Diario di vita, ovvero storia di una ragazza che amava i gatti e i fiori

Diario di vita, ovvero l’assillo, impellente quanto impossibile da rimandare, di scrivere un resoconto della propria vita: un momento che qui unisce madre e figlia in un viaggio della memoria attraverso il tempo e la consapevolezza di ciò che abbiamo vissuto; perché guardare indietro, verso la strada percorsa, con gli occhi di oggi è imparare a riconoscere la storia, la nostra, guardarci in modo diverso, e lasciare un’eredità.

Scrivere la storia della propria vita, questo è il tema di un articolo che trovo per caso sfogliando un vecchio Reader’s Digest in un pomeriggio troppo caldo, mentre l’afa mi toglie il respiro sul divano e una libreria mi restituisce un frammento del passato, la passione di mio nonno per questi piccoli volumi di carta stampata che hanno fatto epoca, la Selezione dal Reader’s Digest. La storia della propria vita, nata dalla voglia, anzi no, l’impellenza del bisogno di fermarsi e guardare indietro, ma anche la storia di un legame che diventa dialogo nel tempo, fra una madre e una figlia. Un diario è un dono, un’eredità immateriale. Scrivere la propria storia, per sé e per l’altro, leggere la storia di chi se n’è andato e leggere anche noi stessi: noi stessi a distanza, nel tempo, mentre le cose accadono e poi dopo, in prospettiva. Appunti di una geografia del cambiamento che accade sulla pelle, dentro ai nostri sguardi, nel modo che abbiamo di vivere le cose e reagire ad esse. E allora questa storia che è racconto di vita  diventa traccia per imparare a lasciare. Lasciare andare, la cosa più difficile. Lasciare andare i figli quando crescono, lasciar andare un amore; lasciar andare la vita, il tempo, lasciar andare i fatti e le emozioni; lasciare andare persino i nostri vecchi noi stessi.

Ricordi d’infanzia

Ho amato la mia famiglia, gli amici, la natura, gli animali, la musica e altre cose ancora.
Non sarà facile dire addio a coloro che amo e alla bellezza del mondo.
Per qualche ragione penso alla casa di nonna Jessie a Kirriemuir, in Scozia.
Da bambina andavo da lei tutte le estati.
Ricordo sempre i cespugli di lavanda lungo i bordi del vialetto. Ne portavo un po’ a casa e la mettevo in sacchetti per profumare la biancheria.
Oh, il profumo era delizioso! In quel modo avevo nonna jessie con me tutto l’anno.

Una volta uno psichiatra mi ha raccontato che nei reparti dove sono ricoverati i malati gravissimi “mamma” è la parola più pronunciata. Il nonno di mia nonna si chiamava Francesco; quando ero piccola lei me ne parlava, dicendo quanto le volesse bene e quanto lui gliene volesse, un’unione speciale e reciproca come accade fra nonni e nipoti, due generazioni che si ritrovano in uno sguardo: uno al capolinea, l’altro all’inizio. I nonni rivivono nella giovinezza dei nipoti, i nipoti si ritrovano in quella storia da cui provengono e di cui sono assetati, nella totalità di un abbraccio che attraversa il tempo. I nonni in genere sono generosi e sconsiderati nel loro amore, nella passione per una vita che più l’afferri più si fa sfuggente: forse non a caso si dice che bambini e vecchi abbiano molto in comune. Amo la parola “vecchio”, piena di vita, di resistenza e forza, un albero riuscito a esistere e resistere alle tempeste. Quando sei la giornata volge al sole del pomeriggio sai come tutto appare diverso, all’improvviso ritrovi il gusto per ridere, smetti di pensare alle preoccupazioni del domani. Sarà per questo, forse, che vecchi e bambini li trovo così terribilmente simili, entrambi vivono nell’oggi. Vogliono goderselo questo oggi, pieni di desiderio e voglie, sconsiderati e saggi nella semplicità, egoisti e prepotenti come a volte sanno esserlo i bambini e i vecchi, i primi non ancora abituati a perdere e i secondi che ormai fino a qui ci sono arrivati.

Cambiano i nomi, cambiano le geografie, eppure dentro ritroviamo le nostre storie, che si ripetono simili, nelle varianti. La chiave che gira nella toppa ha forme diverse, ma produce lo stesso scatto. Gli amori, le gelosie, il desiderio, le sconfitte, i tradimenti, le cadute e le volte in cui ti sei rialzato: ogni vita è il racconto di un viaggio. All’inizio della storia, in questo riandare della memoria, è il ritorno all’origine, il primo ricordo di chi ti ha voluto bene nel senso più illimitato e gratuito del termine. La casa. Non per le pareti, quanto la casa che dice l’appartenenza del cuore a un luogo che è territorio dell’anima.

