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Storia di Nat Love

Nato schiavo, è un uomo libero e decide di andare a prendersi il suo futuro diventando un cowboy

La storia del cowboy Nat Love

cowboy Nat Love

Era nato in un giorno di giugno del 1854, nessuno sa esattamente quando. Si chiamava Nat. Nat Love.

Era nato schiavo in una piantagione del Tennessee. Che cosa significa essere schiavo? Schiavo è quando qualcuno pensa che puoi essere di sua proprietà. Tu ci credi davvero, che qualcuno possa di proprietà di qualcun altro, ti sembra possibile? Nat Love era nato in un mondo e in un tempo in cui qualcuno credeva che fosse possibile e infatti il suo cognome, “Love”, era il nome del proprietario della piantagione dove viveva. Ma con un nome come quello, che dopo tutto significa una delle parole più rivoluzionarie del mondo, “amore”, la vita doveva avere in serbo una bella sorpresa pronta ad accadere.

Nat Love, nato in un caldo giorno di giugno di due secoli fa, nel 1854, aveva un papà e una mamma. Il suo papà faceva il caposquadra e la sua mamma era la responsabile di cucina che sfamava tutta quella gente impegnata dalla mattina alla sera nel lavoro dei campi. Aveva anche un fratello e una sorella: si chiamavano Sally e Jordan.

Sai che agli schiavi era proibito leggere? Ma il papà di Nat, che si chiamava Sampson, gli insegnò a leggere. In segreto. In quel periodo in America ci fu una grande guerra perché gli schiavi si erano stufati di essere schiavi e altri che schiavi non erano pensarono che fosse una cosa molto brutta continuare a considerare le persone come proprietà di qualcuno così tutti insieme fecero una guerra, per difendere la libertà e dire a tutti che siamo persone e le persone sono libere.

Siamo persone e le persone sono libere

Alla fine ce la fecero: vinsero la battaglia, anche se poi fu necessario molto tempo per convincere la testa delle persone che ognuno di noi è davvero una persona libera e la libertà è dentro ognuno di noi. I genitori di Nat continuarono a vivere dove erano sempre vissuti, coltivando tabacco e mais. Ma il papà di Nat morì e così Nat iniziò a cercare un modo per aiutare la sua famiglia: avevano bisogno di mangiare, di vestiti e cose utili. Come posso fare per aiutare la mia famiglia, si chiedeva lui?

Devi sapere che Nat Love era davvero bravo con i cavalli. Sapeva cavalcarli, capirli, addestrarli. Forse, in una semplice parola, li amava. Fu così che Nat inizia a lavorare in un ranch e un giorno succede che si trova a una festa di paese, una di quelle serate dove c’è la musica, si beve, si balla e si festeggia sotto le stelle per tutta la notte. C’è anche una lotteria: tu compri un biglietto poi estraggono dei numeri e se sei così fortunato da sentire i numeri che hai in mano allora hai vinto. Bè, quella volta Nat Love non poteva credere alle sue orecchie: era proprio il suo numero quello che stavano dicendo.

Vinse un cavallo. Lo vendette al proprietario del ranch dove lavorava per 50 dollari e con quei soldi decise di partire. Sì, proprio così. Partì per il viaggio alla conquista del suo futuro. Aveva 16 anni e decise che sarebbe andato nel grande West, il territorio dall’orizzonte sconfinato, dove tutto era possibile, terra di briganti, deserto e cowboy.

Vaqueros, i primi cowboy

A Dodge City, nel Kansas, Nat Love iniziò a lavorare come cowboy al Duval Ranch, in una tenuta sul fiume Palo Duro. Imparò a seguire una mandria a cavallo e tenere lontani i ladri di bestiame. Nat Love galoppava con il suo cavallo in lungo e in largo per la prateria, con il suo lazo e un vecchio cappello sulla fronte. Correva nel vento della notte e fra la polvere del giorno sotto al cielo sfolgorante, caldissimo d’estate, ghiacciato d’inverno. Era forte e coraggioso, lo conoscevano tutti nei dintorni.

Un giorno Nat Love sellò il suo cavallo, salutò chi conosceva e cavalcò fino in Arizona. Lì, sul fiume Gila, c’era un ranch, il Gallinger Ranch, e lui iniziò a lavorare lì. Quando aveva tempo andava al saloon, che era un po’ il bar dell’epoca in quei posti e al bancone conobbe tanta di quella gente: cowboys famosi come Billy the Kid, Pat Garrett o Bat Masterson. Lui era solo un ragazzo e loro già dei grandi, per questo gli piaceva ascoltare le loro storie e continuare a sognare.

