Cane e gatto

Nell’attimo del momento lei abbaiò e lui soffiò.

Poi il primo giorno lei lo passò fuori, lontana in giardino, ma verso sera per un istante si trovarono a fianco. Lei lo guardò curiosa e diffidente. Lui soffiò e di un soffio così potente e grave che non sembrava possibile che un suono di tempesta così grande potesse venire da una cosina così piccola.

Il secondo giorno si ignorarono. Ma un bambino che mangiava un pezzo di pane, come avrebbe fatto una vecchia nonna, usò la tecnica del cibo per distrarre e mettere tutti in pace: un pezzo prima a lui, che lo sminuzzò e mangiò e ci giocò; uno a lei, che lo mangiò in un boccone e stette a osservare lui. La notte dormirono uno sul coperchio del porta legna, in alto, e l’altra sul solito divanetto rosso: entrambi in cucina, almeno per un momento.




Estate 2024

Il passo prima di poter dire “estate”: il giallo dei prati di tarassaco, le prime giornate di sole intenso sulla pelle, la luce negli occhi e nella linfa, clorofilla, verde acceso. L’erba che inizia a diventare alta, il rumore delle motoseghe di mattina, i fiori selvatici ovunque: macchie viola, blu, tonalità di giallo e rosso, rosa. All’improvviso poi non è già più primavera, l’estate entra dando un calcio alla porta principale anche se certi temporali in questo periodo la fanno spaventare e dimenticare di se stessa. E allora l’estate si fa piccola, ogni tanto, e diventa per un attimo tempo autunnale: le piogge fortissime, la nebbiolina che sale e avvolge le montagne. Ma te ne accorgi, che è estate, dalle sere che non passano, più chiare che mai, e dal calore che traspira dalla terra.

Il verde, più che verde come non è mai stato. Dall’acquazzone la terra trattiene il necessario per restare viva e l’erba resta quella primaverile, invece del secco e dei ciuffi giallastri della stagione più calda dell’anno: negli stessi angoli dove di solito ci sono sassi quest’anno in montagna spuntano ciuffi d’erba morbida.

Tu con le tue forbici da giardiniere. Le rose che nessuno ha più il coraggio di potare e lentamente si alzano sul muro, fino al tetto.

Una sera d’estate e un bambino con la felpa a righe blu e azzurre, ginocchia livide e stivalini blu di Spiderman con il bordo rosso: salta nella pozzanghera più grande dopo averla cercata a lungo, una pozzanghera che sia sufficientemente grande per poterci saltare dentro comodamente. Intorno un profumo dolce nell’aria, di erbe selvatiche senza nome. I ciuffi di erba ancora intrisa di pioggia, un paio di alberi con le piccole prugne ancora verdi a cui tu hai voluto a tutti i costi dare un morso per poi sputare forte.

Le amarene, acerbe, come pois rosseggianti fra le foglie, non ancora pronte all’inizio di giugno. Un cancello che dà sul nulla di un giardino mai tagliato. Le foglie della menta che nascono nelle fessure tra i sassi e basta passarci una mano per profumare l’aria tutt’intorno. La domenica di pioggia, forte e scrosciante: il vapore nebbioso tra le montagne, poi le nuvole che si scostano e lasciano vedere il cielo così azzurro che la giornata sembra stia per iniziare invece è già finita. Il profumo delle patate nel forno, le cose di un giorno di pioggia, la noia, i libri, i giochi, l’inventare, i vetri della finestra rigati dall’acqua di traverso, le piante dell’inverno da portare finalmente in giardino per dissetarsi dell’acquazzone. Non sono ancora arrivate le lucciole.

Di nuovo la pioggia, fortissima. Per tutto il giorno di san Giovanni, dalla sera prima al giorno dopo. Un codirosso che vola davanti alla finestra quando spiove, immobile per un attimo nell’aria, e si ferma sulla grondaia della legnaia. Il cielo quando torna sereno verso sera e l’odore di bagnato fra i prati. Camminare nei giardini dopo la pioggia. Le amarene ancora troppo aspre.

