editore Terre di mezzo.”

La 35esima edizione si terrà dal 12 al 15 settembre 2019.

All’interno del Museo è disponibile la biblioteca della fondazione dove è possibile trovare tutti i diari pubblicati fino ad oggi.

Perché no

Se ti è venuta voglia di: partire per Pieve, partire per Pieve con i tuoi alunni, inviare il tuo diario, inviare lo scritto di tuoi familiari ritrovato in un cassetto o dentro un materasso, condurre delle ricerche, sostenere questo progetto con una donazione, qui troverai tutte le info per approfondire

https://www.piccolomuseodeldiario.it/

http://www.archiviodiari.org/index.php/home/25-larchivio/640-come-inviare-il-proprio-diario.html

Per chi riuscirà ad esserci, ci si vede al Premio Pieve!




Jay Fai, chef a Bangkok. Ovvero prendere il rischio della propria vita

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Il suo vero nome è Supinya Junsuta, ma tutto il mondo la conosce come Jay Fai. Il suo è uno dei posti più famosi dove mangiare a Bangkok e nel 2018 è stata premiata con una stella Michelin.

Da oltre quarant’anni Jai Fai cucina, ogni giorno fino a tarda notte. Come inizia la sua storia? Nata nel 1945 da una famiglia cinese, Jai Fai lavora da quando è poco più che una bambina. Da giovane cuce e il suo lavoro di sarta la rende felice. È un incendio l’evento che cambierà la sua vita: perde tutto, compresa la fedele macchina da cucire.

Un giorno, racconterà, mentre osserva sua madre cucinare e una fila di clienti in attesa ha una folgorazione. Credi che io non possa farlo? Per tutta la vita ha avuto davanti a sé la madre: la spesa all’alba, le sue ricette, i gesti misurati di chi ha intessuto la sopravvivenza della famiglia fra il mercato e le strade di Bangkok dove si affacciano i tanti che con una padella e un chiosco riescono a trasformare il cibo in un rituale nella città più celebre al mondo per lo street food. Questa volta è lei a mettersi dietro ai fornelli e il suo, nello specifico, è il fuoco vivo che avvolge grandi wok pieni di olio bollente dove si tuffano spaghetti di riso, pesce e verdure fresche comprate ogni giorno negli indimenticabili banchi dei mercati di Bangkok.

All’inizio Jay Fai prepara chicken noodles, kuaitiao khua kai: spaghetti di pollo preparati secondo la consuetudine cinese. In testa non ha che un pensiero fisso, sfamare la famiglia; la sopravvivenza: aiutare chi ama ad avere un’esistenza migliore. È da questo che nasce il coraggio di un pensiero nuovo. “I took a risk“, racconta alle telecamere della serie tv “Street Food”. Decide di correre un rischio e questa espressione, pronunciata in lingua inglese, lascia un sapore differente sulla bocca. Sì, perché se in italiano insieme al rischio si corre, come sulla lama di un rasoio, come il filo di un funambolo teso fra due rocce, in inglese il rischio lo si prende, “I take a risk” dice la corretta costruzione grammaticale: lo afferro, lo tengo fra le mani, accetto di prenderlo come si raccoglie qualcosa da terra, come quando si sorregge qualcuno e gli si tende la mano.

Il rischio è qualcosa che guardo negli occhi,
lo abbraccio
lo prendo, è mio. È una mia scelta

Acquista gamberi e frutti di mare, trasformando i noodles serviti con il solito pollo in un prodotto più ricercato e di qualità. Materie prime più costose, che verranno vendute a prezzi più alti: più prelibatezze, più spesa, più rischio, più guadagno. La fila degli avventori è sempre più lunga, le giornate interminabili.

È una dura vita, lo sanno bene i venditori ambulanti di cibo che in Asia trasformano la strada in una vera e propria casa. Prima dell’alba il mercato è già sveglio; il trasmestio di chi trasporta le merci si mescola ai movimenti leggeri di chi dispone le verdure, in bell’ordine sui banchi di legno insieme ai mazzi di coriandolo fresco appena tagliato, aglio e frutta matura. Ora dopo ora, la strada diventa una cucina all’aperto, dove si impasta, si frigge, ci si saluta e si grida, si attendono i bambini, si sorride e si piange, fianco a fianco in un’esistenza collettiva e multipla dove si condividono odori, istanti, briciole di vite intere.

