Dopo ogni guerra, ovvero la fine e l’inizio in una poesia di Wisława Szymborska

Dopo ogni guerra
c’è chi deve ripulire.
In fondo un po’ d’ordine
da solo non si fa.

C’è chi deve spingere le macerie
ai bordi delle strade
per far passare
i carri pieni di cadaveri.

C’è chi deve sprofondare
nella melma e nella cenere,
tra le molle dei divani letto,
le schegge di vetro
e gli stracci insanguinati.

C’è chi deve trascinare una trave
per puntellare il muro,
c’è chi deve mettere i vetri alla finestra
e montare la porta sui cardini.

Non è fotogenico
e ci vogliono anni.
Tutte le telecamere sono già partite
per un’altra guerra.

Bisogna ricostruire i ponti
e anche le stazioni.
Le maniche saranno a brandelli
a forza di rimboccarle.

C’è chi con la scopa in mano
ricorda ancora com’era.
C’è chi ascolta
annuendo con la testa non mozzata.
Ma presto
gli gireranno intorno altri
che ne saranno annoiati.

C’è chi talvolta
dissotterrerà da sotto un cespuglio
argomenti corrosi dalla ruggine
e li trasporterà sul mucchio dei rifiuti.

Chi sapeva
di che si trattava,
deve far posto a quelli
che ne sanno poco.
E meno di poco.
E infine assolutamente nulla.

Sull’erba che ha ricoperto
le cause e gli effetti,
c’è chi deve starsene disteso
con la spiga tra i denti,
perso a fissare le nuvole.

Maria Wisława Anna Szymborska
Traduzione di Pietro Marchesani

“La fine e l’inizio” è una poesia di Wisława Szymborska, premio Nobel nel 1996. Nata a Kórnik il 2 luglio 1923, morirà nel sonno il primo giorno di febbraio del 2012 a casa sua, nella città di Cracovia, dove trascorre tutta la sua vita.

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La zingarata

 

 

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Amici di scuola, di caserma… E dunque, amici da tutta la vita.
Eccoli qui, gli amici miei. Cari amici.

Oh, ma che fai? Dove vai?
Ha svoltato a sinistra.
Che c’è a sinistra?
So ‘na sega! Allo zingaro quando gli gira… gli gira.

Ecco, questo è essere zingari.
Questa è la zingarata: una partenza senza meta e senza scopi,
un’evasione senza programmi.
Può durare un giorno, due o una settimana.

Una volta mi ricordo, durò venti giorni.
Salvo complicazioni.

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Gastone Domenico Moschin se n’è andato il 4 settembre 2017: 88 anni a osservare l’Italia dal palcoscenico, prima con la Compagnia del Teatro Stabile di Genova, poi il Piccolo Teatro di Milano e il Teatro Stabile di Torino, dal 1983 con la compagnia da lui fondata. Immagine di un sorriso dolce e amaro quello della commedia, che nei suoi protagonisti incarna sogni, malinconie e desideri di un popolo intero, quello italiano, dagli anni cenciosi e difficili del dopoguerra agli anni Sessanta e Settanta, le spedizioni sulla luna, la Fiat, il trench in gabardine e la cravatta, le osterie aperte fino a tardi, le serate in balera e i cinema dove fumare durante la proiezione. Italia che rinasce o almeno ci prova e per un momento sembra davvero possibile. Italia senza troppo regole, come quasi sempre accade nei Paesi che escono da una guerra e rinascono sulle proprie macerie. Italia che sogna e spera, con un sospiro di malinconia per le cose di una volta che ormai non ci sono già più: portate via dal tempo, cancellate persino le tracce di chi le ha vissuto.

Anche loro vengono da un’altra epoca: Adolfo Celi (Alfeo Sassaroli), Ugo Tognazzi (Raffaello Mascetti), Duilio Del Prete (Guido Necchi), Philippe Noiret (Giorgio Perozzi), Gastone Moschin (Rambaldo Melandri). Il primo ad andarsene è proprio lui, Adolfo Celi. L’ultimo sarà Gastone Moschin, Rambaldo Melandri, “architetto trombato, ma per pochi voti, per l’assessorato ai lavori pubblici del Comune di Firenze”.