Seguire le curve della strada al tramonto, quando la luce è ancora sfolgorante.

Una ghiandaia che arrriva ogni giorno, prende un biscotto e se ne va; ogni tanto resta ferma, su uno dei rami più alti dell’acero, e si guarda intorno, soprattutto quando il biscotto non c’è. Allora aspetta che io entri in casa a prenderlo e poi vola via: una volta ci siamo guardate negli occhi.

L’estate in città. L’afa, il profumo degli oleandri e i vecchi signori seduti davanti alle saracinesche dei garage mezzi aperti a chiacchierare su una sediolina, con le gambe incrociate e una sigaretta fra le dita. I muri dietro, con lo specchio appeso al muro e un calendario rimasto a chissà quando, le piastrelle azzurrine di una volta. I vecchi, che una volta avevano la barba corta e le facce giovani che ora non sappiamo più immaginare.

L’odore fresco delle cantine che sale dalle grate nei giorni di caldo. I viali alberati e la loro ombra lunga sul marciapiede, il profumo dolce dei gelsomini e gli oleandri, bianchi o rosa.

Il rumore del traffico nelle serate di giugno, quando le luci si accendono e il tramonto svanisce lentamente. Camminare senza fretta al parco per godersi il fresco, la sera tardi e il mattino presto; il traffico che non si ferma mai. Le cicale, più forti di tutto.

Ultimi giorni di giugno. Una medicina presa da non prendere più. Finalmente le lucciole; le lucciole che riempiono i prati volando nella notte.

Sono stanco morto, dici appoggiato sul divanetto rosso: ti va di prendermi in braccio? Certo dico io, e ti abbraccio stretto. E con la tua piccola testa che si appoggia al mio collo, ti sussurro nei capelli: ti voglio tantissimo bene. Anche se peso tanti chili? Chiedi tu. E ti addormenti, un gradino dopo l’altro. Ecco… Tutte le volte che ci hanno detto “adesso sei grande”, tutte le volte che ci dicono “adesso sei grande”: tutti i modi in cui si dice “Adesso pesi”. Tutte le volte che abbiamo fatto capire o ci hanno fatto capire: “adesso sei di peso”. Invece, dovremmo iniziare a dire: “adesso sei così forte, adesso sei così grande, adesso sei così tanto…”

Mamma, esci! Senti, i grilli. Quanti! Camminare fra i prati di notte, a vedere le lucciole e le stelle. Ma non troppo in là, che un po’ il buio fa paura.

Le giornate di luglio col sole che acceca, il sudore e la luce così forte in faccia. La ghiandaia che non vediamo da un po’. Le cicale in città e i grilli in montagna. Le mattine così fresche e le fragoline di bosco trovate per caso camminando per strada. L’amaca, che c’è chi la ama a prescindere e per tutti gli altri – come me – è una scoperta: dondolarsi piano con un libro e pensare a niente, i piedi a penzoloni e i pensieri lassù fra i rami più alti e verdi, appesi alle nuvole.

Una pineta tra i faggi, lassù, nel bosco, tagliata, dove ora al suo posto c’è un vasto e desolante orizzonte vuoto.

Lei che se n’è andata in un giorno d’estate, senza un perché, come anni prima se n’era già andata, anche allora senza un perché. Lui, che questa estate non la vedrà: te ne sei andato via quando nessuno lo credeva possibile. Le presenze assenze, o forse assenze che si fanno presenze con la forza del silenzio e dei pensieri. Il sole che non cura tutto ma tanto, il mare che con il suo sale asciuga e cicatrizza, dipinge e leviga, modella e trasforma le lacrime in oceano. Noi che siamo ancora qui e – purtroppo – non abbiamo mai imparato bene a usare ago e filo per cucire vestiti e nemmeno assenze.

