Perdersi in un profumo

Una volta a scuola ci hanno dato un tema da fare, eravamo alle Medie. Il titolo non lo ricordo. Aveva a che fare con il tempo passato a scuola, la nostra vita lì in quell’edificio dove i piani si aprivano come ali intorno alle scale centrali, con tante aule come piccole scatole da dove fuggire per una passeggiata solitaria quando fingevo di dover andare in bagno e finivo per prendere la strada più lunga solo per vagabondare fra i corridoi vuoti sbirciando dentro le classi. Quello che ricordo è che dopo quel tema, il mattino della correzione, l’insegnante ci disse che tutti noi avevamo citato il caffè.
Ogni giorno, fra le dieci e le dieci e trenta, due colpi di nocche alla porta e un attimo breve di attesa; la bidella col suo grembiule azzurro entrava con passo spedito e togliendolo dal vassoio, appoggiava sulla cattedra l’espresso appena fatto.

Perdersi in un odore
il profumo di caffè che riempie la stanza,
la polvere quella tostata e macinata fresca, al momento:
ogni volta apro il barattolo e sorrido.

Perdersi in un profumo,
l’infanzia ha quello di sapone da bucato
inconfondibile
e affondare il naso dentro le lenzuola appena cambiate,
i sacchetti di lavanda in fondo ai cassetti
l’interno dell’armadio che sa di buono
apri le ante e chiudi gli occhi, da piccoli ci giocavamo a nascondino
immobili, sulle pile di coperte ben lavate e profumate
sarei potuta rimanere là per ore.

Perdersi in un puzza,
un profumo, un odore.

Le fragoline di bosco quqndo le schiqcci per sbaglio,
il legno delle matite colorate e la gomma che cancella bucando il foglio,
l’odore dei corridoi di scuola
il disinfettante
quello del dentista di menta e colluttorio.
Le scale appena lavate del palazzo,
l’odore delle strade,
dell’ospedale.
L’odore delle sale d’aspetto.

L’odore del treno, delle stazioni e la puzza di benzina di quando ti fermi a fare il pieno.
Il finestrino giù e l’aria che entra
che odore avrà?
Il nostro cane, che se ne intende, mette la testa fuori e con il naso all’insù, mentre la macchina va, analizza
le correnti e tutte le loro provenienze.

L’odore di erba tagliata è il profumo dell’estate,
caldarroste quello dell’autunno, sentore di legna e calore di fuoco.
Brace,
carbone,
sugo che cuoce
arrosto della domenica.

Odore di pane fresco,
la mattina
fiori appena raccolti
rose sbocciate.
Odore di pioggia
cera di candele,
piante selvatiche
menta

Perdersi alla Bolognina

Il rumore scivoloso delle foglie bagnate nel parchetto di sotto, quello di fronte alla posta e il cane che corre scompigliando la coda di quelli in fila.
Il punto dove si radunano i piccioni e quello per farli volare via tutti d’un colpo.

Autunno che finisce e nel mese di dicembre la Bolognina appende le sue luci. L’ultima volta che ero qui guardavo l’estate dal balcone. Finiva il Ramadan e il vicino incontrato per caso sul pianerottolo aveva un vassoio enorme con una piramide di verdure fumanti e cous cous con le spezie, ne vuoi un piatto? Te lo preparo sai, mi fa piacere.

Ospitalità sacra. Alla Bolognina vecchie botteghe riconvertite in negozi etnici, una panetteria metà di pane italiano e metà arabo, il negozio di tessuti dove comprare gli scampoli per provare a farci qualcosa. Il bar della signora cinese che mi dice buona giornata e quello sotto i portici, così vagamente anonimo da non dare nell’occhio ma con una bella parete tutta di vetro dove sedersi gomito alla strada, davanti a un cappuccino sfogliare i quotidiani mentre fuori piove e io mi incanto a guardare il traffico ipnotico dell’incrocio, facce grigie sotto l’ombrello e suole fangose, pneumatici che schizzano acqua,la mattina è un’immensa pozzanghera. Non vorrei fare altro che stare a guardare per ore la gente che passa.