Più la valigia dell’esistenza è carica di anni, maggiore è la distanza dal territorio dell’infanzia: uno spazio sfocato, che vive nell’indeterminatezza della memoria. L’infanzia è l’inizio del filo del tempo, lo spazio in cui tutto è possibile, il tempo del presente. Durante la primissima infanzia, quando siamo molto piccoli, la percezione del passato e del futuro sono in via di formazione: non abbiamo ancora gli strumenti per immaginarli.

Passato e futuro sono un’operazione di immaginazione

Nel presente della memoria sono flash vividi quelli evocati dai sensi. Hanno la potenza di un odore mai dimenticato, quello che immediatamente riesce a riportarci una persona, un mondo intero. Come la lavanda, i cassetti e il bucato, le nonne; per qualcuno chissà, è odore di vernice, trementina, pane o vernice, sapore di schegge di zucchero caricate nei camion, odore di sabbia, di mare, di bosco. Per ognuno le strade della memoria sono l’inizio di un viaggio diverso. Colpiscono come frecce i sensi e oggi sappiamo che sì, questa è un’evidenza. Dietro all’appiglio letterario (mille gli esempi del ruolo dell’olfatto per la memoria, per esempio) esiste una questione neuronale perché il sentire svolge un ruolo fondamentale nei processi di formazione di quello che é il nostro ricordo: della vita, degli eventi e di noi stessi, di un viaggio, di un cambiamento, del tempo e delle persone.

Nel numero di Novembre 1987 della Selezione dal Reader’s Digest, pagina 27, Alice Steinbeck racconta quello che è un dialogo attraverso il tempo fra una madre e una figlia. “Nell’autunno del 1984 mia madre, una donna piena di vita che aveva già superato i 70 anni, cominciò a scrivere la storia della propria vita. Il suo desiderio di affidare alla carta pensieri e ricordi divenne per lei quasi un’ossessione”. .. “La ragione era dentro di lei. Finì ai primi di dicembre e tre giorni dopo Natale scoprirono che aveva il cancro: in capo a tre mesi era morta”.

Lo immagino questo strano dicembre. L’ultimo Natale insieme. Di solito abbiamo un ricordo molto preciso delle nostre ultime volte, dell’ultima festa insieme, l’ultima polaroid prima che tutto accadesse. Spesso, naturalmente, non abbiamo la prcezione di vivere qualcosa che sarà l’ultima pagina: è destinato a diventare l’ultimo ricordo, ma noi ancora non lo sappiamo, non ne siamo coscienti. Poi accade. E allora torna in mente quel momento, una giornata magari banale e al tempo stesso fondamentale perché definitiva. Come se la memoria riaprisse un archivio segreto e in un colpo ci restituisse tutto il file, sensazioni, sguardi, tutto impresso a fuoco sulla pelle. Ogni dettaglio appare con una luce nuova, abbagliante, intensa, che lo evidenzia in maniera perentoria; l’immagine prende vita come emergendo dal fondo buio di una camera oscura: attraverso l’acqua si evidenzia l’immagine e allora all’improvviso la vedo, ogni dettaglio è contemporaneamente a fuoco. Io, gli altri, quello che cosa indossava, il tempo, il telefono che squillava; a volte succede di ricordare particolare assurdi e molto dettagliati, con l’aroma in bocca, lo stesso, come se fosse appena successo. All’improvviso il tempo non esiste più, solo per un attimo, nell’attimo fatale di quel ricordo che mille volte continua a vivere, identico, nel nostro cuore. Un orologio fermo a un’ora che si ripete ogni volta che torniamo là.

Il tempo degli addii

Il tempo era stato strano negli ultimi due mesi; freddissimo in gennaio e poi tiepido in febbraio. In uno di quei giorni miti, schiusi la finestra della sua camera. Sentendo l’aria tiepida e profumata, mia madre aprì gli occhi e chiese: «L’erba incomincia a crescere?»

Era uno scherzo tra lei e me. Chiusi gli occhi e un ricordo mi venne alla mente attraverso gli anni: Ho cinque anni e sono sgattaiolata fuori di casa nel cuore di una notte d’estate per vedere crescere l’erba. A un tratto mia madre è al mio fianco. Invece di rimandarmi a letto, rimane con me. Non sono mai stata alzata fino a un’ora così tarda, e il senso dell’avventura è vivissimo. Siamo  sedute insieme sulle sedie bianche del giardino e ascoltiamo le cicale che friniscono sugli alberi. «Guarda» dice lei indicando una stella cadente. Guardo la luce nei suoi occhi e i lunghi capelli neri: una macchia d’inchiostro contro l’alba imminente. Poi mi addormento con la testa sul suo grembo.