Le finestre che rimangono chiuse e gli scuri che si spalancano, chi fa ritorno dopo un anno e chi no. I vasi di fiori nuovi. I semi che crescono, con molta pazienza. Nessuno ha raccolto le pere e ora c’è un vecchio albero carico di frutti.

Anguria e melone, le cose più buone del mondo, dici tu.

L’estate dei tuoi quattro anni. L’estate dei gattini, delle giornate infinite che iniziano di mattina presto e si rincorrono al sole, fra gli amici e le amiche, i bambini, i vecchi, i giovani; le mosche a cui sfuggire, il caldo che sembra troppo caldo e la mente che sogna di tuffarsi nella neve.

Iniziare a pulire una fontana e chiamarla “la fontana delle paure” perché quella dei desideri esiste già e del resto ci vuole anche un posto dove buttare un obolo per le nostre paure.

I sassi, la terra polverosa che si asciuga al sole; la luce accecante di mezzogiorno, i cappelli calati sugli occhi, l’acqua sulla pelle e sulla testa. I bambini sporchissimi e felici, mezzi nudi e urlanti, a piedi scalzi. Le seggioline all’ombra, dove si siedevano una volta i vecchi che adesso sono andati via ma noi continuiamo a vederli. Il caffè dopo pranzo, imprescindibile, immobili a guardare un po’ l’orizzonte e un po’ l’altrove.

Le canottiere colorate, le collanine, la polvere fra i capelli. I pantaloncini cortissimi e le gambe sempre nude: questo caldo eterno e insopportabile in un attimo svanirà come un sogno, ma tu ancora non lo sai.

Andiamo fuori sull’amaca a guardare le stelle?

La sera in montagna: il silenzio profondo e l’unico suono, lo scroscio della fontana nella notte. L’allocco in amore e il suo verso cantilenato. Il gufo nascosto tra i rami del vecchio noce. Un ululare lontano.

Il profumo forte della menta acquatica. Il rosso dei gerani che finalmente sbocciano.

Addormentarsi dove capita, con la faccia sporca e i piedi neri, troppo stanchi per aspettare il posto giusto. Addormentarsi, soprattutto da piccoli, quando fuori è ancora chiaro, sfiniti dalla giornata. Sfiniti dalla giornata anche i grandi e allora aspettare che si accendano le luci laggiù, oltre le strade e il disegno del panorama: restare nel silenzio dei pensieri. Che in estate è così, ci si sveglia col sole e la giornata sembra infinita, sempre in movimento: sarà forse per questo che da giovani si ama così tanto l’estate, è che sembra di vivere il doppio.

La libertà. O almeno la sensazione di una vastità che ci contiene e possiede. I fiumi dove immergere i piedi e tuffarsi, le rocce da sentire sotto le mani e i piedi. I mazzolini di fiori da cogliere nei prati e regalare a chi ami, l’ombra verde dei boschi come una cupola sacra. Il tempo per incontrare le persone che ti rendono felice il cuore.

Le cose semplici. Pomodori sugosi. Olio d’oliva profumato. Pane. Formaggio. I cani sfiniti dal caldo che dormono per terra all’ombra davanti agli usci.

La sabbia. Impastare le mani nella sabbia. Correre a perdifiato. L’odore del mare. Respirare l’infinito.

Alla fine dell’estate una cicala solitaria su un acero di montagna, senza un perché. Le lucertole giovani. I rami profumati del cespuglio di lavanda. Il tappeto elastico che non è più ricoperto dai piccoli fiorellini bianchi e tu che arrivi di corsa per dirmi che mentre saltavi hai sentito il bramito di un cervo. L’inizio di un tempo nuovo.

Chissà se l’estate finisce il primo giorno di scuola, di pioggia o d’autunno.

