7 maggio

vienna-bombardata-1809

“Gioia si chiama la forte molla
che sta nella natura eterna.
Gioia, gioia aziona le ruote
nel grande meccanismo del mondo.
Essa attrae fuori i fiori dalle gemme,
gli astri dal firmamento,
conduce le stelle nello spazio,
che il cannocchiale dell’osservatore non vede”
Nona sinfonia in Re minore, Op. 125 di Ludwig van Beethoven – IV movimento
Dall’Inno alla gioia di Friedrich Schiller

Nel 1809 Vienna è presa d’assedio.
Il 22 maggio nel piccolo comune di Aspern, non lontano da Vienna, si combatte. Sono le truppe di Napoleone, che cerca di attraversare il Danubio e conquistare il controllo di Vienna. Si combatte da quattro giorni, senza sosta, fino a quando francesi e austriaci si trovano a tiro di pistola, faccia contro faccia.

Batteranno in ritirata i francesi, ma tenendo in pugno due postazioni strategiche, l’isola di Lobau e Vienna. Nel frattempo, nella capitale austriaca c’è rumore infernale. Dal 12 maggio i soldati francesi occupano Vienna.

In uno scantinato un uomo si nasconde dalla guerra, le mani sulle orecchie. Cuscini, che premono forte sui timpani, ma non riescono ad attutire il boato tremendo della pietra che si sbriciola. Cannoni nella notte, urla, calpestio di chi corre urlando e carri.
È Ludwig van Beethoven, 39 anni. Da quando ne ha 27 combatte con la sordità.

Se credi che il mondo di un sordo sia di silenzio ovattato ti sbagli. Quello sperimentato da Beethoven si chiama fenomeno del recruitment: duna distorsione che mette in crisi la percezione uditiva, la differenza fra l’intensità oggettiva dello stimolo e quanto viene effettivamente percepito dal soggetto. La testa esplode. Di solito percorsa da un bisbiglio costante in cui è sempre più faticoso riconoscere le voci, i colpi delle cannonate la spaccano, ne fanno mille pezzi.

Per anni cerca di tenere segreta la malattia: sordità che lo isola dal mondo, dalla musica e persino dalla percezione di se stesso. Scrive. I Quaderni di conversazione diventeranno il suo modo per comunicare, ma già in una lettera del 1801 Ludwig van Beethoven scrive:

“devo confessarti che conduco una vita infelice… sono due anni che evito qualsiasi compagnia, perché non posso dire alla gente che sono sordo… Il dott. Franck mi ha curato con olio di mandorle, ma senza alcun effetto… poi mi ha prescritto tè per gli orecchi, ma questi sibilano, e sento un brusio giorno e notte… Posso dirti che la mia vita si trascina miseramente, se avessi un’altra professione la mia infermità non sarebbe così grave, ma nel mio caso è una menomazione terribile! Devo mettermi accanto all’orchestra, altrimenti non odo le note acute degli strumenti e delle voci posso udire i toni di una conversazione ma non le parole, e se qualcuno grida non lo posso sopportare”.

Johann Nepomuk Maelzel, inventore del metronomo, realizza un cornetto acustico per Ludwig van Beethoven che di strumenti con cui sentire ne ha diversi, fra cui una bacchetta di metallo in ottone che posiziona a contatto con la tavola armonica del pianoforte e tiene fra i denti in modo da avere una percezione fisica diretta delle vibrazioni del suono. È lo stesso principio degli amplificatori acustici di moderna generazione, per trasmissione ossea.

Nel 1817 la società Filarmonica di Londra commissiona quella che diventerà nota come Sinfonia corale, sinfonia n. 9 in re minore per soli, coro e orchestra op. 125. L’ultima sinfonia di Ludwig van Beethoven, la prima a prevedere il coro. Nasce dall’Inno alla gioia del poeta tedesco Schiller. Nel 1972 sarà adottata come Inno europeo, nel 2001 lo spartito e il testo vengono dichiarati dall’Unesco Memoria del mondo.

La prima della Nona sinfonia sarà il 7 maggio 1824 al Theater am Kärntnertor di Vienna. Il compositore inizialmente aveva pensato alla piccola sala del Ridotto, ma gli amici lo convincono a scegliere il teatro. A condividere il palco con lui il maestro di cappella del teatro Michael Umlauf,che ufficialmente dirige la sinfonia. Il maestro girava le pagine dello spartito. Gesticolava furiosamente, dirà il violinista Joseph Böhm: “si muoveva come se volesse suonare tutti gli strumenti da sé e cantare per conto dell’intero coro”. Che esperienza è dirigere una sinfonia che non puoi sentire?
Alla fine, di fronte a lui il pubblico. Per cinque volte uno scrosciante battito di mani acclama il compositore, per la prima volta sul palco dopo dodici anni.