Anno dopo anno, dallo street cooking diventare chef, sentirsi tale: sperimentare la consapevolezza del proprio valore. “You can be younger, but I’m stronger“, ricorda Jay Fai ai collaboratori. Mi fa sorridere di pura emozione l’immagine di questa donna che prima di iniziare a lavorare si ferma dentro lo specchio per dipingere le labbra di rosso, come un grido di battaglia, e, a oltre settant’anni, di se stessa dice che continuerà a cucinare fino a quando avrà energia.

Nel 2018 la guida Michelin ha premiato le crab omelettes di Jay Fai, celebre per la gustosa frittata di granchio preparata a forma di involtino, arrotolata su se stessa, che da anni ha perfezionato insieme ai frutti di mare serviti con noodles fritti, funghi e spezie fresche. Ma non è questo l’importante. La questione è che non importa come siamo: importa come ci sentiamo. Ciò che importa, e realmente riesce a fare la differenza nelle nostre vite, è il coraggio che ci mettiamo. Cambiare rotta implica un rischio: significa provare a pensare in modo nuovo, deviare dal percorso. Accettare il rischio, come quando si tratta di riformulare una ricetta, scegliere un ingrediente differente, puntare sulla qualità. E non è solo una questione legata al prezzo che c’è da pagare in termini di costi e benefici, bensì qualcosa che va oltre. Amore per la sperimentazione, capacità di ascoltare il proprio istinto, inseguendo l’ispirazione del momento.

Qualche volta accade grazie a noi stessi ma per qualcuno che non siamo noi: forte, fortissima è l’energia che riusciamo a tirar fuori per chi amiamo. Per loro sì, combattiamo, osiamo, andiamo fuori dagli schermi. Rischiamo. È qualcosa di cui Jay Fai non è l’unica a parlare: la famiglia. La sopravvivenza come necessità, rivincita e riscatto; la molla che ti fa alzare la mattina consapevole che dal tuo lavoro dipendono anche altri. Dalle tue battaglie dipende anche la felicità di chi fa parte della tua vita.

Dietro di te c’è chi è venuto prima e ti ha dato l’esempio, davanti a te tutti quelli che verranno.
Oggi sta a te, a me, a noi. Ognuno con la sua giornata da affrontare, ognuno con la sua avventura e la sua visione da costruire.

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Franz Kafka al parco e la bambola viaggiatrice

 

Un anno prima della sua morte, Franz Kafka visse un’esperienza insolita. Passeggiando per il parco Steglitz a Berlino incontrò una bambina, Elsi, che piangeva sconsolata: aveva perduto la sua bambola preferita, Brigida. Kafka si offrì di aiutarla a cercare e le diede appuntamento per il giorno seguente nello stesso giardino. Non essendo riuscito a trovare la bambola, Kafka scrisse una lettera, fingendo che fosse per Elsi da parte di Brigida.
“Per favore non piangere, sono partita in viaggio per vedere il mondo, ti riscriverò raccontandoti le mie avventure…”, così cominciava la lettera.
Per molti giorni, Kafka e la bambina si incontrarono; egli le leggeva queste lettere attentamente descrittive di avventure immaginarie della bambola amata. La bimba ne fu consolata e quando i loro incontri arrivarono alla fine Kafka le regalò una bambola. Era ovviamente diversa dalla bambola perduta; in un biglietto accluso spiegò: “I miei viaggi mi hanno cambiata”.
Molti anni più avanti la ragazza cresciuta trovò un biglietto nascosto dentro la bambola ricevuta in dono. Diceva: “ogni cosa che ami è molto probabile che la perderai, però alla fine l’amore si muterà in una forma diversa“

Da “Kafka e la bambola viaggiatrice” di Jordi Sierra i Fabra

 

Dalle memorie di Dora…

“Quando eravamo a Berlino, Kafka andava spesso allo Steglitzer Park. Talvolta lo accompagnavo. Un giorno incontrammo una bambina, che piangeva e sembrava disperata. Le parlammo. Franz le chiese che cosa le fosse successo e venimmo a sapere che aveva perso la sua bambola. Subito lui si inventò una storia plausibile per spiegare la sparizione. “La tua bambola sta solo facendo un viaggio, io lo so, mi ha scritto una lettera”. La bambina era un po’ diffidente: “Ce l’hai con te?” “No, l’ho lasciata a casa, ma domani te la porto”. La bambina, incuriosita, aveva già quasi scordato le sue preoccupazioni, e Franz se ne tornò subito a casa, per scrivere la lettera.

