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7 luglio

In Giappone si festeggia Tanabata, la festa della settima notte: accade durante la notte del 7 luglio, ma anche del 7 agosto, che in cielo si incontrino le stelle Vega e Altair. Secondo la tradizione è il momento giusto per esprimere un desiderio del cuore perché sarà esaudito. In Asia si appende fuori dalla porta un ramoscello di bambù e si scrive su una striscia di carta il proprio sogno, da appendere al ramo e affidare agli spiriti dell’aria.




5 luglio

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Il primo bikini della storia

Quando? 5 luglio 1946

Dove? Parigi, Francia

Chi? Louis Réard insieme a Micheline Bernardini, la prima a indossare un bikini

Che cosa? Siamo nello stabilimento della Piscine Molitor, una piscina molto popolare a Parigi, che esiste dal 1929: è una giornata di splendido sole, 5 luglio 1946. Micheline Bernardini indossa il bikini creato da Louis Réard, il quale si è ispirato all’abitudine delle donne di arrotolare il costume per abbronzarsi meglio, sulle spiagge di Saint Tropez

Si chiama bikini, è il costume scandalo che lascia scoperta la pancia e osa solo due triangoli per coprire il seno. Una settimana prima la notizia dei test atomici degli Stati Uniti sull’atollo Bikini nell’Oceano Pacifico

Poi.. ? Ci vorranno anni per prendere coraggio e ancora per un bel po’ in moltissime spiagge d’Europa ci saranno multe salate per chi osa indossare un bikini. Intanto un’azione densa di conseguenze è stata compiuta: la pelle è finalmente esposta! Mostrare l’ombelico, uno scandalo. L’inizio di una rivoluzione culturale.

Le Five Ws o W-h question sono considerate una delle regole base del giornalismo – Who, What, Where, When, Why – ovvero, chi, che cosa, dove, quando, perché. Tuttavia, nel rocambolesco libro dei giorni della nostra esistenza talvolta il perché è un fatto estremamente sfuggente: a volte ritroviamo solo dopo anni le ragioni segrete che ci hanno condotto a certe scelte, talvolta non le sapremo mai e forse solo dall’alto, invisibili e senza tempo, potremo un giorno guardare ciò che è stato il nostro tempo. Nel frat/tempo conosco un viaggiatore intergalattico che dice sempre “e poi… poi, poi”: la Biblioteca del Tempo nella totale libertà e disordine dei fatti coglie questa parola come ispirazione al cambiamento. Anziché chiederci “perché” sostituiamo “why” con “then”… e poi, cos’è successo? Forse se fossimo più concentrati su ciò che ogni singolo fatto e incontro apporta nelle nostre piccole vite potremmo vedere l’incredibile magica trama delle conseguenze che avvolge ogni singola cellula del mondo.

A proposito, per quanto riguarda il bikini vero è che nel 1946, nel dopoguerra di un’Europa che si stava ricostruendo, i nuovi costumi (di stoffa e in senso morale) scompigliarono le abitudini. Ma, non è del tutto vero che fu la prima vola in assoluto del bikini. Infatti, già sugli antichi mosaici di Piazza Armerina a Enna, in Sicilia, otto ragazze incuranti del tempo che passa giocano a palla. Dichiarata Patrimonio Mondiale Unesco, Villa del Casale e i suoi mosaici sono stati datati fra il 320 e il 370 aC.




Elogio dell’ozio

“Come molti uomini della mia generazione, fui allevato secondo i precetti di un proverbio che dice “l’ozio è il padre di tutti i vizi”. Poiché ero un ragazzino assai virtuoso, credevo a tutto ciò che mi dicevano e fu così che la mia coscienza prese l’abitudine di costringermi a lavorare sodo fino a oggi. Ma sebbene la coscienza abbia controllato le mie azioni, le mie opinioni subirono un processo rivoluzionario. Io penso che in questo mondo si lavori troppo e che mali incalcolabili siano derivati dalla convinzione che il lavoro sia cosa santa e virtuosa (…)

L’idea che il povero possa oziare ha sempre urtato i ricchi. In Inghilterra, agli inizi dell’Ottocento, un operaio lavorava di solito quindici ore al giorno e spesso i bambini lavoravano altrettanto (nella migliore delle ipotesi dodici ore al giorno). Quando degli impiccioni ficcanaso osarono dire che tante ore forse erano troppe, gli fu risposto che la sana fatica teneva lontani gli adulti dal vizio del bere e i bambini dai guai. Quand’ero piccolo, cioè poco dopo che gli operai di città conquistarono il diritto di voto, la legge istituì certe giornate festive, con grande indignazione delle classi ricche. Ricordo di aver udito questa frase dalla bocca di una vecchia duchessa: “Ma che se ne fanno i poveri delle vacanze? Tanto loro devono lavorare”.