“Viaggio tra le note: I segreti della teoria e dell’armonia musicale” di Dario Giardi




15 novembre

Domenica, svegliarsi tardi. O meglio, presto

prestissimo e poi,

Riaddormentarsi. Guardare il mondo dalle finestre appannate, il caffè e i toast. Giochi sul divano.

La prima domenica di lockdown, il giorno prima di compiere sei mesi.

Stare in piedi per un attimo, da solo

La scoperta della giornata,

Il sangue da una gengiva, mentre scivoli sbattendo sul pavimento e imperterrito, provi a gattonare. La prima cacchetta dura che sembra un po’ quella di una capretta. Addormentarsi di botto, il pomeriggio grigio che diventa sempre più buio. Lentamente.

Malinconia della sera, così è la domenica




Le cose che mi danno pace

Guardare le tegole di quel tetto che vedo da sempre, così da vicino che
la prospettiva è la stessa dei codarossa appoggiati sul filo.
Le gocce di pioggia che rimbalzano sulla grondaia.

Strapparsi via le sopracciglia e a volte osare cambiare quella sagoma che fa un po’ parte di noi,
così com’è
il ricordo di come mia nonna si metteva il rossetto
rosso, ogni mattina
vicino alla finestra con lo specchietto in mano

Le cose che mi danno pace,
le cose che ci danno pace…
Ogni tanto bisogna tornare a chiedersele,
sentirle sulla pelle

Un libro bello e un pomeriggio per leggerlo,
il cielo completamente opaco eppure luminescente,
a modo suo,
in una giornata grigia.
La distesa di nuvole bianche come coltri,
la coperta pesante di quelle che si usavano una volta
peso della trapunta che schiaccia e noi sotto,
fuori l’aria ghiacciata della stanza.

Camminare nella folla,
che non abbiamo bisogno dei centri commerciali per acquistare,
è che dona una strana inspiegabile pace
perdersi nella folla, su e giù
fra le scale e i piani e gli ambienti
uno di quei centri coomerciali grandi, molto grandi
percorrere il vuoto dello spazio, navigarlo
osservare le facce della folla,
fermarsi a prendere un caffè in un posto sconosciuto e
non tornarci mai più.

Il mare d’inverno,
guardare la pioggia dalla finestra.
La tempesta dietro una vetrata, in solitudine.
Piangere sotto la doccia.
Guardare le onde dall’oblò di una nave,
restare immersi nella vasca da bagno finché
l’acqua non diventa tiepida e poi aggiungerne ancora

sentire la vita che ci attraversa,
felicità, dolore anche, a volte. Malinconia

Le luci di Natale,
anche se non è Natale.
Accendere una candela nella notte,
il profumo della torta di mele. La
colazione lenta del sabato mattina,
agitare la mano di rimando a un bambino sconosciuto che saluta
in macchina al semaforo
arrivare davanti alla porta di un palazzo dove abbiamo abitato/blockquote>




Assenza

Una luce spenta,
una finestra che saprai si spegnerà
questa è l’assenza.

Si dispiega con ali grandi nella notte.

assenza

vuoto di voci.
Silenzio, adesso




Scoperte meravigliose

conoscere-con-la-pelle

I piedi sono venuti dopo, le mani anche.
All’inizio ci sono state le foglie.
Mille respiri che si muovono intorno, sono le foglie dell’acero del giardino scompigliate dal vento.
Quando le guardavi all’inizio della tua vita era estate, colore verde, adesso ti stupisci perché è passato solo un attimo eppure ora le vedi cambiate, stregacomanda colore… giallo! Autunno è arrivato.
A testa in su, dentro una culletta dove ora non stai più, minuti interi hai passato a osservare.
Adesso afferri. Allunghi una mano e accade,
Ah sì, è vero. Me n’ero scordato, si muovono se ci penso davvero, se mi concentro sul serio.
Sono pezzi di me. Mani e piedi, si chiamano.

scoperte-meravigliose

E adesso cos’è questa fantastica cosa che fa rumore?
All’inizio del Novecento, che per te è molto più di un secolo fa, a un portinaio viene in mente di mettere insieme un ventilatore, una scatola e una spazzola. Prima ancora ci aveva provato una coppia di Chicago, collegando un tubo a una pompa agganciata a una carrozza di cavalli.
Il portinaio, che sta in un posto molto lontano al di là del mare e anche dell’oceano, l’Ohio, vende il brevetto a suo cugggino… Il signor Hoover.
Il resto è storia. Il nome di questa invenzione rivoluzionaria per la vita domestica è ASPIRAPOLVERE.
Un giorno ci sono buone probabilità che la odierai. Ma non ti preoccupare, prometto solennemente che eviterò di passarla di domenica mattina