Si mise al lavoro in tutta serietà, come si trattasse della creazione di un’opera. Era nella stessa condizione di tensione in cui si trovava non appena si sedeva alla scrivania o stava anche solo scrivendo a qualcuno. Tra l’altro, si trattava effettivamente di un vero lavoro, essenziale al pari degli altri, perché la bambina doveva assolutamente essere resa felice e preservata dalla delusione. La menzogna doveva dunque essere trasformata in verità attraverso la verità della finzione. Il giorno successivo portò la lettera alla bambina, che l’attendeva al parco. La bambola spiegava che ne aveva abbastanza di vivere sempre nella stessa famiglia ed esprimeva il desiderio di cambiare un po’ aria, in una parola, voleva separarsi per qualche tempo dalla bambina, cui per altro voleva molto bene. Prometteva tuttavia di scrivere ogni giorno – e Kafka scrisse effettivamente una lettera ogni giorno, raccontando di sempre nuove avventure, le quali, seguendo il particolare ritmo vitale delle bambole, si snodavano in modo rapidissimo. Dopo alcuni giorni la bimba aveva scordato la perdita reale del suo giocattolo e pensava solo e semplicemente alla finzione che le era stata offerta come sostituto. Franz scrisse ogni frase di quella sorta di romanzo in modo così accurato e pieno d’umorismo che la situazione della bambola risultava perfettamente comprensibile: era cresciuta, era andata a scuola, aveva conosciuto altre persone. Rassicurava sempre la bimba del suo amore, ma alludeva anche a complicazioni della sua vita, ad altri doveri e altri interessi che, al momento, non le permettevano di riprendere la vita in comune. La piccola veniva pregata di riflettere sulla cosa e veniva così preparata all’inevitabile rinuncia.

Il gioco durò come minimo tre settimane. Franz aveva una paura terribile al pensiero di come avrebbe potuto finire il tutto. Perché la fine doveva essere una vera fine, vale a dire che doveva consentire all’ordine di sostituire il disordine causato dalla perdita del giocattolo. Cercò a lungo e decise alla fine di far sposare la bambola. Descrisse dapprima il futuro marito, la festa di fidanzamento, i preparativi del matrimonio, poi in ogni dettaglio la casa dei giovani sposi: “Vedi tu stessa che dovremo rinunciare a rivederci in futuro”. Franz aveva risolto il piccolo conflitto di un bambino attraverso l’arte, attraverso il mezzo più efficace di cui disponeva personalmente per riportare ordine nel mondo

Paul Auster nel libro Follie di Brooklyn racconta questo fatto così.

“Secondo la testimonianza di Dora scriveva ogni frase con una cura maniacale del dettaglio, e la sua prosa era precisa, spiritosa e avvincente. In parole povere, era la prosa di Kafka, e lui per tre settimane andò tutti i giorni al parco e scrisse ogni volta una nuova lettera alla bambina. La bambola diventa grande, va a scuola, conosce altre persone. Continua a ripetere alla bambina che le vuole bene, ma allude a certe complicazioni che le rendono impossibile il ritorno. A poco a poco Kafka prepara la bambina per il momento in cui la bambola sparirà dalla sua vita per sempre. Si spreme per creare un finale soddisfacente temendo che se non lo troverà si possa rompere l’incantesimo. Dopo aver vagliato alcune ipotesi, alla fine decise di far sposare la bambola. Descrive il giovanotto di cui lei si innamora, la festa di fidanzamento, le nozze in campagna, perfino la casa dove ora abitano la bambola e suo marito. E poi, nell’ultima riga, la bambola dice addio alla sua vecchia e affezionata amica.

Ma a questo punto naturalmente la bambina non sente più la mancanza della bambola. Kafka le ha dato in cambio qualcos’altro, e alla fine delle tre settimane le lettere l’hanno guarita dal suo cruccio. Lei ha la storia, e quando una persona è abbastanza fortunata da vivere all’interno di una storia, da vivere in un mondo immaginario, i dolori di questo mondo svaniscono. Perché fino a quando la storia continua, la realtà non esiste più”.

Il potere di una storia

L’aneddoto racconta di Franz Kafka e le lettere immaginarie che una bambola in viaggio scrive alla bambina che l’aveva perduta. Di come la perdita si trasforma grazie al potere del racconto: il potere dell’immaginazione.