Il film, diretto da Mario Monicelli, in realtà era stato pensato da Pietro Germi, che tuttavia non potè realizzare il suo progetto a causa della malattia che lo porterà alla morte nel 1974. Nei titoli di testa prima di “Regia di Mario Monicelli” si ricorda l’autore, “Un film di Pietro Germi”. Sembra che anche il titolo sia un richiamo a questo, il suo addio al cinema: “amici miei, ci vedremo, io me ne vado”, racconta una voce che siano state queste le ultime parole di Pietro Germi. Le indimenticabili musiche composte da Carlo Rustichelli restano incise nella mente, insieme alle avventure, le glorie e le misfatte dei quattro. E chi ha amici di una vita lo sa, non si potrebbe essere più diversi eppure c’è un dettaglio, qualcosa che quando riesce a tramandarsi negli anni diventa una forza trascinante, nota olfattiva come un odore persistente, il profumo dimenticato e sempre lì custodito nel cassetto della memoria.

In una delle sue ultime interviste Gastone Moschin racconta le zingarate, l’anima libera che risiedeva in quel nome e in un’epoca intera.

“Cos’è la zingarata? Un’auto, e noi sopra. Monicelli accendeva la musica e dava il ciak. Improvvisazione, anche. Ma soprattutto è la fine dell’inizio, quando annoiati ci fermiamo alla giostra, sui cavallini, col pensiero che è notte fonda e che dobbiamo tornare alla vita reale. Non azzardo se dico che Amici Miei è stato molto più documentario che film. E le zingarate probabilmente esisterebbero ancora se il tempo non ci avesse cambiato. Oggi apriamo la finestra e l’Italia, il mondo, non ci permettono nessuna zingarata, nessuno spiazzo di allegria. Non è più possibile, come invece avveniva in quel film, abbandonare per una attimo la quotidianità. Gli anni Sessanta e Settanta erano fatti di speranze. Il cinema era un’industria in movimento, si lavorava nelle co-produzioni. Io all’epoca giravo un giorno in Italia, il giorno dopo in Jugoslavia e quell’altro ancora in Francia”
Emiliano Liuzzi, da Il Fatto Quotidiano di lunedì 24 dicembre 2012

Si ritrovavano in piazza. Perché da sempre quello è il posto dell’appuntamento: la piazza, incrocio di vite e di chiacchiere, pensieri inespressi e gomitate, luogo fisico ma non solo, piazza virtuale e metafora sociale.
Loro, gli amici, si ritrovavano in piazza Beccaria davanti al cinema Metropolitan e andavano al bar Necchi. È notizia della primavera 2019 che il lato di piazza Demidoff che parte dal lungarno Serristori e arriva in via dei Renai sarà intitolato al regista Mario Monicelli. Si tratta dello storico punto di incontro celebrato nel film e oggi in questo luogo resta una targa: “Qui davanti al bar Necchi i personaggi del film “Amici miei” di Mario Monicelli vivono sempre nel ricordo dei fiorentini”. Era uscito al cinema il 10 agosto del 1975 e da allora “Amici miei” è un luogo che vive nella memoria. Anche i suoi protagonisti lo sono, fanno fatica a staccarsi dai nomi e già i personaggi è facile immaginare di vederseli camminare qualche asso più avanti, sbilenchi e rumorosi, solitari nella notte, in quella Firenze che rappresenta un po’ tutte le città delle nostra esperienza. Mattine fatte dalla routine del quotidiano e svegliate dal rumore delle saracinesche che si alzano, vecchi che scrutano dalle persiane aperte, portoni e strade conosciute dalla memoria tenace dei nostri passi, giorno dopo giorno; le periferie e i rettilinei che ci portano lontano, verso un bivio sconosciuto, e poi perdersi dopo una curva e ancora avanti, dimenticando per un attimo tutto e tutti, tranne l’incredibile attimo presente.

Nel frattempo diventato Astra 2, il cinema Metropolitan di Firenze non esiste più. Ha chiuso i battenti in un freddo mercoledì di gennaio, nel 2015, diventato, suo malgrado, anche lui segno dei tempi inesorabilmente cambiati. Simbolo di un amarcord amaro: in soli due anni, dal 2012, il pubblico era diminuito del 50 per cento. Oggi abbiamo la tivvù a pagamento, perché uscire di casa? Forse quello che manca, invece, è la consapevolezza della magia. Il grande schermo, lo spettacolo della proiezione e la sala buia con la sua visione collettiva e partecipata, i bisbiglii, il fruscio delle carte di caramelle, la commozione sottovoce dei vicini, ognuno sprofondato nella sua poltrona di velluto, ognuno nel buio liberante delle proprie emozioni, mentre si asciuga in fretta una lacrima sfuggente e dopo un paio d’ore, lì sulla porta mentre ce ne andiamo via, sembra quasi di essere amici, ci si riconosce nello sguardo dell’altro. Ecco questa magia che è fatta di condivisione è qualcosa di speciale, qualcosa che si trovava nelle balere e nei cinema, nei posti dove sopravvive l’umano e allora può essere che lo troveremo anche altrove, se solo ci mettiamo a cercarlo.