Il melo e il pero carichi di frutti, nessuno è ancora andato a raccoglierli. Delle fragoline di giugno nei boschi e sui prati sono rimaste solo le foglie, insieme ai gusci bucati delle nocciole e delle noci da cui gli scoiattoli hanno preso i gherigli. I lamponi hanno lasciato il posto alle more, se uno sa dove trovarle. Per chi ha tempo e voglia di camminare ci sono cesti pieni di funghi. Le bacche preferite dai merli tornano rosse.

L’afa che sembrava così insopportabile è svanita e – almeno in montagna – l’ombra è già più fredda: è successo in un attimo e non sappiamo neanche bene quando.

Torna il signor Fuoco ad abitare nella stufa; le mattine sono più umide e il verde dei prati, che in questa strana estate non è mai andato via, nel giro di poche settimane si accenderà di giallo e rosso: è il tempo dell’autunno. Due gatti non più così piccoli iniziano i loro vagabondaggi: due giovani gatti curiosi di esplorare che ora ci camminano a fianco quando andiamo nel bosco. Gli uccelli sono partiti per il loro viaggio invernale. La falena chiusa nella sua crisalide continua a dormire. Sulla siepe del giardino qualche ape e le ultime farfalle.

Chissà se l’estate finisce il primo giorno di scuola, di pioggia o d’autunno.




Chi era Francis Drake?

Era nato il 13 luglio: lo stesso giorno di tuo nonno Vittorio, mio papà, lui nel ’47 e Drake nel ’40 ma con in mezzo una distanza di quattro secoli.

Francis Drake, anzi Sir Francis Drake fu capitano di navi, viaggiatore, corsaro e politico.

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Nacque il 13 luglio 1540 a Tavistock, nel sud ovest dell’Inghilterra, contea del Devon. In verità non c’è un atto di nascita, nell’epoca di cui parliamo il tempo era una questione piuttosto vaga infatti secondo alcuni la data di nascita di Francis poteva essere fra il 1540 e il 1544: era il più grande, il primogenito dei dodici figli di Mary Myllwaye e Edmund Drake, agricoltori, che a causa della loro fede protestante erano fuggiti nel Kent, una contea a sud di Londra abitata fin dalla preistoria, da gente di cui si perde memoria popolata da tribù celtiche e raggiunta dai soldati di Giulio Cesare, attaccata dai Vichinghi, invasa dai Normanni e mai sottomessa. Una terra, il Kent, proprio davanti al mare e in effetti la parola “cent” indicava il “confine, bordo”, nell’antica lingua celtica parlata prima dell’arrivo dell’esercito di Roma e del latino. Il porto di Dover, in questo angolo nell’estremo sud est, guarda in faccia Calais, dall’altra parte del mare. Regno Unito e Francia, una di fronte all’altra e il mare in mezzo, il canale della Manica. 

Con l’affanno per i sentieri scoscesi tra le rocce gessose, su, fino in alto: dalle bianche scogliere di Dover certi giorni sembra di vedere, al di là dell’orizzonte, anche la Francia, terra straniera e sconosciuta, promessa di viaggi e ignoto, avventura. Ecco quell’avventura, il richiamo del mare e del viaggio, lui ce l’aveva nel sangue, anche se il sangue i suoi genitori glielo avevano dato di terra e mattoni, ma chissà com’è poi, che ognuno la vita la scrive col suo sangue ed è un sangue unico, che va per strade misteriose. Nel sangue c’è scritto il destino, dicevano gli antichi, ed è un destino che nessuno conosce esattamente.

Francis Drake a 18 anni si imbarca su un mercantile come apprendista per un mercante, proprio su una di quelle navi che andavano e venivano fra la Francia e l’Inghilterra

Aveva fama di essere un navigatore esperto, capace di addentrarsi anche nelle acque difficili del Mare del Nord, e infatti non passò molto tempo che comandò una nave tutta sua.

A 23 anni parte dalla baia di Plymouth per il Nuovo Mondo, l’America, che Cristoforo Colombo aveva raggiunto da nemmeno cent’anni.