Il fatto è che la vita ci cambia, ci trasforma. Lungo la strada accade di perdere, ciò che amiamo e perfino noi stessi. La perdita è qualcosa di cui nella vita dovremo fare esperienza, accade a ognuno di noi. Eppure l’arte, che è in fondo è sempre, in ogni sua forma, arte di coltivare l’umano che è in noi, in questo caso riesce a trasformare il racconto di questo dolore in una cosa grande, una cosa nuova: nell’avventura del vivere. Ed è così che le nostre perdite diventano cicatrici del vissuto, cuciture di un ordito dove è ricamato un mondo intero, quello della nostra esistenza.

Com’è stato possibile? C’è voluta immaginazione, questo sì. La fantasia necessaria non solo per trovare le parole giuste, ma anche lo strumento utile in quel momento: il mezzo adatto alla situazione e in grado di essere compreso da una bambina. La lettera diventa il tramite dell’altrove che si trasforma in presenza attraverso l’immagine. Un’immagine che non esiste se non nella forma delle parole, nell’eco che la voce dell’altrove genera in chi ascolta. Le lettere immaginarie che documentano il viaggio della bambola sono il racconto di un viaggiare che anche quello esistenziale: lei parte spinta dalla necessità di rompere con l’abitudine, parte spinta dalla curiosità. Perché c’è sempre un altrove che ci chiama: è una voce che talvolta diventa urlo silenzioso e altre bandiera di una nave che osa salpare. In questo viaggio che è quello della vita noi partiamo da casa, dal conosciuto, per attraversare posti e contesti nuovi; incontriamo persone, facciamo esperienze, cerchiamo e troviamo. Prendiamo decisioni, scegliamo nuovi spazi da abitare. se in una versione del racconto la bambola fa ritorno, nell’altra no. No, non torna perché la finzione a questo è servita: creare una narrazione in grado di compensare la perdita, capace di solcare l’ignoto come un funambolo che si mantiene in piedi sul filo sottile dell’esistere e grazie a quello, passo dopo passo, attraversa il vuoto camminando nel buio di ciò che non sa come sarà.

“La fine doveva essere una vera fine, vale a dire che doveva consentire all’ordine di sostituire il disordine causato dalla perdita”. Sì, un concetto che la semiotica ha snocciolato, come ci ricordano le analisi delle narrazioni fiabesche. Vladimir Propp, linguista e antropologo russo, descrivendo lo schema generale di una fiaba, porta alla luce uno scheletro che va al di là della tradizione russa:

Equilibrio iniziale
Rottura dell’equilibrio
Ristabilimento dell’equilibrio

Il terzo punto, che va verso il ristabilimento dell’equilibrio, è sempre il costituirsi di un ordine nuovo. Non possiamo tornare al punto di partenza, mai. Lo stato A, iniziale, si trasforma, e quello a  cui si arriverà, C, è un equilibrio nuovo, a cui si arriva grazie alle forze entrate in gioco nel percorso. Fra l’equilibrio iniziale e lo stato finale, fra A e C, esiste B: è la zona intermedia, lo spazio della trasformazione. È impossibile passare dal prima al dopo senza la fatica del cambiamento, esso è un passaggio, un transito. Non è uno spazio, ma un tempo, è la parentesi del viaggio in cui ogni cosa che conoscevamo è trascinata via, spesso con violenza estrema.

Ecco perché ci vuole tempo. Insieme al potere dell’immaginazione, il tempo è l’ingrediente che ha permesso il trasformarsi della perdita. Kafka ha incontrato la bambina per tre settimane: ogni giorno una lettera, ogni giorno un racconto che come una tessera va a incastrarsi in un puzzle più ampio. Le storie non sono consolatorie in quanto semplice tentativo di dare una spiegazione. Una storia talvolta non ha spiegazioni. Il tempo è ciò che utilizziamo per andare a ritroso e ritrovare un filo che non sappiamo dove ci condurrà, eppure è lì. Quanto dura il gioco? Tre settimane in questo caso. A volte ci vuole molto di più, a volte non c’è nemmeno una fine. Il fatto è questo: gioco, ludus. Giocare significa prendersi la libertà di vivere il tempo e raccontarselo, cercare un senso, forse non trovarlo nemmeno, eppure proseguire. Immaginare un viaggio, quello della vita, quello dell’esistere. Andare avanti. Tornare ogni giorno in quel posto, il luogo dove tutto è iniziato, e ripartire da lì.