Bisogna però dire che, mentre un po’ di tempo libero è piacevole, gli uomini non saprebbero come riempire le loro giornate se lavorassero soltanto quattro ore su ventiquattro. Questo problema, innegabile nel mondo moderno, rappresenta una condanna della nostra civiltà, giacché non si sarebbe mai presentato in epoche precedenti. Vi era anticamente, una capacità di spensieratezza e di giocosità che è stata in buona misura soffocata dal culto dell’efficienza. L’uomo moderno pensa che tutto deve essere fatto in vista di qualcos’altro e non come fine a se stesso.

(…)

Soprattutto, ci sarebbe nel mondo molta gioia di vivere invece di nervi a pezzi, stanchezza e dispepsia. Il lavoro richiesto a ciascuno sarebbe sufficiente per farci apprezzare il tempo libero, e non tanto pesante da esaurirci. E non essendo esausti, non ci limiteremmo a svaghi passivi e vacui. Almeno l’uno per cento della popolazione dedicherebbe il tempo non impegnato nel lavoro professionale a ricerche di utilità pubblica e, giacché tali ricerche sarebbero disinteressate, nessun freno verrebbe posto all’originalità delle idee. Ma i vantaggi di chi dispone di molto tempo libero possono risultare evidenti anche in casi meno eccezionali. Uomini e donne di media levatura, avendo l’opportunità di condurre una vita più felice, diverrebbero più cortesi, meno esigenti e meno inclini a considerare gli altri con sospetto. La smania di fare la guerra si estingurebbe in parte per questa ragione, e in parte perché un conflitto implicherebbe un aumento di duro lavoro per tutti. Il buon carattere è, di tutte le qualià morali, quella di cui il mondo ha più bisogno, e il buon carattere è il risultato della pace e della sicurezza, non di una vita di dura lotta. I

Bertrand Russell, “Elogio dell’ozio” (Arnoldo Mondadori Editore, 1981) pp. 9, 14, 19, 22




A Gabicce Mare

in uno spazio tempo a metà via fra Cesenatico degli anni Ottanta e i matrimoni lampo di Las Vegas vive
Gabicce

a Gabicce non si dorme mai e si mangia a stento,
i “ciucciamonetine” sono alti un metro e mezzo o poco più,
conoscono bagnini e baristi, con cui hanno traffici segreti: è tutto uno scambiarsi soldini e monetini per avviare i temibili giochi, che sono
ovunque. Impossibile andarsene dalla spiaggia: bimbi! esclama il piccolo viaggiatore con il dito puntato
e del mare chissenefrega

il centro del mondo è la spiaggia,
giochi: giochi è la prima parola con cui ci si sveglia la mattina e mentre si aprono gli occhi suona imperioso un monito interiore:
là, fuori
fuori. Giochi!

C’è il camper di Adriano al bagno 28, si narra che quando arrivò i piccoli viaggiatori intergalattici facevano la fila. Me lo dice il bagnino Francesco, che per passione legge grossi volumi di economia in lingua inglese all’ombra. Al sole delle due resistono solo le signore più abbronzate, indefesse con il cappellino sulla fronte: loro, quelli piccoli, non si arrendono

scotta la sabbia? no
correre! dicono, e se ne vanno correndo mentre i grandi si salutano in fretta e lasciano i discorsi a metà.
Abbiamo tutti gli stessi giocattoli, molto simili, cambiano i colori e qualche forme. TrattoLe! I trattori sono i preferiti, ruspe, palle che il vento disperde continuamente e
ovviamente, secchiello e paletta.