Viaggiò attraverso la frastagliata punta dell’America del Sud, il comandante Drake, là dove Atlantico e Pacifico si fondono nel gelido ghiaccio dell’Oceano Australe e la Terra del Fuoco, che di fuoco non è per niente, punta verso il desolato Antartide. Sembra che fu un portoghese che rapì a Capo Verde, Nuno da Silva, a rivelargli la rotta del passaggio nello Stretto di Magellano.

Forse era il suo nome a guidare la sua storia: El Draque, lo chiamavano gli spagnoli nel Mar dei Caraibi, “il dragone”, diretta traduzione del cognome Drake.

Fatto sta, che il suo nome è ancora lì, lo Stretto di Drake è il passaggio, uno dei più pericolosi al mondo e ricercati per secoli, fra l’Antartide e il mondo. Circa quarant’anni prima sembra che un altro avesse attraversato per primo questo tratto di mare – il navigatore spagnolo Francisco de Hoces – durante un viaggio verso le Molucche, ma è Drake a lasciare il suo nome, nel 157. Attraversa lo stretto di Magellano e scopre la connessione fra gli oceani: è nota come CCA, Deriva del Vento da Ovest, e circola in senso orario intorno al continente Antartico. Si tratta di uno spartiacque, un fiume nel mare, barriera e unione, fra le correnti calde del Subantartico e le correnti fredde intorno al continente. Per una lunghezza di mille chilometri e ottocento di larghezza, il passaggio di Drake unisce Atlantico e Pacifico: Capo Horn, il punto più a sud del Sud America, e le Isole Shetland Meridionali. Qui si trovano le acque più inquiete di tutto il pianeta, ancora oggi luogo di tempeste mortali, onde anomale alte come muri che superano i 20 metri, dove la terraferma sparisce e le correnti oceaniche turbinano.

Nel 1560 Drake parte sulla sua nave, la Judith, verso l’Africa per fare il mercante di schiavi, cosa che non gli fa certo onore. Illegalmente rapisce persone e vende i prigionieri in quelli che anni dopo verranno chiamati Stati Uniti d’America e che all’epoca sono la Nuova Spagna. 

Nel Regno Unito, al sicuro nei suoi palazzi, regna intanto la regina Elisabetta: è lei a nominare Francis Drake corsaro. E Drake parte.

Assalta ogni nave spagnola incontrata. Combatte contro tempeste e temporali. Carica oro e argento. Sopravvive ai naufragi. Dagli assalti salva le mappe, scritte dagli spagnoli, che usa per navigare. Cercando – e non trovando – il passaggio a Nord Ovest che per secoli tutti cercheranno, la rotta che collega Atlantico e Pacifico attraverso il Canada, va verso sud e arriva nella baia di San Francisco, si dirige a ovest e attraverso il Pacifico raggiunge le Molucche, doppia il Capo di Buona Speranza e infine, nel 1580, a bordo del galeone Golden Hind, Cerva d’oro, torna in Inghilterra. Sbarca sul Tamigi, a Londra, che un tempo era il porto più grande di tutti: esattamente lì, seppur con non poche proteste da parte degli spagnoli, la regina Elizabeth lo nominerà cavaliere. Tornò carico di oro, tesori e spezie, Sir Drake: la metà alla regina, la quale ordinò a tutti il silenzio più totale, pena la vita, e che ogni viaggio fatto dovesse restare segreto, ognuno dovette giurarlo.

Il corsaro Francis Drake divenne sindaco della città di Plymouth. Nella sua vita partecipò ancora a molti viaggi per mare, assalti e spedizioni, navi incendiarie e guerre combattute fra le onde, forse perché in fondo lontano dall’avventura non ci sapeva stare, abituato com’era al mare, a svegliarsi fra le stelle e il rollio costante che a scartoffie e passeggiate comode. Un giorno i colpi di cannone sparati dalla fortezza di San Felipe del Morro, a Porto Rico, colpirono in pieno il ponte della nave, ma anche quella volta la scampò, chissà come.