La vita avventurosa di Nat Love

Un’altra volta dovette guidare una mandria fino a Deadwood, che a dire il vero signfica qualcosa di molto simile a “bosco morto”, un nome che non invoglia visite, nel territorio del Dakota, una pianura arida dove il cielo blu si staglia sulla terra piatta e arancione. Proprio lì lo scrittore Edward Lytton Wheeler diede a Nat Love un soprannome con cui rimase famoso per il resto della vita: Deadwood Dick, perché al rodeo di Deadwood Nat vinse e stravinse tutte le gare dimostrando di essere il più grande cowboy di sempre.

In quel periodo c’era un’altra tempesta nell’aria. Antiche tribù come quelle dei Sioux avevano la loro guerra da portare avanti. Si ribellavano contro chi voleva rinchiuderli nelle riserve e aveva rubato loro la sacra terra. Gli indiani, che abitavano queste vaste pianure da sempre, non avrebbero mai pensato che la terra fosse di qualcuno e men che mai loro. La terra è della terra: siamo noi ad appartenere alla Terra, dicevano, ed è un pensiero bellissimo questo. Ma altri, che invece la terra la volevano ed erano pronti a strapparla, arrivarono fino a quelle pianure ai confini del mondo e iniziarono a uccidere i bisonti che correvano liberi cacciando via gli indiani. Ma questa è un’altra storia.

La seconda vita di Nat Love, ovvero quando il cowboy appende il cappello al chiodo

Quello che invece accadde al cowboy Nat Love è che in Arizona un giorno incontrò anche lui gli indiani. I pellerossa, li chiamavano, perché passavano la loro vita libera, a cavallo e all’aperto; dormivano in grandi tende chiamate tepee, erano abbronzati e forti, indossavano collane e piume colorate fra i capelli scuri. Tu immagina una giornata polverosa e calda con il sole alto, loro, i pellerossa della tribù Pima, sui loro alti cavalli selvaggi, che cavalcavano senza sella, e lui, un cowboy di nome Nat Love, solitario sul suo cavallo. Loro pensarono che lui fosse uno dei cattivi, uno dei cowboy che arrivavano lì per distruggere le loro tende e rinchiuderli. Così lo inseguirono con le loro frecce e Nat Love fu ferito quattordici volte, raccontò dopo.

Fu la pelle a unirli. Perché Nat Love era nato in America, ma aveva una storia che veniva da lontano, da un paese immenso chiamato Africa dove il sole brucia fortissimo, dove una volta c’era il mare e ora il deserto che solo certi azzurri cavalieri sanno esplorare. Anche lì un giorno era arrivato qualcuno, di nuovo, che credeva si potessero possedere le persone e così le aveva caricate su una nave e portate via, al di là del mare, verso una nuova terra sconosciuta che poi era diventata nuova casa, la stessa in cui era nato Nat Love e anche loro. Sta di fatto che la sua storia Nat Love ce l’aveva scritta in faccia, negli occhi e sulla pelle. E anche loro: è così che si riconobbero.

Perché succede che a volte basta un attimo per riconoscersi, soprattutto se hai centinaia di anni sulle spalle e una storia che per tutta la vita non ha cercato altro che libertà. Dicono che solo chi abbia conosciuto che cos’è la prigione possa sapere com’è fatto il gusto autentico della libertà. Forse anche per questo Nat Love proprio non poteva fermarsi. La tribù Pima avrebbe voluto adottarlo e farne un membro del loro gruppo: lo curarono e lui visse nelle loro tende, scoprendo le erbe che loro raccoglievano da millenni, da mangiare e per curare le ferite. Scoprì che cosa significa sedersi attorno al grande fuoco, insieme, e vedere un cielo stellato come solo nel deserto e in certe sterminate praterie si riesce a scorgere. Vide l’amicizia e il senso di solitudine, che sempre è nel nostro cuore, perché, ricordati bene: il Destino è dove ti porta la strada che hai nel cuore, solo a lei devi essere fedele. Perché solo tu sai per che cosa batte il tuo cuore.