Il bello della “zingarata” è proprio questo: la libertà, l’estro, il desiderio. Come l’amore: nasce quando nasce e quando non c’è più è inutile insistere, non c’è più.
Giorgio Perozzi – Philippe Noiret

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Biblioteche del mondo, il progetto della regione Lazio

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Biblioteche del mondo, di cosa si tratta? Biblioteche del mondo è un progetto interculturale di promozione della lettura nei comuni di Anzio, Bracciano, Mazzano, Fiumicino, Ladispoli, Lanuvio, Tivoli, Zagarolo.

L’iniziativa nasce con l’intenzione di favorire l’integrazione tra le diverse culture. Le biblioteche civiche diventano luoghi dove investire nella promozione delle politiche interculturali, in grado di partecipare allo sviluppo di reti sociali e culturali capaci di facilitare e rendere possibile l’incontro e lo scambio con e tra gli immigrati nel territorio provinciale.

Al momento fanno parte della rete delle Biblioteche del mondo:
Biblioteca di Ladispoli in via Caltagirone
Biblioteca di Bracciano nella sede della Biblioteca comunale di Piazza dei Pasqualetti
Biblioteca di Lanuvio, sede di Villa Sforza Cesarini
Biblioteca di Mazzano Romano
Biblioteca di Tivoli, sede di Palazzo Coccanari
Biblioteca di Anzio, sede di Villa Adele
Biblioteca di Fiumicino, sede di Villa Guglielmi
Biblioteca di Zagarolo

Fra gli obiettivi del progetto Biblioteche del mondo:
– creare nel territorio provinciale condizioni favorevoli al dialogo e alla conoscenza reciproca tra culture, per migliorare la coesione sociale e la qualità della vita;
– rispondere alle trasformazioni demografiche del territorio- provinciale attraverso azioni e progetti anche a carattere culturale che contribuiscano a diffondere un approccio razionale a problemi reali, migliorare i comportamenti, proporre buone pratiche interculturali;
– far partecipare il circuito delle biblioteche civiche a processi di formazione continua per l’acquisizione di nuove competenze e capacità;
– promuovere la lettura e sviluppare la capacità di progettazione culturale delle biblioteche sui temi dell’intercultura.

Lo scaffale interculturale

Una delle iniziative del progetto, il cui protocollo d’intesa è stato firmato nel 2009, prevede la creazione degli scaffali interculturali, destinati alla raccolta di libri, periodici e materiale audiovisivo a carattere interculturale. Lo Scaffale interculturale si compone di un primo nucleo di circa 200 libri e materiali multimediali: non è lo stesso per tutte le biblioteche, ma si basa sulle risorse presenti nelle diverse realtà locali. Negli scaffali interculturali sono presenti testi di narrativa contemporanea con classici e bestsellers in diverse lingue; “Libri ponte”, testi bilingui per conoscersi meglio; Scritture e storie dell’immigrazione, oltre a fiabe, leggende e racconti per bambini, ragazzi, adolescenti; articoli di attualità, strumenti e guide per l’apprendimento dell’italiano, orientamento nei servizi e aggiornamento sulle normative, riviste in lingua, saggi, ricerche; libri di arte e cultura, attività per il tempo libero, video e documentari.

Attività di intercultura

La mostra bibliografica itineranteCosi vicine, cosi lontane: tate, colf e badanti” è dedicata alle donne (sì, per la maggior parte, anche se non unicamente, si tratta di donne) che hanno lasciato la loro casa natale e in Italia svolgono il mestiere di caregiver, a stretto contatto con bambini, anziani e malati.

Un’ulteriore iniziativa è dedicata alle seconde generazioni. Laboratori di scrittura creativa e produzioni multimediali le proposte di Rete G2, con sede a Roma,  associazione nazionale fondata da figli di immigrati e rifugiati nati e cresciuti in Italia.