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Quando Pupi Avati voleva fare il musicista

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“Io amavo la musica ma la musica non amava me. Attraverso il cinema invece riesco a dire chi sono. Il mio primo errore è stato quello di aver confuso la passione con il talento. Volevo essere un grande musicista, ma come musicista ho fallito. Ho rimediato con il cinema. Ma ancora oggi vorrei essere un grande musicista”
Pupi Avati, intervista la Repubblica

All’anagrafe Giuseppe Avati, nasce a Bologna il 3 novembre 1938: Pupi Avati, figlio di antiquario, sarà conosciuto come regista, grazie alla poesia delle immagini capaci di ritrarre le atmosfere più intime di Bologna, il volto della gente, i suoi passi nel tempo. Ma non sempre si ricorda la sua passione per la musica. Dal 1959 al 1962 Pupi Avati fa parte della Doctor Dixie Jazz Band; a fargli rinunciare il sogno di una carriera nel jazz come clarinettista sarà l’ingresso nella band di Lucio Dalla, che come racconterà, si dimostrò più bravo di lui. Sì, perché quel musicista che sembrava modesto non lo preoccupava all’inizio, si legge fra le pagine dell’autobiografia di Pupi Avati “Sotto le stelle di un film“. Poi sarà quella che Pupi Avati chiama “duttilità, una predisposizione, una genialità del tutto impreviste” a metterlo nell’angolo. Dalla non è solo bravo, ha la musica nel sangue e forse è proprio così che si scopre un dono. Il talento si esprime in campi diversi, ma è ciò che viene naturale, spontaneo come una sorgente: ikigai, si direbbe in Giappone. Quando ci muoviamo in quel territorio allora riusciamo a diventare fluidi, duttili, capaci di cambiare e assecondare il ritmo, dimenticare la tecnica e danzare con estro. Purtroppo in quel territorio pochi di noi vivono stabilmente, anzi per scoprirlo servono anni di tenacia e pazienza, a volte tutta una vita.

Pupi Avati e il cinema

Nei quattro anni successivi Pupi Avati lavora come rappresentante per i surgelati Findus: anni che definirà i peggiori. Eppure, nel frattempo trama i suoi sogni, ne tesse una tela con cui evadere dalla frustrazione, per farne un tappeto magico con cui immaginare la realtà e viaggiare nella memoria, volare oltre. Nel 1970 grazie a un misterioro finanziatore gira due film, Balsamus, l’uomo di Satana e Thomas e gli indemoniati. Nell’arco della vita i momenti di difficoltà non sono mancati, come quando resta disoccupato per quattro anni: mi consideravo un fallito, racconterà di quel periodo. Nel 2018 ha festeggiato 80 anni e nel 2019 è atteso il suo 50esimo film, Il signor diavolo. Ma questa è un’altra storia. È già storia.

Del suo lavoro ha detto che ama più raccontare tutte le volte in cui è inciampato che i successi, perché è lì che ci si riconosce di più: il dolore è una via per la conoscenza. A proposito, il clarinetto invece lo porterà con sé sempre, tutta la vita: ogni sera qualche nota, un momento di meditazione e di sogno, dice. Perché in fondo dentro ognuno di noi vive ancora l’adolescente che siamo stati, i nostri sogni camminano con noi. Giorno dopo giorno.

A volte un fallimento è quello che ci permette di trasformare il viaggio della nostra vita e andare verso nuovi orizzonti

Qual è il tuo miglior fallimento?




Il miglior fallimento

 

Fallimento: insuccesso, esito negativo / Dizionario della Lingua Italiana Palazzi Folena (1992). In lingua italiana la parola fallimento è anche, in termini giuridici, la condizione dell’insolvenza che segna la resa di un imprenditore di fronte all’impossibilità di pagare i creditori. Disfatta. Mancare il bersaglio, sbagliare, fallire.

Il verbo fallire in lingua latina è fallere: ingannare, trarre in errore, venir meno, sbagliare. Dentro ci si ritrova l’impatto forte, qualche volta devastante, dell’errore di valutazione, lo stesso che ci fa inciampare di fronte a un ostacolo da poco, a prima vista, che invece si rivela ostico. Una salita che nasconde una montagna difficile da scalare; uno scoglio che si rivela così liscio da farci precipitare all’improvviso, giù dritti nella bocca spalancata dell’abissimo. L’errore di valutazione pesa come un macigno e ci appesantisce perché diventa il sassolino nella scarpa dello sbaglio che portiamo dietro, ce lo trasciniamo come un’amarezza repressa e incastrata nei giorni.