Ricordo il giorno in cui mia madre mi chiese di scrivere un ultimo messaggio da parte sua a tutti i componenti della famiglia. «Li farà sentir meglio» mi disse. Scrissi attraverso le lacrime, ben consapevole del fatto che, contriariamente a lei, io non avevo accettato l’idea della sua morte ormai prossima. Cercavo ancora un modo per rimetterla in piedi, di riportarla a casa. Lei vedeva la mia lotta interiore e, come sempre, aspettava che i nostri sentimenti coincidessero.

Ricordo con estrema chiarezza la notte in cui smisi di negare a me stessa le sue reali condizioni. Dalle mie note, 26 gennaio 1985: La radioterapia, insieme con gli analgesici, comincia a darle un certo sollievo. A poco a poco rinuncio a sperare che mia madre torni a essere com’era. Credo che morirà.

Nei giorni successivi riuscii a a scoprire ciò che a mia madre premeva: voleva parlare della sua vita, tenere il passato come se fosse un mappamondo e farlo girare per ritrovare tutti i suoi ricordi. E così cominciammo la nostra lunga conversazione, aggiungendo tessere al mosaico della memoria finché dai racconti emerse il quadro di una vita. E, mentre parlavamo, e il quadro della vita di mia madre si definiva con sempre maggior precisione, lei sembrava diventare più forte, non nel fisico, s’intende; ma nel suo essere persona e non soltanto un’ammalata.

Quando accade di prendere coscienza della realtà? Quando accade, con esattezza, di diventare consapevoli di come stanno davvero le cose, di una malattia, della morte, di un rapporto che finisce? A volte non accade mai e allora succede di sperare, fino all’ultimo, e persino si finisce per forzare la mano perché la realtà non la possiamo piegare come vorremmo: la morte accade. La fine, delle cose e della vita, accade continuamente; è qualcosa a cui la natura stessa dell’esistenza ci costringe a fare esperienza. Pena il rimanere abbarbicati e bloccati, come un fuggitivo che mentre il terremoto scuote la realtà, rimane a preparare la cena. Puoi anche non crederci, ma sta accadendo. Iniziare a riconoscere quello che accade è una questione di sguardo: è il coraggio di fermarsi e vedere. Non vedo quello che vorrei vedere, vedo quello che c’è: lo prendo, non lo trasformo, non lo piego, imparo questa nuova forma attraverso il tatto. Perché il tatto non mente.

Riconoscere è un atto che avviene al buio

Prendere coscienza del cambiamento significa accettarlo? Alla figlia, Alice Steinbeck, ci vorrà un anno prima di prendere in mano quel diario e riaprirlo. “Un piovoso pomeriggio domenicale – era passato un anno dall’inizio del ricovero di mia madre – capii che era giunto il momento di ricordare e rendere onore alla sua vita e alla sua morte. Sapevo anche che ormai dovevo riconciliarmi con la perdita della persona che più di ogni altra aveva influito sulla mia vita. Per un mese lessi le note che avevo scritto mentre mia madre era in ospedale e il suo diario. Quand’ebbi finito mi resi conto di non aver perso mia madre: in un modo nuovo e diverso l’avevo invece ritrovata”.

Scrivere è terapeutico, altrettanto è terapeutico leggere. Leggere e leggersi, nello stesso modo in cui scrivere è sempre un’azione che corre su due binari: scriviamo per noi stessi e al tempo stesso per l’altro, un altro che è già pensato, esterno a noi e interno. C’è il mondo che sta fuori e c’è quello che vive dentro. Anche noi diventiamo lettori di noi stessi e nel tempo, viaggiatori che si sdoppiano, andiamo a ritroso, ci stupiamo di noi stessi quasi fossimo davanti a un estraneo e in effetti lo siamo. La nostra memoria non ricorda. Davvero abbiamo fatto e pensato tutto questo? Davvero eravamo questi? Il tempo è la lente di ingrandimento attraverso cui osserviamo il nostro viaggiare nella vita.