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Biblioteca Comunale di Ladispoli “Peppino Impastato”

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Dal diario di bordo di Alessia Moricci

Se “un buon libro ti salva da qualsiasi cosa, persino da te stesso”, come sostiene Daniel Pennac, una moltitudine di libri, un’intera biblioteca può cambiarti la vita. Questa frase descrive efficacemente quello che è stato il mio lungo rapporto con la Biblioteca comunale di Ladispoli “Peppino Impastato”, non solo perché vi ho prestato servizio 13 lunghi anni.

Ricordi della prima biblioteca comunale di Ladispoli

La mia prima memoria relativa a questo luogo risale alla metà degli anni 80, quando la Biblioteca Comunale era collocata al centro della città, sul viale principale, ed io frequentavo i primi anni di Liceo. Inaugurata il 25 aprile 1980, inizialmente constava di poco più di mille volumi, frutto di donazioni, una sede non grande in un luogo di passaggio vicino alla stazione, ed il personale tutto giovane, di 5 elementi.

Del mio approccio da giovane utente ricordo la sensazione di promesse e aspettative provata di fronte ai ripiani pieni di libri, i giornali dell’emeroteca consultabili liberamente, i volumi colorati per bambini, il profumo della carta ed il primo libro preso in prestito, “La locandiera” di Carlo Goldoni, un’edizione tascabile degli Oscar Mondadori. Un ricordo va ai bibliotecari di allora, gli stessi che avrei avuto molti anni dopo come colleghi: Rino Di Girolamo, che mi fece quel primo prestito, Marina Panunzi, Bruna Panunzi, Rossella Tucci, i “pionieri” di quella meravigliosa avventura che è stata la nascita della prima Biblioteca comunale a Ladispoli. Non vi erano librerie all’epoca a Ladispoli, e io subivo il fascino magnetico di un luogo dove invece i libri erano molti, scelti con cura su tutto lo scibile, consultabili liberamente e si potevano addirittura prendere in prestito.

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La Biblioteca “Peppino Impastato” oggi

Da allora sono trascorsi 39 anni, la biblioteca ha cambiato sede due volte, si è trasferita dapprima in via Milano dove ha trascorso 13 anni e successivamente, dal 10 maggio 2003 in via Caltagirone. La nuova sede, posta in un edificio grande e luminoso è disposta su due piani, con una grande e luminosa sala lettura, comprende una sala ragazzi, una sala universitaria e una sala conferenze da 90 posti. L’aspetto pionieristico dei primi anni Ottanta è un lontano ricordo: oggi ci troviamo di fronte una biblioteca che marcia secondo parametri moderni per acquisizioni e servizi, con oltre 10.000 iscritti e circa 53.000 documenti.

La biblioteca fa parte del Sistema Bibliotecario Ceretano-Sabatino che include oggi altre 9 biblioteche del comprensorio, con cui avvengono collaborazioni e scambi di progetti. Il suo patrimonio librario e audiovisivo è consultabile on-line attraverso l’Opac della Regione Lazio ed il catalogo SBN. Sono a disposizione dell’utenza le seguenti sezioni specializzate: storia e documentazione locale, testi e manuali per l’università, ambiente, mafia, scaffale interculturale, videoteca, libri antichi e sezione ragazzi. È una delle otto Biblioteche del Mondo promosse dall’ex Provincia di Roma ed è anche Biblioteca contro le Mafie, essendo stata scelta dalla Regione Lazio a partecipare insieme ad altre Biblioteche al progetto “Biblioteche contro le mafie”. Dal 20 Febbraio 2010 è stata intitolata a Peppino Impastato, ucciso dalla mafia il 9 maggio 1978.

Il mio lavoro in biblioteca

Ho continuato a frequentare la Biblioteca di Ladispoli durante gli anni dell’Università, anche come luogo di studio. Nel 2005 sono entrata nello staff della Biblioteca, dapprima come volontaria con una borsa lavoro, successivamente dal 2011 ho avuto un contratto a tempo determinato, rinnovato fino a dicembre 2018. Impossibile elencare tutte le iniziative organizzate e i ricordi che ho maturato in tutti questi anni. Posso comunque affermare che gli anni trascorsi nella Biblioteca di Ladispoli sono stati non solo formativi professionalmente ma anche umanamente, grazie all’incontro con colleghi meravigliosi, disponibili e comprensivi; ricordo con affetto anche coloro che sono subentrati in un secondo tempo, Elisabetta Matticoli, Valentina Rossi, Raffaele Autullo, Rita Peirani, ed i volontari: Renata, Bruno, Matteo e Sandro.
Proprio in questi giorni di fine settembre ed inizio ottobre del 2019, tre degli storici bibliotecari hanno raggiunto la pensione.