Ho provato, ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò meglio
Samuel Beckett

Un amico italiano mi racconta della sua paura del fallimento, quella che sta dietro un progetto tante volte sognato. Partita iva, tasse, progetti, ansia, curriculum, gli occhi degli altri puntati. Il fallimento, la paura di una macchia. Mi racconta di essersi confrontato con degli amici americani. Fallimento, perché? Ci hai provato, dicono loro; questa nel caso sarebbe una parte da sottolineare nel curriculum, non da tacere. Sì, perché significa che adesso, grazie a quello che è successo, ne sai di più rispetto a prima. Hai iniziato a calare i sogni nella realtà, hai osato, cercato informazioni, ti sei confrontato con la burocrazia, conosci meglio i nemici: hai accumulato esperienza.

Il punto è proprio questo, in mezzo c’è l’insuccesso. Vivere un insuccesso non è bello, non risulta granché piacevole, è vero, eppure contiene anche tutto il valore di ciò che è accaduto, qui, nel mondo, e dentro di noi. Ho vissuto, ho cercato, ho camminato. Passo dopo passo.
Le persone che si applicano alla scienza sono abituate a trattare il fallimento perché sanno che dietro un esperimento riuscito esistono mille, milioni di tentativi fatti in precedenza, essi coesistono. L’esperimento che farà esultare non vive da solo, è fatto di tutte le prese di coscienza che si stratificano, tutte le azioni disperse al bivio sbagliato, tutti gli inciampi. Che in fondo, non si tratta di perdersi al bivio sbagliato, quanto più di esplorare strade differenti e poco alla volta creare la mappa di questo intricato, immenso e vario labirinto del vivere. Nelle nostre scelte di ogni giorno portiamo scritte sulla pelle le strade percorse, il viaggio fatto fino ad oggi, le cadute e i nuovi orizzonti che abbiamo voluto.

Se il fallimento è inganno, caduta nella trappola, allora la presa di coscienza è un atto di consapevolezza che mi permette di vedere in ciò che è accaduto il senso di quello che ho vissuto, ciò che mi serve per respirare di nuovo, alzarmi, prendere dalla vita quello di cui ho bisogno. Sarà forse per questo che potremmo iniziare a guardare con più simpatia un verbo negletto e trascurato, una parola che quasi sempre diciamo sospirando e, anzi, abbiamo quasi dimenticato, sostituendola con altri sinonimi: erro. L’errante nelle favole antiche aveva la sagoma del personaggio magico: pellegrino e viandante, vagabondo sacro, faceva del viaggio ragione di vita, in senso fisico ed esistenziale. Oggi il mito diventa paura, pazzia di un clochard da rinchiudere. Eppure erro, che è “andare errando”, “vagare qua e là”, ci insegna che prima dello sbaglio esiste il coraggio della libera esplorazione, quella capacità di “discostarci dalla retta via / Vocabolario della Lingua Latina IL / che a volte ci fa cadere in errore, è vero, ma soprattutto ci insegna a camminare nell’incertezza, con curiosità; uscire dal seminato, nelle azioni e nei discorsi, correre il rischio di smarrirci e osare. Osare esplorare, osare pensare, osare fiutare la nostra direzione e come un segugio andare-verso, correre, seguire l’istinto, tornare indietro, scoprire nuovi odori, sommare le tracce, districarsi, ferirsi, andare a caccia di ciò che vogliamo, ciò che non basta, non accontentarsi. Continuare a cercare.

La mappa della nostra vita sovrappone le strade fatte a quelle ancora da percorrere grazie alle tracce di ciò che abbiamo imparato nel percorso.

Qual è stato il mio miglior fallimento? Quali sono stati i fallimenti da cui ho imparato di più nella vita? Tracciando la mappa della nostra vita dovremmo forse usare un colore diverso per tutti i bivi che ci hanno portato a esplorare altre strade, quelli in cui abbiamo incontrato un ostacolo, quelli dove ci siamo fermati e abbiamo dovuto inventare nuove soluzioni. Celebrarli, guardarli; scriverci sopra un simbolo, che so un semaforo, una valigia, un tesoro, perché quelli sono stati attimi duri, momenti che spesso quasi ognuno di noi non vorrebbe rivivere, eppure è grazie a questi se oggi siamo sopravvissuti alla nostra storia.

Ripensi mai ai tuoi fallimenti?

Il miglior fallimento è quello che ci fa ripartire da capo, guardare un altro orizzonte, inventare una nuova direzione, riscoprire odori e sensazioni mai provate prima, dare alle cose e alla vita un nome a cui non avevamo ancora pensato. Il miglior fallimento apre le porte al vero cambiamento.

Storie di fallimenti, di sogni e cambiamento
Quando Pupi Avanti voleva fare il musicista