Il tempo dell’attesa è il tempo che ci dobbiamo, è il vuoto in cui tutto accade, buio del seme, lievito di cose che chiedono di aspettare. Il tempo dell’attesa è quello necessario in cui la sabbia si posa e torna sul fondo, l’acqua torna chiara e trasparente. Ci vuole coraggio. Perchè dentro di noi una voce incalza, non c’è tempo: vorremmo sempre dire ‘finalmente!’, invece spesso la fine è ancora di là da venire. Rimane questo difficile elettrocardiogramma di una vita che si tiene in bilico, arrabattata e a volte arrabbiata, manchevole e sconnessa. E allora il tempo dell’attesa è anche quello spazio che ci serve per muovere due passi e poi guardare, noi stessi e il mondo, in prospettiva. A distanza. La distanza che esiste fra un prima e un dopo, fra noi stessi, quello che eravamo e quello che siamo.

Dal diario di mia madre, di Alice Steinbeck

Non ho dimenticato che cosa vuol dire essere giovani, tutte le speranze e le angosce e la sensazione travolgente che tutto quello che si fa nella vita è destinato a renderla migliore o a distruggerla. Quando si è giovani non si conoscono le vie di mezzo.

Quando ho compiuto 70 anni, qualcuno mi ha chiesto che cosa si prova quando si arriva a questa età.
Anche se il mio corpo non è più lo stesso, io sono la stessa. Sarò sempre la ragazza che amava i gatti e i fiori e che correva per casa per fare un esercizio di danza.
Dentro, sono ancora quella persona.

 

Selezione dal Reader’s Digest, Novembre 1987, pp. 27, 28, 29, 30

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Rime di migrante per ridere e per piangere

Farfarosa è una zona nelle nostre montagne, racconta l’autore, “sù dopo la Pianlina e le Nasse, dietro il grotto delle Serre”. La zona è quella italiana dell’Appennino modenese, lungo la direzione di una Linea Gotica dove l’amaro coraggio della storia si sovrappone alla geografia di una bellezza scanzonata e libera. Boccassuolo, borgo fatto di montagne e storie di chi se n’è andato, chi torna e sogna; pietre al sole e nella neve, fiori selvatici e la macchia, dove il bosco si fa più fitto e gli alberi tornano signori del tempo. Stagioni da arrotolare sul filo degli anni seguendo le tracce delle foglie che cambiano colore, vecchie insegne dimenticate, case che crollano, vita nel flusso del cambiamento come i torrenti che ogni anno mordono la riva, sbriciolano terra e trasformano il paesaggio. Ci orientiamo, ogni tanto persi, mentre guardiamo attorno attoniti, per poi ritrovarci in tutto questo che mai cambia e al tempo stesso si trasforma lentamente, in modo costante, proprio come noi, sempre uguali e mai identici a noi stessi.

Questa è la voce di uno che se n’è andato e che è tornato, uno che continua a tornare, anno dopo anno; uno che le radici le ha doppie, metà qui, fra queste pietre di un’Italia dove già si sente il confine fra Emilia Romagna e Toscana, metà in un nuovo mondo, la Francia, che i genitori scelsero per lui, migranti antichi. Qui c’è uno sguardo e dentro ha il senso del tempo, quello che passa fra un’andata e il ritorno, quella parentesi di vuoto, non visto, in cui le cose accadono e noi, noi no non siamo là a vederle: cambiamento percepito come effetto, impresso sulla facciata di una casa, registrato nella terra e nelle facce della terra, scritto per strada.

L’autore si firma con lo pseudonimo ninfa di Farfarosa e ci tiene a non essere riconosciuto. Non interessa a nessuno! dice lui, io scrivo per me. Rime per ridere, rime per piangere, rime per ritrovare il filo del tempo. Queste rime nate per scherzo sono un esperimento linguistico. La lingua muta, si trasforma; nel tempo dimentica parole e ne inventa di nuove. La lingua imparata altrove, nella città e nello stato in cui si cresce, imparata dai genitori e dai parenti a loro volta nati in un altrove differente, fotografa uno stato, si confronta con le trasformazioni che anno dopo anno si incontrano quando si torna al borgo originario, sempre in sospeso. Si tratta di un ritorno temporaneo, che ormai la casa, la dimora del quotidiano, è dentro a un’altra lingua, una lingua straniera diventata quotidiana. In questo caso si tratta del coesistere fra il dialetto italiano parlato nelle montagne di questa provincia del Modenese e l’altro, il francese. Lingua straniera masticata con bocconi di mille sapori e accenti dalla generazione dei nonni, digerita da quella seconda generazione nata nell’altrove diventato nuova patria, metabolizzata nel sangue della terza, i nipoti, che della radice originale ormai assaggiano solo, forse, qualche parola, un sentore in punta di lingua, l’assaggio di una fragranza.