La Direttrice Marina Panunzi, mia mentore in tutti questi anni, che ha guidato con passione e determinazione una struttura divenuta un punto di riferimento culturale nel territorio, lettrice forte e persona sensibile, esempio di dedizione e professionalità, una lezione che difficilmente dimenticherò. Rino Di Girolamo, da cui ho appreso le prime nozioni di classificazione decimale Dewey, un amante del buon cibo, dei vini e della poesia, la cui ironia è stata utile nei momenti difficili. Elisabetta Matticoli, arrivata in biblioteca nel 2010, che ricorderò per la sua gentilezza, umanità e pazienza, virtù necessarie per ogni buon bibliotecario.

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Se volete conoscere meglio la storia della Biblioteca Comunale di Ladispoli, consiglio di fare un giro tra i suoi scaffali, perché sicuramente i tanti libri che li affollano racchiudono una parte del cuore e dell’anima dei bibliotecari che li hanno selezionati e per tanti anni custoditi con amore. Sono felice di aver contribuito anche io a tutto ciò.

Biblioteca Comunale “Peppino Impastato”

Via Caltagirone, Ladispoli
contatti: 06 99231672-675-676 ladispoli@bibliotechesbcs.eu
Da qui puoi entrare nel catalogo del sistema bibliotecario Ceretano Sabatino e utilizzare il tasto ricerca per trovare ciò che desideri

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Questo viaggio che è la vita

Mi perdo nella geografia del mondo,
esploratore in questo vasto spazio,
una biglia azzurra e bianca
che ruota nel vuoto nell’universo,
la terra.

In fondo non sono che
un viaggiatore del tempo.

Collezioniamo istanti,
frammenti di una memoria che all’improvviso si fa
presente.
All’incrocio fra passato e futuro
ci ritroviamo in un attimo,
l’istante prezioso in cui
lo so,
sono
viv*
adesso

Il filo del tempo

Dipaniamo il filo della vita attraverso i territori del mondo e della nostra anima: la geografia diventa traccia dove si scrive, stagione dopo stagione, la storia del nostro cambiamento. Nell’antica Grecia le tre Moire, le Parche della mitologia romana, figlie della Notte, tessevano il filo del destino, deciso per ogni essere umano al momento della nascita e che nemmeno gli dei potevano cambiare. Nella tela della vita Cloto regge il filo dei giorni e Làchesi lo avvolge al fuso: quando sarà il momento Atropo impugnerà le forbici per tagliarlo, inesorabile.

Molti chilometri più in là, nelle terre nordiche della Scandinavia le Norne erano tre fanciulle, ancora una volta tre: norna, “colei che bisbiglia”, racconta l’etimologia della parola. Vivevano presso l’Urðabrunnr, il Pozzo di Urd, e ogni giorno con l’acqua sacra di questa sorgente bagnavano l’albero cosmico, Yggdrasill, le cui radici affondano fino al centro della terra e i cui rami reggono il cielo.

Ogni vita, un filo:
nessuno può deciderne la lunghezza.
Inizio e fine, la sua lunghezza
srotola il senso dei giorni dell’esistenza
fino alla fine, taglio, segno
del nodo con la vita che si scioglie,
libero di volare nell’infinito

La mitologia dei Celti racconta che l’eroe se va, sulla sua barca di pietra, concludendo la sua esistenza verso l’orizzonte senza fine: capo Finisterre. Il promontorio sull’Oceano Atlantico, che da secoli è il punto d’arrivo del Cammino di Santiago di Compostela, un tempo segnava un confine: frontiera del mondo e del tempo. Ancora più indietro nei secoli, su queste rocce di granito che si tuffano nell’immenso blu i popoli antichi celebravano il Sole. Ancora oggi, sulla croce di Cabo Fisterra i pellegrini lasciano una pietra a ricordo del viaggio compiuto.