Sono oggetto di lunghe contrattazioni fra i più piccoli, secchiello e paletta. Una palestra con cui i più volenterosi imparano, e insegnano, l’uso dei possessivi e della filosofia politica: mio, tuo, suo, condivisione, riappropriazione, appropriazione indebita, prestito, riscossione etc. Gli stronzi di solito iniziano a intuirsi già a questa età, hanno modi di fare che rivedrai a diciotto o quarant’anni, solo con più rughe.

Ma a volte è da un graffio e uno spintone che nasce un’amicizia. Perché tu, che cammini su questo pianeta da un po’, te ne andresti. Invece loro no: i giovani viaggiatori dello spazio, neo neanderthaliani, stanno ripercorrendo la storia dell’umanità in breve. Sono convinta che sia un’informazione impressa nel DNA, esce allo scoperto all’inizio del viaggio sulla Terra. Mio! No! Tu! IO! dicono “io” per dire “tu” e “tu” per dire “io”, si lanciano urli e danno spintoni, ma poi tornano, proprio come preistorici Neanderthal ribadiscono le posizioni, le discutono, si guardano dritto negli occhi, si lanciano sabbia e si depistano, si perdonano, si baciano, si odiano, si fanno la guerra e fanno pace

e poi te ne vai, un po’ più in là.
C’è il bagno Marisa al 23, dove incontri il gruppetto degli amici con cui proprio ti trovi. Succede a ogni età, affinità elettive, qualcuno le chiama, o più semplicemente la capacità di allenarsi a riconoscere quelli con cui ti piace fare gruppo: un esercizio che forse è il più importante di tutti e per tutta l’esistenza. Forse è proprio da questo allenamento che nasce il desiderio e la forza di non accettare passivamente la classe, la scuola, o i colleghi del lavoro ma di andare a cercare le situazioni e le persone con cui sentiamo di star bene; sapere che sì, è sempre possibile trovarle. Soprattutto se continui a camminare ed esplorare, sapendo che è un viaggio, che ti fermerai con qualcuno e non è affatto detto che saremo amici, non possiamo essere amici di tutti: questa è una grande e meravigliosa verità.

Vogliamo appiattire i bambini dicendo ‘sii amico di tutti’, ‘i giocattoli sono di tutti’. Ma tu non daresti la tua borsa o il vestito a cui tieni a chiunque. Dentro, anche se sei alto meno di un metro, intuisci che c’è qualcosa di storto, qualcosa che non torna in queste parole. No, non possiamo essere amici di tutti: bisogna imparare a sentire. E scegliere. E sperimentare, vivere, metterci alla prova. Curiosare. Uscire dal proprio spazio e vedere che effetto fa. Provare a giocare insieme, sbirciarsi a vicenda.

C’è Luca che ha cinque anni, anzi sei, ma non so quando sono nato in ogni caso o venerdì o sabato o domenica perché al mio compleanno è sempre festa, c’è Maria Sole che è sua sorella e di anni ne ha tre e Anastasia, la grande, che ne ha nove e suo papà, bravissimo a costruire piste giganti, che ogni tanto scappa a fumare, quando può – ancora un’altra ? – dice lei e scuote la testa. C’è Ettore che, la sua mamma sospira, spero si stanchi e vada a dormire. E poi Domenico che ha il costume con i teschi e gli occhi azzurrissimi: sono in quattro fratelli, ognuno distante cinque anni dal precedente o successivo. E poi Simone, che passerebbe la vita su uno scoglio o in acqua a nuotare come un pesce.

Tutti festeggiano le pagelle, comunque sia andata, e l’inizio di una nuova stagione dell’anno e della vita: le vacanze, desiderio di un anno intero. In barba alle preoccupazioni su ragazzini curvi sugli schermi, a Gabicce mare impera, incontrastato, il vecchio gioco delle biglie

le biglie sono palline di plastica colorata con dentro un’immagine, una figurina di carta diversa così ognuno può riconoscere la sua. Ogni giorno si fanno piste immense, dotate di tunnel, salite, discese ardite e fossati: questo impegna all’incirca tutta la mattina; poi si svolge la gara di biglie. Subito dopo è l’atto finale di distruzione perché le buche vanno richiuse altrimenti una persona può cadere e si rompe una gamba, soprattutto i vecchi, e poi il bagnino si arrabbia: questo lo sanno tutti i bambini. Per i più piccoli una delle cose più difficili da capire è perché alla cura estrema a non rompere mura e parapetti e tunnel in un attimo si sostituisca la furia cieca della distruzione. Tant’è, succede anche nella vita. E di solito, in spiaggia come nel quotidiano, solo chi ha costruito ha il diritto di rompere: diritto che si accaparrano i più grandi, che tanto si sono impegnati con secchi, sabbia, leganti e leggi dell’architettura dei ponti.