Una volta scritto, il dialetto diventa esercizio di stile fantastico, lingua d’invenzione che mescola realtà e immaginazione, scherzo in versi, gioco nel senso più autentico del termine, che in fondo, come racconta l’autore, portiamo tutti il peso di questa valigia degli antenati, ma una porta che si apre all’improvviso a volte ci indica la strada; una direzione nuova, quella forse dell’inaspettato che ancora è in grado di sorprenderci

Queste rime non seguono l’ordine originario, questo è un avvertimento nonostante, come è ovvio, il lettore non possa sapere quale fosse l’ordine originario. Questo è un segreto fra me e l’autore. Anche io mi sono divertita, mi sono presa la libertà di saltare, atterrare, fermarmi… in una parola inseguire il filo. Perché in fondo questo è il racconto che sta dentro e oltre queste manciate di parole come sassi, pietre raccolte e messe in tasca durante tanti momenti di vita: il viaggio dell’esistenza. Il vivere, fatto di giornate al sole e tempeste, diventare adulti, poi nonni, l’amore, la morte; una bara dove dentro guardiamo l’amore della vita che ci lascia e noi costretti a salutarlo, sapendo che c’è ancora un po’ di filo da vivere nella scatola del tempo, prima che la parola fine sia scritta anche per noi. Quello che resta è una candela nella notte.
E allora la scrittura è esercizio che ci aiuta a ripercorrere questo filo.

“Per la lettera persa
circa cinquant’anni fà
inventare al’arversa
la vita tornando là”.

(Re)inventare la vita alla rovescia ritornando là, in quella zona, spazio geografico e luogo del ricordo: vuoto dove il tempo accade, è accaduto e continuerà ad accadere; noi, testimoni, non possiamo che prendere atto di questa geografia del cambiamento sentendola sulla nostra pelle.

Rime da ridere e
da piangere

Come una cura,come una sfida, come un gioco!
scrivo solo per me, cercando le rime, non c’è tristezza nella melancolia
solo riposo, e tenerezzza, lontano dalla vita di ogni giorno. È un’evidenza, il cervello,
agitato dall’emozione, ordina le parole e in modo tale di avere e il ritmo, la musica, le rime!
La mano scrive, lui comanda.
Se pare più spesso lugubre, il soggetto della morte è anche quello della vita,
Vita pure felice. Mi sono sempre considerato fortunato.
Spesso per tanti eventi, ho trovato strane coincidenze e eventi,
con risultati favorevoli, quando potevano finire male!
Come una presenza, che mi guidava verso la porta giusta,
Forse per me, un’ossessione, una cruda realtà, nata non so dove, nell’infanzia,
o alla nascita, come dice la neuropsicologa Anne Ancellin Schützenberger,
o il neuropsichiatra Boris Cyrulnik, portiamo tutti il peso e i trauma dei nostri antenati.
Ma la resilienza è diversa e differente per ognuno.

La NINFA di FARFARUSA

Un qualche giorno
lungo la strada,
se guidi piano,
dopo la Veggia,
verso Saltino,
e Riolunato,
vedrai sul lato,
camminar lento
un vagabondo,
d’un altro mondo.
Lo sguardo alto
verso i monti,
ricco di sogni,
zaïno leggero,
niente altero,
dirà , volere
sul mont Cantiere
e suo paese
Boccassolese,
in dov’è nata,
da emigrata,
tornar’agiata.

Enn sava Ksà dir, e shteva zitt
e la guardava, russ, tut suffritt;
kma i giuvnn, e’n s’attentava;
l’ava capii e la ridiva,
Le, bella, int’ un voeshti a fiur;
kun, int ioetioe, di pupin, e bagliur.

Ritornerò nel bel paese
dov’è ‘l Cantier’ e la Ronchetta;
La terra ci torna maggese,
Perchè van’ i giovan’in città,
Il campanil’ sul rocc’ cimiero,
Sopra ‘l Bugione par’ altero;
Da i Cinghi a Cà Badina,
Dal Lamariin alla Calvana,
Anch’ alla macchia rassicura;
Vederlo, sentirlo, è cura,
Quando s’è sol’ nel bosc’oscuro
Tra la Chimera e Saturo;
O da lontano pellegrino,
Vagando sempre, col destino.