Il cammino è fatto dal nostro andare,
passo dopo passo.
Attraversiamo il mondo
tessendo il filo dei nostri giorni
km di spago,
duro e legnoso, capace di tagliare le mani
colorato e morbido nei giorni illuminati dal sole
logorato dalla fatica, cucito insieme ad altri
solo nel suo viaggio,
inizio e fine
racchiuso nel mistero

filo-etimologia

Siamo noi le mappe, siamo storie nella Storia

Legati alla vita con un respiro, il primo, slegati dall’ultimo, in-spiro ex-piro: il movimento incessante dell’aria che entra ed esce segna il ritmo del mio cuore e del mio andare. Quando pronuncio la parola filo mi torna in mente il suono della parola greca, ϕιλο, da ϕιλέω «amare». Sul filo di ciò che amiamo e delle nostre affinità viaggiamo attraverso le strade dell’esistenza, lasciando una traccia nello spazio e nel tempo.

Destino,
il taglio del filo del tempo.
Destino, buffa coincidenza delle lingue…
Destino quello della vita di ognuno di noi e
destino, la destinazione del viaggio.
Destino di un treno, l’ultima fermata.
Dove stiamo andando?

Vivere il momento

Vivere il momento è imparare a fermarsi. Assaporare, osservare. A volte chiudere gli occhi e farsi trascinare da una storia. Ascoltare, assaggiare. Decidere di avere tempo, una scommessa coraggiosa in un mondo dove tutti hanno fretta.

vivere-il-momento

Solcare
le onde dell’infinito
il coraggio
di abbandonare l’ormeggio sicuro
imprimendo alla superficie delle cose
la traccia del nostro andare

 

 

La Biblioteca del Tempo nasce come collezione di istanti.
✏️ Doni un ricordo? Se hai voglia di condividere una memoria scrivi a bibliotecadeltempo@gmail.com oppure usa #bibliotecadeltempo




Lago di Bracciano

Un tempo era noto anche con il nome di lago Sabatino, Lacus Sabatinus: il Lago di Bracciano è uno specchio azzurro di origine vulcanica e tettonica, circondato dal profilo dei monti Sabatini e non troppo distante dalla città di Roma. Dal 1999 insieme al lago di Martignano l’area del Lago di Bracciano è diventata Parco regionale di Bracciano-Martignano. Unico emissario, il Torrente Arrone, sfocia nel Mar Tirreno nei pressi di Maccarese.

La storia sommersa del Lago di Bracciano

A poca distanza da Anguillara, in località La Marmotta grazie agli scavi subacquei guidati da Maria Antonietta Fugazzola sono state ritrovate le tracce di un villaggio sommerso risalente al Neolitico. Situato a 7,5 m di profondità, queste case sono state abitate per circa cinquecento anni, dal 5700 al 5200 a.C.

Semi di grano e orzo, ossa di capra e pecora fanno pensare a un’alimentazione basata su agricultura e pastorizia, insieme ai frutti selvatici della terra: fragole e lamponi, mele, prugne. Fra i resti trovati anche lino e papaveri da oppio, un tempo diffusi nel sud della penisola, oltre a utensili come falcetti di legno con lame di selce e ossidiana, asce di pietra e ceramiche. Una piccola statua faffigurante una donna rievoca il ricordo della dea madre, divinità antica i cui riti si intrecciano al mistero della nascita, simbolo della vita che passa attraverso il corpo femminile. Nel Centro Espositivo del Neolitico di Anguillara Sabazia una teca conserva una piroga monossile di 9,50 metri, scoperta dagli scavi il 31 luglio 2005: piccole barche di ceramica e piroghe ottenute svuotando i tronchi di quercia fanno riflettere su quanto fossero intensi i legami fra chi viveva sulle sponde del Lago di Bracciano e un’esistenza a stretto contatto con l’acqua, fin dall’antichità.

L’idroscalo di Vigna di Valle

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Sulla sponda sud del Lago di Bracciano si trova l’Idroscalo di Vigna di Valle, il più antico in Italia. Proprio qui, nel 1904, il Maggiore del Genio Mario Maurizio Moris, uno dei padri dell’aviazione italiana, decise la costruzione del primo Cantiere Sperimentale Aeronautico. Nel 1908 fra questi cieli volerà il primo dirigibile militare italiano, N.1, costruito dagli ingegneri Gaetano Arturo Crocco e Ottavio Ricaldoni.