Perdersi alla Bolognina
è una mappa di profumi e odori portati a ondate da angoli diversi di mondo.
Nei negozi africani parrucche di capelli veri e olio di macassar,
barbieri indiani che radono uomini che si spiano allo specchio.
La mano di un uomo dalla tunica leggera e lunghissima che regge il manubrio di una bicicletta, piedi nudi nei sandali di cuoio scuro

A Natale la pioggia si è asciugata e le foglie secche dell’autunno se le è portate via il vento. Braccia cariche di spese e file troppo lunghe. In un bar etiope si fa festa, è la vigilia. Dall’altra parte della strada il negozio con l’insegna colorata è ancora aperto, dentro un signore indiano vende empanadas e pollo fritto. Perché non ricette indiane? Non mancherebbero, l’India è piena di pollo fritto. Chissà, è che il negozio è nato sotto questa stella e nello stesso cielo continua a proliferare. A volte succede che uno lascia indietro tutti i profumi con cui è cresciuto per attraversare mezzo mondo e riaprire la valigia, trovare altri odori da abitare e poi ogni giorno andare a lavorare in un altro parallelo, a pochi passi da quella che è la tua nuova casa. Sempre con le spezie in tasca.

Perdersi al fiume

Il rumore dell’acqua,
prepotente, incessante, soverchiante.

All’inizio il fiume ha una voce sottile sottile,
da lontano è solo un fruscio tra le foglie.
Le pozze piene di rane dello scorso anno si sono seccate.
Terra secca e bianca, rami che graffiano di spine.
Fiori gialli selvatici ovunque.

Perdersi al fiume
rumore di acqua,
il sole sulla pelle e la luce forte negli occhi
mentre li riparo con la mano.
La geografia del cambiamento ha disegnato un nuovo paesaggio
Si fatica a riconoscere le linee precedenti e
ogni anno accade di nuovo.
Il fiume diventa differente dal vecchio se stesso,
metaforfosi costante.

Sassi che rimbalzano sull’acqua,
il cane che nuota più sicuro e si lascia andare nella corrente.
Ragazzini a caccia di fossili
si lanciano giù per le briglie
l’inizio dell’estate sembra un tuffo in un tempo infinito.

Il fiume ci ricorda che tutto è cambiamento, la geografia una storia che evolve ogni istante, scritta e riscritta sulla nostra pelle.

Perdersi a Phnom Penh

Era la primavera del 1973. La sera, intorno alla piscina dell’hotel Le Phnom dove ci si ritrovava a smaltire le emozioni, le paure e le frustrazioni della giornata, si discusse, come sempre, dell’ assurdità di quella guerra e della stranezza del nostro ruolo di giornalisti, voyeurs impotenti della distruzione di un paese e dell’abbrutimento di un popolo a cui tutti ci sentivamo legati ogni giorno di più.

Avendo ancora negli occhi le immagini dei loro cadaveri disseminati nelle risaie dai bombardamenti americani, o abbandonati al margine delle strade dai soldati governativi (che a volte toglievano loro il fegato per mangiarlo e così acquisire la loro forza), i Khmer rossi, partigiani di una Cambogia contadina che si difendeva dall’ intervento della superpotenza Usa e si opponeva al regime corrotto ed inefficiente messo al potere dal colpo di Stato organizzato dalla Cia, i Khmer rossi ci sembravano l’unica via d’uscita dall’incubo della guerra.

Fossero arrivati loro a Phnom Penh, il conflitto sarebbe finito. Senza più protettori stranieri nè dall’ una nè dall’ altra parte, i cambogiani si sarebbero intesi fra di loro e la Cambogia avrebbe ritrovato la sua pace di paese povero ma indipendente. Allora la pensavamo così. Come molti altri giornalisti che lavoravano in Indocina, io ero contrario a quella guerra.
Del resto, come si poteva pensarla altrimenti?
Tiziano Terzani

Phnom Penh è un gatto addormentato lungo il Mekong. La città è cresciuta accoccolata intorno alla linea d’acqua del fiume Mekong che qui confluisce, insieme al Tonle Sap, il “Grande fiume dalle acque fresche”, dichiarato nel 1997 riserva della biosfera dall’Unesco, il più grande lago di acqua dolce del sud-est asiatico.