Morì a gennaio, un gennaio che non era freddo per niente, considerando quelli che aveva visto là dove era nato nella madrepatria terra inglese. Si trovava a Panama e mancavano pochi anni alla fine di un secolo: era il 1596. Ancorato nella baia di Portobello, morì per una malattia infettiva, la dissenteria; fu vestito della sua armatura e buttato in mare, come aveva chiesto lui. O forse si dovrebbe dire seppellito, perché non si viene sepolti solo nella terra, ma semplicemente nel posto dove uno sa che si sente in pace.

E non c’è niente come il mare per riposare, lo sanno bene i marinai e chi ha il cuore inquieto.

Francis Drake destinò parte del suo patrimonio alla gente più povera di Plymouth, come scritto nel suo testamento, e la leggenda racconta che se l’Inghilterra fosse in pericolo basterebbe battere sul suo tamburo per vederlo apparire.

Sic parvis magna“, in latino: così, dalle piccole cose le grandi. Dal poco si arriva al tanto. Così, il piccolo diventa grande. Così, goccia per goccia, svuotiamo il mare.

Era il suo motto. Niente è impossibile: le cose piccole sono il necessario inizio delle cose grandi.




Fiducia

Io mi fido di te.

Anche io ti fido di te. Ma cos’è fiducia, papà?

Fiducia è quando credi in una persona, in quello che fa. Per esempio, se fa quello che dice allora è una persona a cui si dà fiducia.

Altrimenti?

Per esempio, se una persona dice spesso bugie su quello che fa allora piano piano la fiducia verso quella persona diminuisce perché si smette di crederle.

Cos’è “bugia”?

Bugia è quando dici una cosa che in realtà non è vera.

….

Sai, papà. Mi sa che ieri ho detto anche io una bugia.

Perché?

Sì, quando ho detto che non avevo spinto io il bottone per far scongelare il freezer. E il freezer si è scongelato. L’avevo spinto io.




Acqua di rose

L’acqua di rose da preparare a casa è un’antica tradizione per santa Rita, santa delle cose impossibili. Maggio è il mese delle rose e creare un tonico con questi petali profumati evoca una storia ancora più antica, risalente all’antica Roma e, prima, al popolo etrusco. Questo è il mese in cui uscire nei prati: l’erba ogni giorno è più lunga e verde grazie alla pioggia e sole, come le chiome degli alberi scosse dal vento e i cespugli che iniziano a essere percorsi dalle api. Dalle campagne alle cime delle montagne a camminare nei prati ci si accorge subito che c’è qualcosa di nuovo, intrigante, meraviglioso; è il profumo che ci avvolge, l’aroma dei fiori selvatici di cui non sappiamo più il nome, l’essenza dolcissima dei petali bianchi che volano via nell’aria improvvisa di tempesta, l’odore delle piante aromatiche come la menta, capaci di nascere fra le crepe dei pavimenti e lungo i muri.

Come fare l’acqua di rose in casa

Con delicatezza basterà raccogliere i petali di rosa in un contenitore. Se l’acqua è di sorgente tanto meglio: bisogna scaldare l’acqua e versarla sui petali prima che raggiunga il bollore, poi tappare immediatamente il contenitore. Lasciar riposare una notte, filtrare ed ecco l’acqua di rose fatta in casa. Volendo, si potrà aggiungere qualche goccia di olio essenziale di rosa damascena, costosissimo perché per realizzare questo olio essenziale sono necessari quintali di petali di rose. Per conservare questo tonico fai da te è possibile versare in una vaschetta e trasformare in tanti cubetti di ghiaccio che potranno essere utilizzati sul viso e gli occhi quando la stanchezza è molta.

