Vivere il tempo in quarantena

E la gente rimase a casa
E lesse libri e ascoltò
E si riposò e fece esercizi
E fece arte e giocò
E imparò nuovi modi di essere
E si fermò

E ascoltò più in profondità
Qualcuno meditava
Qualcuno pregava
Qualcuno ballava
Qualcuno incontrò la propria ombra
E la gente cominciò a pensare in modo differente

E la gente guarì.
E nell’assenza di gente che viveva
In modi ignoranti
Pericolosi
Senza senso e senza cuore,
Anche la terra cominciò a guarire

E quando il pericolo finì
E la gente si ritrovò
Si addolorarono per i morti
E fecero nuove scelte
E sognarono nuove visioni
E crearono nuovi modi di vivere
E guarirono completamente la terra
Così come erano guariti loro
Kathleen O’Meara, poesia scritta nel 1869

Ora o mai più

Il tempo si spezza e si entra nel mondo sospeso.

Si chiamano punti di riferimento temporali. Sì, perché non ci orientiamo solo nello spazio, ma anche in quello che è il nostro sentimento del tempo. Il tempo, che di per sè non esiste, ma esiste su di noi: è effetto di pelle e ci si incolla sull’epidermide. Il tempo è ruga, solco della terra che attende il passaggio dal seme a albero; il tempo è cicatrice, ferita, sorriso che si apre, sguardi che si perdono o si incrociano in un istante fatale.

Abbiamo bisogno di scialuppe di salvataggio per fuggire dal tempo, a volte. O altre volte di barchette di carta che sappiano traghettare intatti i momenti di cui abbiamo bisogno attraverso l’oceano inconsapevole dell’oblio. Una boa, almeno: da raggiungere a nuoto, bracciata dopo bracciata, che ci ricordi il destino, parola ambigua che in lingua italiana con un solo vocabolo è capace di unire spazio e tempo. “Destino”, quello del tempo di una vita, destino la fermata ultima di un treno. Smemorati cronici, al binario dell’esistenza con la valigia della nostra storia, cercando il senso indietro o avanti, tra qualche chilometro. Un punto che interrompa l’orizzonte indistinto e uguale a se stesso. Un punto di riferimento, appunto.

Il primo giorno del nuovo anno è uno di quei giorni definiti “punti di riferimento temporali” scrive Daniel H. Pink, che di mestiere ha fatto lo speech writer per Al Gore. Dobbiamo immaginarci una cosa simile al bar dell’angolo, la casa di mattoni rossi o il semaforo all’incrocio: la nostra mappa quotidiana è fatta di riferimenti che dividono e suddividono… lo spazio, ma anche il tempo. Nello stesso modo in cui lo sguardo si appiglia a costruzioni che emergono sul piano visivo, spieghiamo e organizziamo la nostra mappa temporale. Dentro l’ordine dei giorni cerchiamo il bandolo di una matassa che al tempo del Covid si è fusa e confusa.
La scatola dei gomitoli ora è diventata inestricabile. Torneremo mai quelli di prima?
Vogliamo tornare quelli di prima?

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Oggi mi sono svegliata e c’era brutto tempo. Niente sole, aria fredda. Nonostante questo, ho voluto mettere la musica ad alto volume e ho costretto la mia famiglia a ballare in salotto. Poi ho cantato ad alta voce. E poi mi sono venute un paio di idee che non ho voluto lasciar scappare. Così le ho segnate su un’agenda trovata sulla mia scrivania. Cose che oggi ho potuto solo sognare, ma che finito quest’incubo vorrò, anzi dovrò assolutamente realizzare. Le ho scritte in bella calligrafia, tutte in verde, come la speranza. Perché i sogni belli meritano cura e attenzione. Poi ho chiuso l’agenda. Sulla cover c’era scritto: “Fai le cose con amore”. Niente succede mai per caso. . . . #quarantine #mysweetquarantine #coronavirus #covid_19 #covid19italia #sogni #todreamlist #todolist #cosedafare #hope #speranza #amore #picoftheday #pictureoftheday #instahope #futuro #future #pensieribelli #solocosebelle #riflessioni #insegnamenti #gratitudine #grazie #eternamentegrata

A post shared by Francesca Favotto (@francescafavotto) on Mar 22, 2020 at 11:32am PDT

“Favole al telefono” di Gianni Rodari durano solo una pagina, ma non tutti sanno perché. Sono state raccontate al telefono da un commesso viaggiatore che ogni sera chiamava la sua bambina a casa per darle la buona notte e, come scrive Rodari, le interurbane costa(va)no. Sono favole moderne e adesso quasi non lo sono già più, perché sono state scritte negli anni Sessante, edizioni Einaudi 1962 per l’esattezza. Oggi siamo nella contemporaneità. Il telefono praticamente non costa più e non esiste nemmeno più
– nella mente il rumore del telefono grigio beige della nonna, dove infilavi il dito nella rotella e per iniziare a chiamare descrivevi un cerchio nello spazio come un rito magico –
ora da un capo all’altro dell’oceano passa un filo che ci permette di parlare e addirittura vedere quelli a cui vogliamo fare ciao. Siamo viaggiatori del XXI secolo, eppure se togli “20” davanti, rimane ’20.
Siamo di nuovo nei meravigliosi Venti, il sapore dell’inizio. Un altro giro di valzer.
Perché ogni secolo, ovvio e incredibile, ha i suoi anni Venti. Da piccola io mi chiedevo com’erano state le persone degli anni Venti; cercavo di immaginarmele quelle vite dell’Ottocento, Settecento, Novecento.
I sogni, gli incidenti e i bivi della vita. Le svolte, gli orizzonti cercati.
Le illuminazioni improvvise e le saggezze dell’età. Le cucine e le case, i visi allo specchio.
Che faccia avevano, quali abiti e sogni, che speranze e incubi abbbiamo indossato in tutti gli anni Venti della Storia.
E chissà, come saranno quelle degli anni Venti del Duemila col senno di poi.
E chissà, come saremo noi nel nostro sguardo di domani

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