Il cuore scalpitante di Nat Love batteva per essere libero e così alla prima occasione buona acchiappò un pony e galoppò via. Quando si fermò era arrivato in Texas. Dopo una manciata di anni la sua vita si intrecciò a quella di Alice e fu per sempre: ebbero una figlia, che crebbe fiera e bella, bella come solo sa renderti lo sguardo orgoglioso di chi ti guarda con libertà. A Denver Nat Love lavorava come facchino in una stazione di autobus. Ogni tanto si fermava e guardava tutta quella gente che andava e veniva, instancabilmente, da una parte all’altra dell’America: viaggiatori solitari, donne con i loro bambini, vagabondi, operai diretti verso le famiglie lontane. Ognuno partiva con un viaggio nel cuore, ognuno tornava con un sogno dentro, che lo aveva portato lontano o lo riportava a casa. Un giorno ci saltò sopra anche lui su quel treno perché iniziò a lavorare lungo la linea ferroviaria che collegava la città di Denver a Rio Grande; si occupava dei bagagli a bordo dei vagoni letto.

Te lo immagini tu, un vecchio cowboy mescolato ai bauli e ai pacchi da caricare e scaricare dai treni? Se riesci a immaginartelo allora sappi che nessuno, proprio nessuno di noi, potrebbe mai indovinare quante vite può vivere una persona in tutta la sua vita. Quando aspetti alla fermata di un bus e guardi chi arriva e chi va riflettici bene, anche solo per un momento. Perché forse è solo con il potere dell’immaginazione e qualche piccolo dettaglio spesso così minuscolo da passare inosservato se riusciamo a farci un’idea delle vite degli altri, che sempre, e lo ripeto, sempre, rimarranno comunque un grande, insondabile, segreto.

Così pensava Nat Love, cowboy che era stato schiavo ed era diventato uomo libero, cosa che in fondo era sempre stato, libero, dico, anche quando gli altri ancora non lo sapevano. Perché non dobbiamo mai, dico mai e poi mai, aspettare che siano gli altri a farci scoprire ciò che siamo: impara a essere la storia che di te vuoi lasciare. Tutto è possibile, ma solo quando inizi a farlo accadere. Fu così che dopo essere stato domatore di cavalli, cowboy, padre, facchino e addetto ai treni, Nat Love prese la penna in mano: divenne scrittore, cosa che anche quella forse era sempre stato perché non aveva mai smesso di raccontarsi la sua storia, anche solo per non dimenticare tutta la strada fatta, fin dove l’aveva portato.

Con la storia della sua autobiografia mise da parte un bel gruzzoletto; continuò a vivere in California, dove si era trasferito con la sua famiglia. Lavorò anche come corriere e guardia per una società di sicurezza, un mestiere che in fondo gli ricordava l’inizio della sua vita, quando doveva tenere d’occhio la mandria e stare attento ai ladri di bestiame: solo che qui non andava a cavallo e attorno non si levava la polvere delle sterminate praterie nel selvaggio West, c’era Los Angeles e le sue strade immense dove un giorno, di lì a non molto, avrebbero costruito grattacieli infiniti, che forse li chiamano così proprio perché come dita impavide sembrano fare il solletico all’alto. Los Angeles, la città degli angeli, degli Anni Ruggenti, gli anni venti, dove si sarebbe suonato il jazz tutta la notte: le melodie che i suoi genitori cantavano al tramonto nella piantagione di Love, ormai scomparsa, insieme a tutte quelle persone che ci erano passato. Gente che aveva sudato, lavorato, cantato, ed era morta sognando un altro mondo: un mondo diverso e migliore che forse non avrebbe visto mai ma che da qualche parte, nel cuore, esisteva da sempre.

E allora Nat Love prima di tornare, passo dopo passo, a casa da sua moglie Alice a volte si sorprendeva a fermarsi un attimo, in una pausa ribelle, perché fosse anche solo per una manciata di istanti dobbiamo ricordare di rubare al ritmo della routine infernale un respiro che ci faccia ricordare di essere sognatori. Guardando il tramonto non poteva non sfuggirgli un sorriso: quante vite può vivere una persona. Eppure, in fondo in fondo, non andiamo mai via dal nostro cuore: è lì dentro che viviamo e quello che sentiamo lo portiamo anche fuori, ovunque andremo.