Le proprietà delle rose

L’estratto dei petali di rosa è detossinante: aiuta a purificare il fegato e ha proprietà antinfiammatorie. L’infuso di rosa dopo i pasti aiuta a digerire. Calma le irritazioni, i rossori e anche… l’anima. Respirare il suo profumo aiuta contro l’ansia e la pausa: è un respiro per il cuore, anche in senso cromatico. Anni fa leggevo che in alcuni ospedali il rosa è stato utilizzato per dipingere le pareti delle stanze che ospitavano i degenti di cardiopatie constatando che “respirare il colore rosa” è antistress, aiuta a fare respiri più profondi. In effetti, abbiniamo il rosa all’ottimismo e forse dentro questa percezione c’è un segreto antico che non sappiamo spiegare e che, ciò nonostante, sentiamo subito a pelle.

La preghiera di santa Rita

Santa Rita prega per noi che ricorriamo a te

Perché santa Rita è considerata la santa delle cose impossibili? Racconta la storia che nel rigido inverno del 1456 la monaca si trovasse a letto, malata, nel monastero di clausura dove visse per quarant’anni. Sarebbero stati gli ultimi giorni della sua esistenza terrena. Rita, nata Margherita, chiese a una parente che le fece visita dei fichi e una rosa del giardino della casa paterna dove aveva abitato da bambina. Naturalmente si trattava di un desiderio impossibile, nel bel mezzo della neve e dell’inverno. Eppure, tornando a casa quella persona trova due fichi e una rosa fiorita, nello stupore infinito. La rosa diventa così il fiore simbolo di santa Rita, santa delle cause impossibili, avvocata dei casi disperati, patrona delle cause perse e degli impossibili.

Le rose e la dea Venere

Nell’antica Roma la rosa era associata alla dea Venere, dea dell’amore, e in Grecia alla dea Afrodite. Afrodite indossava abiti profumati con i fiori di ogni stagione dell’anno. L’amore non può essere forse altro che questo: impossibile non credere all’amore in primavera, quando tutto si sveglia e il sole fa vivere la Terra di nuovo. Immaginiamo come doveva essere un tempo, il mondo senza la luce elettrica o il riscaldamento e le comodità: i mesi dell’inverno erano ancora più freddi, bui e difficili. Un tempo buio e freddo infinitamente, indefinitamente, in cui bisognava stringere i denti e attendere. Primavera è il momento dell’anno magico: la luce torna a inondare i prati e far sbocciare i fiori che diventeranno frutti. Finalmente torna il tepore del sole sulla pelle; spuntano erbe, radicchi e fiori da raccogliere (e mangiare anche!). In ogni specie ci sono cuccioli che nascono e nei mari la navigazione riprende. Sì, perché un tempo si viaggiava solo fra maggio e ottobre.

Le rose e il culto dei morti

Fra il giorno 11 del mese di maggio e il 15 luglio nell’antica Roma si celebravano i Rosalia, legati al culto dei morti. Durante questa festa pagana, che occupava il tempo in cui fiorivano le rose, le tombe degli antenati venivano decorati con questo fiore, presente anche nel culto di Dioniso. Il colore rosso e viola delle rose e delle violette evoca il sangue e la rigenerazione, è ricordo e auspicio di rinascita. Che strano pensare che duemila anni dopo, senza saperlo, chi segue il cristianesimo nel mese mariano stia di nuovo, ancora, di fronte a una donna e alle rose. Una donna, che in ogni cultura del mondo, come le donne venute prima e tutte le donne che la seguiranno, ci ricorda l’origine della vita, da cui veniamo tutti. E una rosa, capace di nascere fra le spine e farsi bella con il ghiaccio, la neve e il freddo: cuore indomito e forte, vulnerabile dentro e agguerrito fuori.




Il 25 aprile raccontato a un bambino

Tu non lo sai, ma una volta c’era la guerra.
Oggi, un 25 aprile di tanti anni, quando i nonni miei e di papà erano giovani, in Italia la guerra finì.