“Che bello, se piove porteremo anche l’ombrello”
Stefano Rosso

ombrello-origine

Si chiama ombrello, ma la pioggia ha incrociato la sua vita solo per caso. Dall’Estremo Oriente, dove era simbolo di nobiltà, all’antico Babilonia si passeggiava con l’ombrello sotto il sole. Immagina compassati dignitari cinesi fra i vicoli di terra, camminare compunti a piccoli passi; intorno la folla dei mercati d’Asia, bambini a piedi nudi che corrono e sbattono contro le gambe, si nascondono fra le ceste intreciate. Chi urla, chi vende pesci vivi e tartarughe per il brodo. E loro, lenti, solenni, passano invisbili protetti dal tenue cono d’ombra del piccolo ombrello dipinto. Era il XII secolo a.C. e sembra il popolo cinese sia stato fra i primi a usare l’ombrello parasole. A trovare il suo uso come parapioggia la Roma imperiale, dove inizia a essere usato per proteggersi dalle intemperie. Poi l’ombrello viene dimenticato; resta lì, trascurato in un angolo come è facile dimenticarsene dopo la pioggia proprio nel punto in cui è finito l’acquazzone.
Passano i secoli, cinquecento anni, ed ecco che poi arriva uno che se ne ricorda. To’ guarda com’è comodo uscire a passeggiare con l’ombrello.




Ascoltare il cuore

Questa sera mi viene in mente un libro che ho letto su come educare un bambino. Il concetto fondamentale era l’imparare a non-fare nulla: addormentarsi da soli è un atto di autonomia, azione e dichiarazione d’indipendenza fra i primi che facciamo nella vita e questa è una cosa bellissima. Nel libro veniva spiegato che ogni gesto diventa un rito della buona notte che poi sarà imprescindibile fare. Una volta abituati si dovrà passeggiare se si passeggia, o non so che altro, ognuno sa del suo. È per questo che la cosa migliore sarebbe accompagnare i piccoli nel posto dove ci si vuole addormentare, mantenere il contatto visivo e di pelle guardandosi negli occhi e tenendosi per mano, poi lentamente lasciare che Morfeo arrivi e faccia il suo corpo. Senza dipendere da nulla.
Che bello, ho pensato quando ho letto quel libro. Insegnare e imparare l’autonomia. Non avere appigli. Non dover camminare ore come quelli che a un bel momento si allontanano per ore

poi c’è questo fatto di cui mi rendo conto, io
sono una passeggiatrice seriale. Capita, di essere passeggiatori seriali.
Di solito sono quelli che amano fare nuovi percorsi, che escono a buttare la spazzatura e finiscono per fare ritorno dopo ore; le città se le viaggiano passo dopo passo, che grammaticalmente non sarà molto corretto ma concettualmente rende benissimo quella che alla fine è filosofia e arte di vita, il camminare.

Ecco, stasera tu combatti contro il sonno che arriva e io di scatto decido di alzarmi e anzi non sono io a deciderlo ma le mie gambe, che da sole lo agiscono e io mi ritrovo già lì, ferma sui piedi che mi sostengono e poi un passo dopo l’altro, con te sul braccio destro, che agiti la testa scoordinato e ti lamenti come un piccolo gatto.
Ecco, me ne rendo conto adesso. È già qualche settimana che tre quattro passi bastano a calmarti. Li abbiamo fatti in un corridoio d’ospedale che si è allungato a dismisura per contenere tutti i passi che servivano, con il nonno hai camminato in giardino durante i pomeriggi e le mattine estive; abbiamo camminato su e giù per le scale, che ti piacciono moltissimo, e in cucina dove a volte basta arrivare dal frigo all’angolo che già sei addormentato.

Adesso lo so. Sarei io a perderci se non lo facessi, questo che forse è già un rituale ed è il più antico atto umano, il primo della vita, uno dei gesti più belli che conosca. Camminare.Da quando cammino con te sperimento l’attesa, perché, insieme, camminiamo le emozioni aspettando il sonno. Un tempo avevano un nome per questo, la chiamavano veglia. Vegliare significa fare qualcosa in attesa di qualcos’altro, prima o poi scopriranno che il cervello in questo modo si libera e rigenera. O forse lo sanno già. Oggi è una parola desueta, ne conosciamo il senso ma la pratichiamo poco, che di tempo per vegliare non ce n’è più e nemmeno serve; l’unica veglia è forse rimasta la notte di Natale.