Grazie a Farwest.it per le informazioni su Nat Love. Da leggere per approfondire:

 “The Life and Adventures of Nat LoveBetter Known in the Cattle Country as ‘Deadwood Dick’ by Himself”, autobiografia (1907)
 “Life and Adventures of Nat Love”




Ricordi dal bel tempo

Mio nonno seduto al tavolo bianco del giardino, nelle mattine di tarda primavera, a pulire quelli che chiamavamo cornetti, i fagiolini verdi

Mia mamma mentre stira e alle sue spalle la radio che va, un pomeriggio qualunque di una stagione qualunque, il panno grosso e morbido con sopra il lenzuolo dove passa il ferro caldo e io di fronte che faccio i compiti

I giorni della magnolia in fiore

Andare sotto al grande pino, gigante buono e silenzioso, all’ombra dei suoi rami lunghi come braccia troppo lunghe, con i piedi sugli aghi secchi che ricoprono come un tappeto la nuda terra

I momenti felici sono istanti da tenere sul cuore, come i cieli azzurri d’estate capaci di nutrire lo spirito

I mobili delle stanze dell’infanzia, che tu ricordi così grandi e poi quando ci ritorni dopo anni scopri essere più piccoli e bassi

Le piastrelle verdi di quel bagno e le volte che il lavatoio veniva riempito di cozze da risciacquare prima della cottura, il sabato mattina

Il profumo della lavanda in quei piccoli sacchetti di stoffa ricamata

La polvere del borotalco sulla pelle e fra le dita dei piedi

La zia di un’amica e il suo budino al cioccolato nello stampo per la ciambella

Svegliarsi d’estate, con la luce che entra prepotente dalle fessure delle persiane di legno e il rumore di chi falcia i prati

Il profumo delle erbe selvatiche sotto al sole, il rosso dei papaveri, la menta e l’erba medica, la camomilla che cresceva in un’aia al sole per un paio di settimane

I dischetti di zucchero colorato nei piattini all’ingresso delle case delle nonne

La piccola fabbrica a conduzione familiare che cuciva ciabatte per grandi e piccoli, tutte dello stesso modello, in cuoio, o rosso o blu, quelle dei bambini con l’elastico dietro da mettere intorno al tallone

Il cappello rosso di lana che pizzicava

I boeri con la carta rossa e quei bon bon di cioccolato, avvolti ognuno in un colore differente, che un certo Natale iniziarono a comparire nei centrotavola

L’aria delle feste, un aroma che non si sa esattamente dove nasce, fra candele al profumo di frutti rossi, ascensori di parenti che si vedono una volta l’anno, pomeriggi subito bui, scale mobili e folla, tempo tutti insieme

Spiare l’inizio della neve che scende nella luce dei lampioni

Il momento in cui si tornano a mettere le sedie di vimini e i tavoli fuori, in giardino

I sedili di plastica beige della Renault 4 blu e la volta che il gelato ci cadde sopra

Il parco giochi dell’infanzia con la mamma, un ricordo lontanissimo, e poi rivederlo con gioia quando ci ritorni da grande con uno piccolo per mano

Un negozio che non c’è più dove accompagnavi il nonno a comperare il pane e il suo cappotto beige di camoscio, il momento in cui lui sta girato di schiena e tu con un dito lasci un segno scrivendo con un dito sul quel tessuto morbido, disegnare e cancellare

Il tè delle cinque dalla nonna, che non era tanto le cinque e non sempre era tè, ma era dopo la scuola e dopo il lavoro, ma soprattutto tutti insieme

Il mondo, il mondo del quartiere che una volta era molto più grande perché tu eri più piccola: la passeggiata del mattino con le sue case, alcune non ci sono più o sono diverse, e la strada che, ora lo sai, non era poi molta ma ci si metteva il tempo giusto per i passi di un bambino, dell’andare e del tornare, dell’incontrare, curiosare, chiacchierare

La bellezza dei giorni in cui non accade niente di speciale

I pomeriggi sulle scale fresche della cantina, a spulciare vecchi libri e giocare con i gessetti colorati sulla lavagnetta con la cornice di legno

I colori forti con mamma, pennarelli e scatole di cartone; le matite con papà che voleva insegnare a creare ombre con i pastelli

Le pannocchie di granturco nel campo di fianco al cancello della scuola elementare e la volta che le raccogliemmo per fare un lavoretto

Il senso di libertà dei sabati mattina




I fiori di tagete

Il tagete è un fiore amico dell’orto, perché l’aroma che sprigiona allontana alcuni parassiti nemici delle piante. Inoltre, anche le sue radici rilasciano sostanze utili per la crescita scoraggiando i parassiti: aiuta la coltivazione di pomodori, fagioli e basilico. Quindi, perché non seminarlo fra le giovani piante dell’orto?

