10 giugno

“Il 10 giugno 1940 era un bel giorno di primavera, quasi estivo. Probabilmente la dichiarazione di guerra, che Mussolini avrebbe proclamato dal fatidico balcone di Palazzo Venezia e che venne trasmessa via radio, era già stata annunciata preventivamente. Mio padre, infatti, aveva trasferito la radio, di marca CGE nel nostro cortile interno per poterla fare udire anche alle famiglie dei Rossi e dei Sacchetti, che non la possedevano e le cui finestre si affacciavano sul cortile stesso. A pomeriggio inoltrato si sprigionò dall’apparecchio, al massimo del volume, la voce del duce che soverchiando e azzittendo il coro degli evviva dei tanti accorsi nella piazza, annunciava che erano state consegnate le dichiarazioni di guerra alla Gran Bretagna e alla Francia e che di conseguenza il conflitto era di fatto iniziato. Esordendo con l’ormai famoso e fatidico incipit: “Combattenti di terra, di mare, dell’aria, Camicie Nere della rivoluzione…ascoltate: l’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria, l’ora delle decisioni irrevocabili”. Al momento di menzionare i due nemici Gran Bretagna e Francia si levò dalla folla plaudente un “booooh” come quello che ora è di grande attualità negli stadi calcistici, rivolto a qualche sfortunato giocatore di colore. Ma, mentre dall’apparecchio radio giungeva un prolungato e fragoroso applauso misto a grida di approvazione, dalle finestre dei Rossi e dei Sacchetti non pervenne nessun commento. Mio padre rimase silenzioso e assorto mentre gli occhi di mia madre e di mia nonna si appannarono in un accenno di lacrime trattenute. Da poco più di vent’anni era terminata la Prima guerra mondiale: sia per mio padre, che l’aveva vissuta in prima persona al fronte, sia per mia madre e mia nonna che avevano trepidato per fratelli e figli gettati nella mischia: il ricordo era ancora troppo cocente per poter accettare con gioia una nuova carneficina. Ora cominciava un rinnovato tempo di angosce per nipoti, parenti, amici, che presto sarebbero partiti per i vari fronti e se fortunati sarebbero rientrati solo dopo cinque lunghi anni. La dichiarazione di guerra non giunse certamente come un fulmine a ciel sereno. Già da tempo ne erano apparsi i primi sintomi premonitori. Dopo la collaudata autarchia e le disposizioni dell’Unione Nazionale Protezione Aerea per la creazione dei rifugi antiaerei, già nel mese di febbraio era entrata in vigore la carta annonaria, con tutte le relative restrizioni alimentari e di generi di primo consumo. Credo che fosse operante anche l’ammasso obbligatorio e le due cose contribuirono subito alla creazione di un fiorente mercato nero. Era iniziata l’era del surrogato. Si surrogava tutto: il caffè era sostituito con orzo, ceci, cicoria, e fagioli; il carcadè del Setif, ignobile intruglio rossastro, aveva la presunzione di sostituire il tè che peraltro, essendo una bevanda tipica della perfida Albione, non era particolarmente apprezzato. Al cioccolato subentrava la nonna della Nutella fornita sempre dalla Ferrero, ma a base di sole nocciole, carruba, e qualche altro additivo per aggiungere colore e sapore. Purtroppo, quello che rimase originale fu l’infernale “Ferro-China Bisleri” amarissimo ricostituente che mia madre mi obbligava a ingurgitare perché “mi faceva crescere bene”. Fortunatamente fui preservato dall’ancor più infernale olio di fegato di merluzzo, il cui ricordo è rimasto negli incubi di tanti miei coetanei. Il cuoio per le suole, riservato ai militari, ma spesso neppure a loro, era sostituito da una specie di cartone pressato, dal sughero e anche da vecchi copertoni di auto e moto riciclati e ovviamente super consunti. La lana era diventata poi lanital mentre su suggerimento della sarta Spagnoli molti si erano gettati nell’allevamento dei conigli d’angora che, prima di chiudere la loro esistenza gloriosamente in padella, fornivano una morbida lana. Per le signore e signorine le calze di seta si erano trasformate in un mito, si dovevano accontentare di quelle di rayon,materiale, che pur avendo la mia età, fino allora non aveva goduto di grande fortuna, ma per forza maggiore divenne di moda per quel determinante capo di abbigliamento femminile. All’epoca nessuna donna avrebbe mai osato presentarsi in pubblico, anche in piena estate, senza calze. Considerato che non erano ancora state inventate le calze tubolari, la tecnica di fabbricazione contemplava una lunga riga di giuntura che seguiva posteriormente tutta la lunghezza della gamba. L’ossessione della riga dritta era costante tra tutte le donne. Non era, infatti, difficile vedere signore e signorine, di spalle a una vetrina, controllare la riga nel riflesso dei vetri. Per quanto riguarda la riga verso la fine del conflitto, quando ormai non erano più reperibili neppure le calze in rayon, molte donne si facevano disegnare sulla gamba nuda una lunga riga, per dare l’impressione d’indossare calze regolari con le famose scarpe ortopediche. La carne, anch’essa contingentata, veniva distribuita a piccole dosi e le macellerie chiudevano nei giorni di mercoledì, giovedì e venerdì e negli stessi giorni non poteva essere servita nei ristoranti. Lavoravano le tripperie, dove si poteva trovare solo trippa e la macelleria di bassa scelta, che distribuivano le interiora degli animali come fegato, cuore, milza, polmoni e anche carne di animali non macellati secondo le regole, ma morti per malattia o infortuni. Le severe regole sanitarie, con cui conviviamo oggi, allora non albergavano neppure nei sogni”

Domenico Alvisi
“Storia minima di un balilla mancato” (Pendragon)