A Vigna di Valle si trova il Museo Storico dell’Aeronautica Militare, che si estende su una superficie di 13.000 m2. Si tratta di uno dei più grandi musei del volo al mondo: organizzato in quattro padiglioni espositivi, ospita ottanta velivoli circa, oltre a una collezione di motori e cimeli aeronautici, dai Pionieri e Dirigibili, alla Prima Guerra Mondiale, i Voli Polari del Generale Nobile, fino alla Seconda Guerra Mondiale e la rinascita post-bellica, insieme ai velivoli a getto contemporanei.

Passo dopo passo

Intorno al lago di Bracciano si snoda la strada panoramica che porta verso Bracciano, Trevignano Romano e Anguillara Sabazia. In bicicletta e a piedi, esplorare la natura di questi luoghi d’acqua permette incontri ravvicinati con fischioni, svassi, moriglioni e folaghe, uccelli acquatici che insieme alle numerose specie di peschi popolano l’area del lago.

Camminando, ci circonda l’energia millenaria della bassa Etruria. Dopo il Lago Trasimeno e di Bolsena, quello di Bracciano è il terzo bacino più grande dell’Italia centrale, ottavo in tutta la penisola italiana. Tranne alcune eccezioni, come il traghetto che collega i borghi del lago, sulle sue acque è proibita la navigazione a motore.

Già nella Preistoria popolazioni su cui molto si è discusso riguardo alla provenienza abitavano questa Italia antica, dando origine a una civiltà di cui oggi non sopravvivono che esili tracce: “popoli illustri della Tirrenia”scrive il poeta Esiodo, autore della Teogonia nel VII a.C. Cinque ore di cammino dividevano Roma e Veio, una delle più potenti e belle città etrusche, le cui rovine si trovano presso il borgo medievale di Isola Farnese: un’inimicizia storica che porterà a una guerra per la sopravvivenza e l’autonomia, destinata a trasformarsi nel lento declino dei centri etruschi, che verranno definitivamente privati dell’autonomia con la Lex Iulia dell’89 a.C. Eppure questa civiltà lascia in tutto ciò che è il sistema rituale dell’antica Roma. Gli aruspici, sacerdoti capaci di trarre segni dal volo degli uccelli e dalle viscere degli animali; simboli come il pastorale, il bastone ancora oggi utilizzato nella religione cristiana e persino le terme, portano l’eco di una storia millenaria.

Otto chilometri di passeggiata l’anello panoramico intorno al lago di Bracciano e Martignano. Da qui si raggiungono luoghi come la Collegiata di Santa Maria Assunta ad Anguillara Sabazia, il Castello Orsini-Odescalchi di Bracciano e la storica Rocca dei Vico a Trevignano Romano. Tutto intorno, l’atmosfera pacata che i pastori di un tempo attraversavano insieme al gregge: chiudo gli occhi e per un attimo la immagino così, una libertà fatta di aria pura, a piedi nudi fra i prati con la carezza del sole sulla pelle. A testa in su nel blu del cielo infinito.

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La prima cartolina della storia

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La prima cartolina è stata emessa il primo giorno di ottobre dell’anno 1869 dalle Poste dell’Impero austro-ungarico: 1.10.1869-1.10.2019, sono passati 150 anni da quel giorno.

Era in cartoncino rigido e nata per essere economica, a portata di ogni tasca; ad averla inventata sembra sia stato Emanuel Alexander Herrmann, professore di economia, che in un articolo pubblicato sul Neue Freie Presse dà voce all’idea di un nuovo mezzo di corrispondenza. In quattro settimane vengono venuti un milione di pezzi: l’anno successivo il librario Bernardeau de Sillé-le-Guillaume immagina le prime decorazioni: nasce, in Francia, la cartolina illustrata.  Ma sarà la Svizzera a utilizzare per prima la cartolina come mezzo di promozione turistica. Hans Jakob Schmid, litografo di Zurigo, inventa il procedimento fotocromatico, premiato all’Esposizione Universale di Parigi del 1900.

All’inizio il messaggio non superava le venti parole; nel tempo appariranno cartoline di ogni tipo, corredate di francobollo e inviate dalle più svariate città, persino durante gli anni di guerra, quando diventano l’occasione per un contatto con chi è lontano. Scritte fitte fitte o nella scrittura incerta di bambino, come quelle che spedivamo ogni estate dal campeggio e dai luoghi di villeggiatura: “Saluti da…”  dal dopoguerra agli anni Novanta del Novecento diventerà un simbolo.

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