Il tagete cresce anche in vaso. Wilma l’anno scorso ha raccolto i semi dalle piante ormai sfiorite insieme ai petali; li ha lasciati in una vecchia scatolina usata per il tè e i semi di tagete hanno atteso fino a questa primavera. Adesso possono essere piantati nella terra. Il tagete fiorisce da maggio o all’inizio dell’estate fino all’autunno inoltrato. I fiori possono essere raccolti e messi a testa in giù in piccoli mazzolini; una volta secchi, i semi cadranno dai petali.

Stamattina siamo usciti di casa e abbiamo incontrato Luciano, insieme abbiamo messo le mani nella terra e piantato i semi. Fra non molto tempo passeremo dalla sua porta e ci ricorderemo di questo momento: il tempo della Terra vive di attese e fioriture improvvise. Così, lentamente, dal ciclo della vita impariamo anche il senso del Tempo, quello che ci scorre dentro e addosso.

I bambini non conoscono ancora il senso del tempo. Ci vogliono anni per impararlo. Perché il tempo in fondo non esiste, impariamo sulla pelle il suo effetto sulla nostra vita.

Per i bambini tutto è adesso, o al massimo ieri, oppure “una volta è successo che…”. Eppure, quando piantiamo un seme vediamo gli effetti del tempo che si svolge nel libro dei giorni come il filo di un gomitolo che cade dalla cesta di questa grande coperta che è l’intricata maglia della nostra esistenza. Ce n’eravamo quasi dimenticati, poi passi da lì, da quell’angolo e li rivedi: i semi che avevi lasciato cadere il sole e la pioggia li hanno resi grandi, li hanno resi piante. Il Tempo trasforma, ecco la grande lezione.

La leggenda di Tagete

Un contadino sta arando la terra fra le campagne di Tarquinia, un posto molto bello in provincia di Viterbo, nel Lazio, dove scorre il fiume Marta, che un tempo era chiamato Larthe ed è l’unico emissario del lago di Bolsena. Il contadino ara, zolla dopo zolla, e ogni tanto si ferma a detergere con una mano il sudore che cola dalle tempie. Forse lo puoi vedere anche tu, fermo per un istante in mezzo al campo sgombro, dove non è ancora cresciuto il grano, appoggiato su un bastone a contemplare il suo lavoro, così faticoso, e riprendere fiato.

A un certo punto, quasi non ci crede, vede spuntare piano piano da sotto una zolla, qualcosa: sembra un fiore, un ciuffetto di capelli color tramonto. No, aspetta, sembra un ragazzo. Sarà uno scherzo dato dalla stanchezza? Sì, è proprio un ragazzino ma con i capelli tutti bianchi: è Tages, Tagete, il dio ragazzino con i capelli da vecchio, simbolo della sua saggezza e della conoscenza profetica.

Tagete infatti ha il dono della visione: sa vedere il futuro. La voce del vento racconta che lui detterà al popolo Etrusco, che abitava quelle terre tanto tempo fa, i tre libri sacri: Aruspicini, Fulgurali e Rituali, che secoli e secoli dopo verranno ritrovati dagli archeologi, gente che si interroga sul passato scavano fra la pietra alla ricerca di storie perdute.

Secondo lo studioso Giulio Mauro Facchetti Tages sarebbe il nome latinizzato di Tages corrispondente, nell’originale etrusco, a Tarχies che forse significava proprio questo: voce. Lui, che con la voce condivide segreti ancestrali, rivive nei semi capaci di creare questi fiori arancioni presenti in molte parti del mondo, dall’Italia al Messico. Ed è bello pensare che se osiamo fermarci un attimo e piegarci verso la terra, forse riusciamo davvero a sentirla, la voce magica di un segreto raccontato dai fiori, che tutto conoscono di questa antica Terra che ci capita d’abitare.