L’atto di resa verrà firmato dal generale Alfred Jodl nella città di Reims, nel nord della Francia, il 7 maggio. Il giorno 8 maggio 1945 è proclamata la fine della guerra mondiale in Europa. In Europa si festeggia il giorno 8 e, in alcuni Paesi, il 9 maggio, le Giornate della Vittoria.

Bologna festeggia la liberazione il 21 aprile quando entrano in città le unità alleate del 2°Corpo Polacco dell’8a Armata Britannica, la Divisione USA 91a e 34a, i Gruppi di combattimento Legnano, Friuli e Folgore e la brigata partigiana “Maiella”.

Adesso tu immagina di scendere per strada e osservare. Quanto batte forte il cuore. Immagina la gente tutta intorno a te e c’è chi piange, chi si abbraccia. Fare festa, correre, ballare.

〰️ urlare.

Sì, si urla. Finalmente si può urlare.

La guerra è finita. Immagina di essere giovane là in mezzo, fra quelle persone e quelle righe di Storia. C’è polvere, tanta. C’è la polvere delle strade e dei combattimenti, la polvere dei vestiti, delle bombe, dei calcinacci. C’è la primavera, immensa, splendida. Il sole che scalda e rincuora.

Ricorda che c’è stato un tempo in cui abbiamo dovuto combattere per la nostra libertà e ancora accade, in troppi posti del mondo. Ricorda che libertà è diverso da liberazione: nella storia umana forse non assaporiamo che attimi brevi e preziosi,. assoluti, di libertà. Il resto è liberazione e dentro c’è la fatica, il sangue, la sfiducia. La resistenza.

Ci liberiamo dall’ignoranza, dalle guerre, dalla schiavitù, dalla morte e dalle malattie, perfino da noi stessi. Ci liberiamo in un movimento lentissimo, passo dopo passo, attraverso i secoli.
E ancora oggi siamo qui, resistiamo.




Quando si partiva da migranti

Intanto si partiva. Era la fine dell’Ottocento, l’inizio del Novecento e poi anni Venti e Trenta: per tutto questo tempo le navi non fecero altro che andare avanti e indietro, su e giù per gli infiniti mari del globo, cariche di chi partiva con il cuore gonfio e la mano in aria a salutare quelli che restavano e sparivano piano piano, cancellati dall’orizzonte. Si partiva per andare dall’altra parte del mondo.

Giovanni a Perth

Se l’Australia appare lontana adesso, tu prova a immaginare nel 1930, quando per arrivare vi volevano giorni e giorni di navigazione. Una lingua totalmente diversa, e non c’era internet per impararla prima o guardare i programmi tv. Tutto era nuovo, sconosciuto e sorprendente. Le strade, le case, i vestiti, la moda. L’altra metà del mondo era terribilmente lontana: più di ora. Perché fino agli anni Cinquanta circa (e proprio la televisione in questo avrà un ruolo fondamentale) esiste un fattore fondamentale da considerare: le notizie arrivano dall’altrove, sono poche e intermittenti. È un mondo che voi non potete immaginare, mi disse una volta un uomo di oltre novant’anni, è un mondo che ora non possiamo più immaginare nemmeno se lo volessimo: immagina di vivere senza ricevere notizie per giorni interi e, quando arriverà la guerra in Europa, persino per settimane intere. Immagina di vivere una guerra e non sapere esattamente ciò che accade, non poter avere alcuna idea su cosa stia succedendo al di là del ristretto perimetro in cui ti trovi tu.

Ma negli anni Trenta la guerra era ancora un’ipotesi lontana. C’era il lavoro, durissimo; la lontananza da casa e la paga settimanale, i divertimenti nati con i compagni trovati per la strada. Perché a venti o trent’anni si sa, tutto è occasione per esplorare, farsi una risata. E trasformare il mondo in avventura. È l’epoca dello swing, nato in America e contrastato dal fascismo.