E allora mi ci perdo, in questi passi. Mi godo il momento. Tu che di solito all’inizio ami stare quasi verticale, appoggiato alla spalla. Appoggio il mio mento sulla tua piccola testa di velluto che ci sta tutta sotto al mio collo, il mio mento la contiene. Mi muovo, le tue palpebre curiose fino a un attimo fa sono socchiuse, a volte le guardo dallo specchio se capita di averne uno vicino.Piano piano, scivoli davanti e rimani lì, con la fronte appoggiata sulla pelle fra la mia clavicola e lo sterno. Ami incastrare la tua faccia sotto la mia, quante notti hai dormito così appena tornato dall’ospedale, il naso dentro la mia gola e il corpo rannicchiato sopra al cuore e ai polmoni, respiro ritmato dal ritmo della vita.
Così, adesso balliamo. Qui in cucina. Cheak to cheak, guancia a guancia, come canta una canzone di Aretha Franklin che quest’estate ascoltavamo sempre appena svegli. Guancia a guancia, la tua piccola mano tiene un an angolo della mia maglietta. Camminare diventa un passo di danza. Insieme, cheak to cheak. 
Crediamo che con i bambini si debbano fare cose per insegnare l’educazione. Poi, a quarant’anni suonati passiamo ore, giorni, settimane ad ascoltare noi stessi e gli altri, single e insonni, lamentarsi di non riuscire a trovare nessuno che scaldi il letto vuoto. Aneliamo un abbraccio, siamo pronti a prostrare la dignità per un bacio e qualcuno che ci regali briciole di coccole. Con i bambini no, attenzione. Mica che poi lo vizi.

E noi danziamo. Quanti balli abbiamo fatto, vecchi lenti dimenticati e canzoni di anni fa, dopo un po’ giriamo la rotella della radio e troviamo nuove stazioni. Non sei stanca? mi chiedono. Sono stata seduta tantissimo nella vita. Se uno fa bene i conti a scuola, incastrato in un banco, ci passa anni, mesi interi se calcoliamo compiti a casa e ripassi. Poi, il lavoro. Qualcuno ha provato a proporre tavolino e scrittura in piedi, ma alla fine l’idea non decolla. A scrivere si sta seduti; chissà, forse il cervello per concentrarsi ha bisogno di mettere radici. Ore, giorni interi a leggere, amo leggere e questo sì, puoi farlo anche in piedi, precaria in metropolitana o davanti alla finestra. 

Adesso appena posso cammino. Si cammina a velocità diverse, è la vita che ci insegna a cambiare ritmo. È un mal di schiena o una vescica, è una cosa bella come una pancia tonda, è uno spazio ristretto o un peso da portare, a volte età o malattia: come vai veloce, mi disse anni fa una signora, io ci metto un’ora per fare questa strada. Non importa. Lei vede dettagli che a me sfuggiranno. È il tempo a insegnarlo, si impara ad andare più lentamente, accorgersi del mondo e di come lo viviamo, respiro dopo respiro.Con te ho imparato a camminare passo a passo. Sto imparando. Me la godo questa lentezza, pochi passi e la stanza diventa un universo intero. Un piede davanti all’altro ed è già un passo di danza. 

Fuori dalla finestra si accendono le luci e intanto si spia l’arrivo di papà che entrerà dal cancelletto. Anche da bambina a quest’ora si aspettava l’arrivo di papà, suono dei pneumatici sulla ghiaia, fanali gialli nella sera invernale già notte. A quest’ora stavo nel mio posto preferito, in cucina dove avevo un cassetto tutto mio. Mi piaceva il quadrato di pavimento creato fra il frigorifero, l’armadio del pane e la porta che dà sulla sala, tenuta chiusa per evitare che il caldo si disperdesse. Mi sdraiavo per terra,la tuta sopra alle piastrelle, e dal cassetto, l’ultimo in basso, tiravo fuori tutti i pennarelli e li spargevo intorno. Avevo sempre album di spessore da riempire di colori.
Cheak to cheak, a passo lento mentre la sera arriva




Cose che si imparano con l’età

A dieci o vent’anni
mica lo capisci
troppa fretta
poco il tempo

cose che si imparano con l’età.

A perdonare, soprattutto se stessi,
che la siesta ha la sua bellezza

l’importanza degli amici, ma quelli veri e
non importa se non ci vediamo mai

trovare il tempo per quello che ami e
per quello che ami

mettere in pratica le spericolatezze subito
quando ti va,
altrimenti poi il coraggio se ne va

prenderti cura dei denti
evitare le tinte con l’ammoniaca
non piangere troppo sugli amori infranti
ricordarsi che la fine di qualcosa porta sempre con sé tristezza,
ma
ogni nuovo inizio
ha bisogno di una fine
per poter cominciare.

Assaggiare tutto,
specialmente se una persona ha cucinato per te.

Impara che a volte si delude
anche chi si ama, ma
non deludere te

sii fedele ai tuoi sogni
continua a chiederti
ciò che per te vale davvero la pena

ricordati che potrebbe cambiare
quello in cui credi,
non avere paura di diventare
una persona diversa

chi sei,
lo sei
adesso