Papà, mi manchi

Con i papà a volte è litigi e a lui non voglio bene. Scava, scava, vai a vedere che è un’emozione immensa: un amore così grande che non si può contenere e allora si nega. Scava scava, si scopre che 〰️ io sono molto triste quando papà è al lavoro, sono felice quando torna

Papà, mi manchi

Ci sono state volte in cui ho scritto tutta la notte. Oggi invece mi ha svegliato una vocina alle 2.59 -a voce bassa bassa- mammi, il mio pancino è vuoto, ha detto quello che era crollato alle otto e mezza di sera dopo una giornata di gioco. Allora, dico con mezzo occhio aperto e l’altro chiuso, andiamo a vedere cosa c’è in frigo

e così abbiamo riscaldato tagliatelle e riacceso il fuoco, cucito parole con i fili colorati e giocato a palla sul divano. Intanto si è fatta mattina e agli uccellini è bastato uno squarcio di azzurro nel blu per capire che la notte era finita e iniziare a cantare. Abbiamo svegliato papà e l’abbiamo accompagnato al lavoro.

Dicono che a tre anni si diventi esseri sociali, ma questo è anche un periodo in cui dovremmo spiare le settimane giorno per giorno e vedere quanto è grande l’emozione: è il momento della vita in cui si inizia a percepire il Tempo e il tempo è distacco, frattura nella continuità della linea ininterrotta d’amore che ci unisce a chi amiamo e ci ama.

Percepire il tempo è iniziare a comprendere il senso delle pause e dell’attesa. Il tempo è distacco, frattura nella continuità della linea d’amore che ci unisce a chi amiamo e ci ama

Con i papà a volte è litigi e a lui non voglio bene. Scava, scava, vai a vedere che è un’emozione immensa: un amore così grande che non si può contenere e allora si nega. Scava scava, si scopre che 〰️ io sono molto triste quando papà è al lavoro, sono felice quando torna.

〰️Torni?
Sì che torno. Presto

La possibilità del non tornare è la grande paura dei tre anni ma in fondo è un timore che ci segue tutta la vita, quando impariamo che il tempo dentro ha lo spazio vuoto che ci separa da chi amiamo.

E allora ci vuole il tempo per sentire anche la tristezza e l’insicurezza, il tempo per stare svegli e aspettare e poi accompagnare i papà che vanno al lavoro e abbracciarli forte e piangere un po’. E poi ci vogliono gli abbracci che consolano e addormentarsi naso contro naso, respiro dentro respiro. Il tempo di cucire E invece di MA.

Perché non dovremmo avere fretta di fargliela passare e abituarsi a stare soli. Madri gatto e madri di qualsiasi provenienza in Natura non hanno fretta, sanno che per diventare cacciatori solitari bisogna prima cacciare e giocare insieme; prima di essere indipendenti c’è la dipendenza, e imparare la vita poco a poco: insieme, accompagnando. Da quando siamo stati sommersi da questa smania per l’autonomia? Ne siamo così ossessionati che finiamo per dimenticare che all’inizio dell’esistenza essere cullati è una necessità fisiologica, un bisogno del corpo e dell’anima. Ce ne priviamo anche noi stessi di questa fase, salvo poi prolungarla e tenere questa mancanza in gola per una vita intera, quando da tempo invece, le madri gatto e tutte le altre, dopo essere rimaste a fianco ai loro piccoli giorno e notte, li hanno gradualmente accompagnati nel mondo, ad avanzare sulle loro gambe con forza e tenacia.

Accompagnare nel mondo è un processo che si sviluppa gradualmente, passo dopo passo, conquistando l’equilibrio necessario per stare in piedi con le proprie forze

Non si superano le mancanze convincendo che ce la puoi fare. Ce la faremo comunque, perché così è la forza della vita. La mancanza si supera cucendo insieme i buchi con un filo lungo lungo che si chiama amore.

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Che cos’è che ti fa sentire viv*?

C’è un confine a volte sottile ma comunque invariabile
fra noi e loro,
i nostri figli non sono noi, noi non siamo loro. Noi non siamo stati i nostri genitori.

Se dovessimo usare un modo forse potremmo provare con gli insiemi, come a scuola. Ecco, disegno un cerchio col pennarello e ci metto dentro quello che piace a me. A te cosa piace? A volte alle donne viene più difficile non solo dirlo ma addirittura ricordarlo a se stesse. Combattiamo contro secoli in cui per abitudine abbiamo guardato noi stesse attraverso gli occhi degli altri.

Sembra ovvio, poi succede che nella vita quotidiana ci si sovrapponga. Gli sport che amavi, lo stile dei pantaloni o l’hobby da imparare: guarda un po’ sono gli stessi che piacciono a te.. e a volte succede, ma dovremmo sempre starci attenti a queste sovrapposizioni.