ALTRI TEMPI

sarà presto aprile
improcrastinabile
e già la primavera;
nasce solo brughiera,
nei campi abbandonati;
Nei vicoli deserti
non si sente il gallo
che cantava la diana
all’aurora’appena,
nemen’ il campanello
di pecore, di mucche
partendo verso i prati
cercar erba e bacche.
I tempi son cambiati,
nei paesi vuotati
stan chiuse le persiane;
I giovani non restan’
nelle case anziane.
vengono ‘na volt’a l’an;
Lavorano in città.
dov’ han’ le comodità.

ma poerchè Boccasshoel
i ha tu lascià i fioel?

partir akshi luntan!
i sugnavn a Pra’ Rdund
e Canter e prà d’ Dan!
perchè i ha tu lascià,
partir per tut e mund
quand i vlivn essrr a cà.
Cun in ment, arturnar,
sentir e campanil,
e i soe campanar;
ber un biker gentil
cuntar doel bal, parlar,
in cim’a cà d’pighett
star un po cun i vtiett.

Boccasshoel, Boccasshoel
i shparishnoe i toe fioel!

sadness

Poco, è ‘l tempo che rimane,
ci vuole vita con passione;
Ma la speranza non c’è più;
qualsiasi : raggione, virtù!
in questi giorni d’autunno,
mi dispero, com’in prigione,
sperando sull’ schermo, un cenno,
che manderesti, faccina, tù.
il giorn’ è come notte, nero;
scappa veloce al babaù,
e nel cielo, non pare vero,
è sparito il colore blù!!

La nostra storia non sarà banale
non la potremo cancellare più;
cosi va la vita ,quasi virtuale,
solo mie due rime diranno viepiù.

non contiamo gli anni,
con i capelli bianchi,
bello diventar’ nonni;
anche se sempre stanchi;
mostrar’ ai nipotini
il paese lontano,
dove son’ le radici,
antenati, amici;
insegnar’ il cammino
dei prati e dei boschi,
a passi da bambino,
non ci sono i banchi!
distendersi, sedere,
riposarsi col fiore;
nel campo e la macchia;
e perdere capoccia
a guardare,volto sù,
sdraiato,il cielo blù;
assaggiare le frole,
mirtilli e lamponi,
far’insieme le scuole
della vita, affini.

Corpo leso
Svogliato,
Vai disteso,
Quasi pronto,
Per eterno
Abbandono.
Nella  scura,
Chiusa, bara.

Ma chi s’arcorda pù ,
dùv’è, e Katshalù,
Oel Kosht, la Shushina,
E Fald, la Pianlina!
E Butshell, e Prà d’dan,
E lassù, d’e Canterr
E Fald, e Prà d’Paian.
Chi sà tutioe i sinterr?

Ura ien perss, nashcosht,
sut i boshk; sull i posht
del carbunaar; ben paar!
Loess ’ troevnoe, dop cent’ann
Ma chi’g’và a sudaar,
a tiapaar un malaan!

Chi s’arcorda anc’ura
D’la vita d ’ all’ ura?
Tagliar’ un pkun d’buccia
da far un paruliin
poer frol’e badjuliin

e pan , kun e kurtel
a foett, trop dur, pr’i dent,
bagnà, int’la surgent’
cun un pkun d’ furmaioe,
tiràà de tuvadel;
pianiin, poer pù assagioe.

Sai’ i tuoi cari
Non torneranno;
sono presenti
poco lontano,
se tù ci pensi,
vicino stanno;

com’un tesoro
torna nei sogni,
vita con loro;
quanti ricordi
tornar’ indietro
dai nostri cari.

Non sarà tanto,
da aspettare;
tornar’accanto
d’anime care
nel campo santo;
a riposare.

Giovane, appassionati!
Vivi vivo, non fermarti,
Con pazzia vai avanti,
muoviti, soffri, ma combatti

Non è facile la vita,
sopportare la ferita,
c’è orgoglio, se s’affronta
la pena, e se si lotta;

non si scappa alla fine,
suoneranno le campane,
ultim’ addio perenne,

se tu sei del paesino;
finirai un ricordino,
ogni tanto col lumino!

che si chiama Boccassuolo;
pel meritato riposo
nel prà santo, silenzioso.

Per la lettera persa
circa cinquant’anni fà
inventare al’arversa
la vita tornando là.

Nonna Mariantunia
“Ah! Dio v’ boendisha”,
Djiva la nunna,
Quand l’ha soe vdiva;
l’era madunna
e la ridiva.

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Perdersi d’estate

Il profumo dei gelsomini arrampicati sui cancelli che si disfano nell’afa

in città

rumore d’acqua degli irrigatori di sera
villette a schiera con le finestre aperte
i discorsi colti a frammenti.
Vicini che preparano grigliate,
ragazzi che tornano a casa con la borsa del calcetto sulle spalle
innamorati, nascosti nel buio.