ogni giorno è diverso, ma solo se lo vuoi. Perché
se non fai programmi e ti lasci portare dalle sensazioni
può darsi che ieri ti farai un caffettino e uscirai tardi, senza orologio finendo per tornare tardissimo, al tramonto, con un cartoccio di spiedini di gamberi e calamari, la sabbia fra le dita dei piedi e ovunque, la pelle rossa di sole e appena il tempo di fare una doccia prima di addormentarsi
oggi hai lasciato aperta la tapparella e ti sei alzata presto, beato chi ama svegliarsi all’alba e cammina nella spiaggia ancora umida fra i colori che dipingono l’inizio del mondo

domani non sappiamo che sarà,
non lo sappiamo mai a dire il vero solo che cerchiamo di darci orari, tempistiche, programmi,
giusto per star tranquilli
giusto per occupare il tempo

e ci perdiamo il gusto,
il gusto di vivere attimo per attimo, che
ogni attimo ti dice di cosa c’è bisogno in questo momento
proprio questo, adesso e qui

tutto questo sembra estate, ma è ancora primavera,
gli ultimi giorni di primavera
a Gabicce Mare.




La filosofia della gentilezza

La filosofia della gentilezza è un modo di stare al mondo: essere gentili, una sfida. Ecco la rivoluzione: a bassa voce, con un sorriso

Ci sono delle cose che dovremmo tenere a mente e una di queste, insieme alla gratitudine, è la gentilezza. Sulla gratitudine ci hanno scritto dei libri, compresa Oprah (Winfrey), che a dire il vero ha avuto una vita per niente facile e se non fosse per qualcosa di più che una sterile analisi dei fatti probabilmente sarebbe ancora immersa nelle sabbie mobili del rancore. Sì, la rabbia ci divora da dentro: ci smangia e consuma l’impossibilità, o almeno il crederlo tale; ci logora l’eterna attesa, la tristezza che deprime, la pioggia che intride, il rimorso, il rimpianto, la nausea di tutto. La sensazione che avrebbe potuto essere meglio, sempre e comunque.

La meditazione ti fa fermare e vedere quello che vivi, qui e adesso, sof/fermarsi a respirarlo, soffiarlo via, incamerarlo
è esattamente quello che succede quando sono grata. Mi fermo e lo vedo, tutto ciò che ho vissuto: entra nel naso, in gola, riempie i polmoni.
A volte è forte, troppo forte; fa pizzicare il naso, gli occhi, la pelle. Fa scendere il naso e ridere, piangere, in una parola: emozionarsi.

Piange o ride, non si capisce quale delle due, ha detto oggi un bambino parlando di uno più piccolo che voleva aiutare.
Ecco, non diciamocelo. Importa davvero dare il nome a tutto? Malinconia, disperazione, attesa, felicità, trepidazione, quante sfumature infinite tutto quello che possiamo provare. Ci hanno detto che importante saper leggersi dentro, ma magari è tutto questo e ancora molto altro.

Questo è il punto. Non mi forzo. Non mi sforzo. Quando smettiamo di farlo allora iniziamo a essere gentili con l’ultimo degli ultimi: noi stessi. Noi, che siamo quelli che ci giudichiamo. E arranchiamo, corriamo, non ci bastiamo, ci allunghiamo, ci facciamo piccoli o grandi a seconda del caso.

Gentilezza, una parola bellissima.
Che cosa ci vuole nella vita? Più gentilezza.

Sembra che la parola “gentilezza” indichi l’appartenenza alla stessa gente, a un medesimo gruppo sociale. I bambini in questo a volte sono giudici terribili: devi entrare nel cerchio per poter essere trattato con gentilezza, devi osare e giocartela, devi volerlo e rischiare.