In un mondo ideale ognuno di noi sarebbe chiamato a coltivare un progetto, studenti per tutta la vita perché in fondo non si smette mai di imparare. Il progetto potrebbe riguardare qualsiasi cosa e ovviamente crescere e cambiare negli anni perché tutta la nostra vita in fondo non è che un viaggio nel tempo.

I giapponesi lo chiamano ikigai. Ikigai significa all’incirca: ciò che ti mantiene in vita, ciò che accende il tuo entusiasmo e ti fa sentire viv*, con gli occhi brillanti e con passione.

Intanto qui l’estate si avvicina anche con un temporale ogni giorno; nei prati spuntano i papaveri e gli alberi hanno messo nuove foglie. Ecco, gli alberi saranno il mio punto di osservazione di questa nuova stagione; il suo invece, al momento, sono i cowboy… chissà se troveremo dei punti di contatto fra le storie delle praterie, dei boschi selvaggi e di chi per secoli le ha esplorate a cavallo.




Scuola è ovunque

La cosa più difficile è ricordarci che impariamo… impariamo ovunque e in ogni momento… impariamo come l’aria che respiriamo, ogni attimo. Impariamo con le gocce di pioggia in faccia, a chiederci perché e da dove vengono, impariamo mentre tagli i pomodori e ci raccontiamo delle navi che un giorno li hanno portati fino a qui, impariamo guardando dalla finestra e con gli amici al parchetto, sullo scivolo e al bar

 E non riguarda loro, i piccoli: siamo noi grandi a doverci ricordare che la scuola è ovunque. Mentre mi viene in mente questo pensiero tu salti per la cucina e all’ improvviso mi abbracci e urlando dici: il mondooo, il nostro mondoooo.

Il mondoooo. Il nostro mondooo

A me viene da ridere e tu mi dici sì, siamo come la Terra: giriamo! Giriamo e giriamo, Terra e Sole. Danziamo e la cucina si trasforma nello spazio infinito. E continuiamo a danzare, come la Terra che facciamo girare quando in soffitta mettiamo un dito a caso sul mappamondo. E siamo anche il mondo, sì. Siamo noi il mondo, sai? Siamo il mondo intero. Il mondo ci circonda e ogni cosa intorno prende parte al senso che diamo alla realtà. Siamo tutto il mondo.

La cosa più difficile è destrutturare il pensiero. Lasciarlo cadere e volare, tagliarlo e allungarlo, lasciare che la nostra visione si amplifichi e prenda nuove forme. Non loro, i piccoli: siamo noi adulti a crescere, ancora, e grazie alle nuove generazioni rinnovare il nostro cuore, i pensieri e il modo in cui viviamo la vita.

Rompere un’abitudine e liberare il pensiero è il modo per imparare a ritrovare l’immaginazione, l’abbiamo chiusa in un armadio per così tanto. Adesso possiamo lasciarla volare di nuovo e scoprire nuovi orizzonti, luoghi inesplorati.




Libri per bambini sulla morte

Che cosa leggere insieme ai piccoli per affrontare il dolore del lutto e la paura della morte?

“L’isola del nonno” di Benji Davie

“L’anatra, la morte e il tulipano” di Wolf Erlbruch

“Ti voglio bene anche se…” di Debi Gliori

“Caro amico Orso” di Jane Chapman

“La storia della libellula coraggiosa” di Chiara Frugoni

“Oscar il gatto custode” di Chiara Valentina Segré

“L’albero dei ricordi” di Britta Teckentrup

“E se la morte fosse un bosco?” di Gabriele Ventura e Chiara Scardicchio con le illustrazioni di Hanieh Ghashghaei

“Sai chi sono io?” di Elisabeth Helland Larsen

“Gina e il pesce rosso” di Judith Koppens

“Il sentiero” di Marianne Dubuc

“Il cerchio della vita” di Harrie Jekkers e Koos Meinderts

“La nonna in cielo” di A. Lavatelli e D. Pintor

“Ho lasciato la mia anima al vento” di Roxane Marie Galliez

Per i genitori: riflettere e spiegare la morte ai bambini

“La morte spiegata ai bambini e anche agli adulti” di Jean-Jacques Charbonier

“Dialoghi con i bambini sulla morte. Le fantasie, i vissuti, le parole sul lutto e sui distacchi” di Daniel Oppenheim