Un vecchio signore annaffia l’orto.
Dopo cena si indugia sul terrazzo, a gambe incrociate
sperando che la brezza calma della sera
non passi mai.

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Siamo storie nella Storia del mondo

Siamo storie, siamo storie nella Storia del mondo

Le idee sono fili da inseguire che ci portano alla scoperta di luoghi diversi, talvolta sconosciuti, a pochi passi da noi. Le idee sono persone. Passo dopo passo, attraversiamo le pagine di libri, tempi e cuori. Perché in fondo che cos’è un libro? Si potrebbe dire molto su come la sua forma sia evoluta e cambiata nel tempo. Ciò che emerge dalla profondità di questo oceano del tempo è che ogni libro è un’onda capace di restituirci l’anima di chi non è più ed è stato.

Dentro una biblioteca ritroviamo le voci di tutti coloro che di persona potremo forse non conoscere, ma che incrociamo attraverso una voce che resta traccia, come inchiostro sulla pelle del mondo.
Sì, un libro, un’idea, una persona possono cambiare il mondo.
Ognuno di noi è un custode del tempo, un custode di segreti. Il pericolo della dimenticanza è appostato dietro l’angolo, come un’ombra nera o una luce troppo forte che rischia di cancellare questa traccia evanescente. La traccia effimera del nostro passaggio sulla terra. Eppure ogni giorno continuiamo a raccontare, continuiamo a raccontarci.

siamo-storie-nella-storia

Siamo storie nella Storia del mondo. Siamo piccole storie che scorrono nel fiume del tempo della grande storia del mondo. Non possiamo dimenticare che nei tempi più neri, dal passato alla triste pagina di un presente che purtroppo continua a ripetersi, le biblioteche sono state bruciate. In guerra le idee sono il nemico più pericoloso, perché l’idea contiene il seme della passione, della ribellione, della libertà. I libri e chi li custodisce è contrabbandiere invisibile della cultura originaria, che è capacità di coltivare l’umano che è in noi.

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Bellezza, un atto di resistenza

A volte dimentichiamo che la vita è una scommessa fin dal primo respiro e la capacità creativa
prende radici dalla mancanza. È attraverso l’immaginazione che l’umanità trova soluzione agli enigmi dell’esistenza.

Bellezza che cura

Arte e cultura da secoli sono considerate una terapia, una cura per il corpo e per lo spirito che si aggiunge alle molte forme in cui può essere intesa la medicina. Sì, perché il potere della bellezza, delle forme e delle parole è immenso: a raccontarlo e ricordarcelo sono stati i saggi di ogni tempo, mistici e artisti. Attraverso i sensi attiviamo la capacità di cambiamento che è in noi, sollecitiamo cuore e cervello, sperimentiamo emozioni e sensazioni. Ritroviamo la strada verso casa, la porta del difficile accesso a noi stessi. La bellezza ha un effetto curativo? Sì. Attraverso le tecniche di neuroimaging oggi sappiamo che le esperienze vissute sono in grado di accendere specifici neuroni e mettere in circolo molecole segnale come endorfine, dopamina e ossitocina, attiva quando facciamo l’amore ma anche durante il parto e nella gestione del dolore. Questi neurotrasmettitori agiscono sui centri più ancestrali del cervello, sono connessi a funzioni vitali come il battito cardiaco e la respirazione, oltre a influire sul modo in cui il nostro organismo si mantiere in salute attraverso la rete linfatica che collega l’encefalo al sistema immunitario.

memoria-del-cuore

La bellezza è un atto di resistenza… e resilienza

Vivere la cultura e respirare bellezza forse non ci salverà dall’attacco di virus e cellule impazzite, eppure, giorno dopo giorno può fare la differenza. Perché in fondo, anche in questa medicina che per secoli ha sezionato, tagliato e aggiustato con ago e filo, un po’ come poteva, si sta svegliando una consapevolezza nuova. Uno dei sintomi è la (ancora lenta) trasformazione del vocabolario: siamo stanchi di ascoltare parole come “nemico da combattere” e sentirci paragonare a robot a cui cambiare i pezzi. Il linguaggio della medicina, così come quello della comunicazione medico-paziente, ha bisogno di una trasformazione già dalle parole.