Abbiamo questa idea di dover tirare fuori il meglio da noi stessi e dal mondo. Invece basterebbe vedere quanto siamo già tutto questo e oltre, altro.
Eravamo bellissimi, quando abbiamo iniziato a percorrere questa strada, appena precipitati su questa sfera azzurra chiamata Terra.
Siamo bellissimi e nessuno ce l’ha mai detto.




Trovare la bellezza nel mondo

Le rose perché sbocciano tutte insieme e all’improvviso
I bambini perché portano caos nelle vite ordinate
I cani perché conoscono l’amore
La pioggia perché tutto fa risplendere
I fiori selvatici perché sono alieni silenziosi e noi ancora lì a cercare nel cielo ciò che non sappiamo riconoscere in terra
Il legno, la terra, l’acqua perché veniamo da lì
Le giornate fatte di ore lente, dove niente accade, perché ci fanno osservare il sole
Le spine delle rose, i germogli appena nati, camminare a piedi nudi, liberare una lucertola, le ortiche che fanno ahi e la pizza da impastare, gli aperitivi fino a tardi, aspettare l’imbrunire, l’orizzonte silenzioso e indaco, le prime stelle della sera, un sogno bello
quante cose ci salvano
con la bellezza

– Trovare la bellezza nel mondo è un esercizio quotidiano, dentro ha il potere della gentilezza che si china e, flessibile sulle ginocchia, si inchina alla vita. Domani voglio continuare a trovare…




Giugno

primo giorno di giugno, il “mese delle ali di cicala”, uno dei nomi di giugno in Giappone.
La guerra in Ucraina è al giorno 97, fra tre saranno cento: è passato febbraio con gli ultimi strascichi di inverno, sono sgocciolati via marzo e aprile con la Pasqua, che quest’anno si è magicamente sovrapposta fra cristiani cattolici, ortodossi e la fine del Ramadan. Scivolato via maggio, con gli acquazzoni che sconquassano e il sole che già fa immaginare l’estate, è un nuovo mese

il 24 di giugno, san Giovanni, è il momento di raccogliere i fiori di camomilla, si diceva un tempo.
Questo è il mese del solstizio e dei fuochi, che celebravano la danza del sole e la natura che di nuovo cambia e incontra una nuova fase. Il mese delle vacanze estive, del grano e dell’amore.

Nella notte infinita del 24 si davano appuntamento le streghe e forse ancora lo fanno, nascoste tra foreste antiche e giungle di cemento. Torneranno le lucciole, a breve, aleggeranno luminose sui prati di notte, mentre i pipistrelli ci sfiorano con un brivido.
E nei falò si bruciavano le ossa per scacciare i diavoli e si ballava intorno cantando la notte e prendendosi per mano, furtivi. La stagione dell’amore sì, del grano da tagliare, dei papaveri che inondano il mondo di rosso e del caldo che ferma il mondo. Ma proprio quando il sole è al massimo già inizia a calare e il buio, lentamente tornerà a farsi posto nelle ore di luce.

Questa è la lezione del solstizio e dell’estate, l’ombra è là dove la luce risplende di più. E un po’ prende la gola, questa inquietudine leggera. È il senso della fine che sta in tutte le cose, che di giorno ce la dimentichiamo ma il tramonto la ricorda.
Con la cenere dei fuochi di san Giovanni ci si strofinava per togliere il malocchio e la sfortuna, un tempo. La mattina, nell’acqua di san Giovanni fatta di fiori lasciati a riposare alla luce della luna, le ragazze leggevano il loro futuro e poi si lavavano il viso con la rugiada, che gli antichi Romani pensavano avesse moltissime proprietà. È tempo di raccogliere le noci, ancora verdi, per preparare il liquore nocino.

Mia nonna guardava alla finestra il sole e sapeva che in un certo punto, lì lungo il profilo sul crinale delle montagne, tramontava in giugno, in un altro punto a settembre. E così, l’estate aveva una durata che si misurava nello spazio, sulla punta delle dita e con lo sguardo. Che in fondo questo è la vita, ricordarsi ogni tanto di fermarsi
e avere tempo per guardare dove finisce il Tempo