Forse questo bisogno di cambiamento lo stiamo già vivendo:
è la rivoluzione della bellezza
parte da noi, dalla capacità di accorgerci del mondo,
dagli atti di gentilezza e
dalla consapevolezza della gratitudine
che guarisce e ci fa godere della vita,
anche delle sue lacrime,
che fanno parte della storia
come la bonaccia dopo la tempesta e le attese,
i temporali estivi, le nevicate che tutto sommergono
il coraggio che sboccia di nuovo
e non si placa.
Rubare tempo
per ascoltare storie
e accorgersi della bellezza,
ricordare il viaggio dell’esistenza
tessendo il filo
di un attimo da non dimenticare.
Nella trama del tempo
cucire il senso
sapendo che
ogni giorno
è un viaggio,
non sappiamo
dove ci porterà.
Il senso è in ogni passo
e allora, avanti
senza meta
né destino

Vivi… fino all’ultimo respiro

Le parole hanno un potere, un’energia grandissima. Nessuno può dirci quanto ci resta da vivere: nessuno può saperlo. Quello che sappiamo, invece, è che il nostro corpo è un grande mistero ed non esiste un corpo senza la mente. Siamo un tutt’uno. Ecco perché quello che ascoltiamo, ciò che leggiamo e vediamo, quello che ci emoziona e fa ridere, commuovere e stupire ha un effetto. Le nostre emozioni si prendono cura di ciò che siamo, del nostro bisogno di sorridere e avere una qualità di vita, nei giorni felici così come in quelli più tristi. Anche nella malattia, fino all’ultimo respiro: siamo vivi. La dignità passa anche attraverso questo: la consapevolezza della nostra umanità.

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Perdersi a Bologna

Quando il sole di giugno esplode e la luce è così intensa da far male agli occhi
chi la spegne quella maledetta lampadina?
Un attimo di pace, una nube passeggera.
La vampa del caldo e la città che si scioglie
ferma al semaforo
la signora indiana che un anno fa aveva il pancione ora con il suo bambino a passeggio
la frutta nel sacchetto
i coraggiosi che ordinano tortellini e lasagne.
Dentro san Petronio l’aria è un respiro immenso e freddo che si dimentica del traffico fuori.

Il vento che a fine giornata si incanala fra i portici,
la luce opaca del tramonto che riempie le strade e inonda i tetti…

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Perdersi in un profumo

Una volta a scuola ci hanno dato un tema da fare, eravamo alle Medie. Il titolo non lo ricordo. Aveva a che fare con il tempo passato a scuola, la nostra vita lì in quell’edificio dove i piani si aprivano come ali intorno alle scale centrali, con tante aule come piccole scatole da dove fuggire per una passeggiata solitaria quando fingevo di dover andare in bagno e finivo per prendere la strada più lunga solo per vagabondare fra i corridoi vuoti sbirciando dentro le classi. Quello che ricordo è che dopo quel tema, il mattino della correzione, l’insegnante ci disse che tutti noi avevamo citato il caffè.
Ogni giorno, fra le dieci e le dieci e trenta, due colpi di nocche alla porta e un attimo breve di attesa; la bidella col suo grembiule azzurro entrava con passo spedito e togliendolo dal vassoio, appoggiava sulla cattedra l’espresso appena fatto.

Perdersi in un odore
il profumo di caffè che riempie la stanza,
la polvere quella tostata e macinata fresca, al momento:
ogni volta apro il barattolo e sorrido.

Perdersi in un profumo,
l’infanzia ha quello di sapone da bucato
inconfondibile
e affondare il naso dentro le lenzuola appena cambiate,
i sacchetti di lavanda in fondo ai cassetti
l’interno dell’armadio che sa di buono
apri le ante e chiudi gli occhi, da piccoli ci giocavamo a nascondino
immobili, sulle pile di coperte ben lavate e profumate
sarei potuta rimanere là per ore.

Perdersi in un puzza,
un profumo, un odore.

Le fragoline di bosco quqndo le schiqcci per sbaglio,
il legno delle matite colorate e la gomma che cancella bucando il foglio,
l’odore dei corridoi di scuola
il disinfettante
quello del dentista di menta e colluttorio.
Le scale appena lavate del palazzo,
l’odore delle strade,
dell’ospedale.
L’odore delle sale d’aspetto.

L’odore del treno, delle stazioni e la puzza di benzina di quando ti fermi a fare il pieno.
Il finestrino giù e l’aria che entra
che odore avrà?
Il nostro cane, che se ne intende, mette la testa fuori e con il naso all’insù, mentre la macchina va, analizza
le correnti e tutte le loro provenienze.

L’odore di erba tagliata è il profumo dell’estate,
caldarroste quello dell’autunno, sentore di legna e calore di fuoco.
Brace,
carbone,
sugo che cuoce
arrosto della domenica.

Odore di pane fresco,
la mattina
fiori appena raccolti
rose sbocciate.
Odore di pioggia
cera di candele,
piante selvatiche
menta

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