Il fiume è immenso e grigio, a tratti ocra come la terra ruvida che appanna la vista sul fondo. Traghetti e imbarcazioni solcano la sua superficie, avanzano lente nell’aria ferma della giornata senza respiro. Quando arriviamo a Phnom Penh è l’alba e la città si sveglia, gente che corre sul lungofiume e studenti con le cartelle. In Cambogia quella che noi chiamiamo terza età è un capitolo di vita molto attivo. Gli anziani li vedi per strada, in piccoli gruppi di amici, ritrovarsi ogni sera per fare stretching all’interno di qualche parco o in un angolo verde cittadino; si muovono al ritmo della musica, coordinati da una donna che ha con sé una cassa che poi si riporterà via, sparendo nella folla dopo un’oretta. Fanno jogging da soli o a gruppetti, con la tuta e scarpe adatte, si fermano a utilizzare gli attrezzi di metallo semplici e robusti che trovi un po’ ovunque: in Vietnam e in Cambogia le palestre sono all’aperto, a disposizioni di tutti.

Phnom Penh è la capitale della Cambogia ed è una capitale che non ti aspetti. Al di là della presenza della fiume, che ha un respiro immenso, si estende un nugolo di case basse da cui riesce ad alzarsi su un gomito solo il Palazzo Reale, che infatti è il punto di riferimento principale da usare per orientarsi se uno dorme nel quartiere.

Costruita nel 1860, la Pagoda d’argento di Phnom Penh ha un tetto di piastrelle d’argento: qui, fra i nove edifici di questo complesso minuziosamente decorato, ancora oggi vive la famiglia reale. Solo una parte è aperta al pubblico: il palazzo reale di Phnom Penh, che è aperto tutti i giorni, nella parte che i turisti non vedranno è il laborioso ufficio del regno.
Che starà mangiando oggi a colazione il re, Norodom Sihamoni? Lui, che ha anche qualche scia di sangue italiano (la madre Norodom Monineath nasce Paule-Monique Izzi), oltre alla sua lingua (e all’inglese, russo e francese) parla anche il ceco, perché a Praga trascorre tanto della sua adolescenza, frequentando le scuole superiori all’Accademia di Arti Musicali. Il filo di un’appartenenza viscerale quella fra il principe e Praga. Appassionato di musica, entra al Conservatorio. Dopo il colpo di Stato di Lon Nol nel marzo 1970 gli viene vietato il ritorno in Cambogia: lui si trasferirà a casa del maestro di scuola delle elementari (in seguito sarà insieme al padre in Corea del Nord, dove studia cinematografia all’Accademia Nazionale di Pyongyang).

Perdersi a Phnom Penh
Gli spiedini di carne stesi a seccarsi
al sole
per strada l’odore di bruciato misto a smog
la vampa umida e calda del sole
statue di monaci in preghiera come fossero vivi
il profilo alto e incombente del Palazzo
la presenza del fiume.
E poi perdersi fra i banchi del mercato
dove il pesce sfrigola sulla griglia e
si beve succo ghiacciato,
la luce filtra appena fra i tendoni fitti.

A piedi per le strade,
centri commerciali e grattacieli altissimi
piccole strade di fango
all’improvviso
la pioggia
forte, fragorosa
senza ombrello, si corre
vicino i canali delle fogne
a cielo aperto
rivoli di acqua nera
file di lampadine accese sui ristoranti illuminati
da lontano il verde acceso della pagoda,
dove per un monetina si liberano i passeri prigionieri.
Nascosto fra abitazioni anonime,
l’urlo silenzioso dell’S-21

St 113, Phnom Penh 12304, Cambodia: l’indirizzo dell’S-21 lo conoscono tutti. Qui un tempo c’era una scuola e in un angolo lugubre ancora si vedono, calcoli scritti con il gesso lasciati da un tempo che ormai è troppe ore fa, quando le giornate erano ancora piene di sole lento. Nell’ottobre 1975 i giorni di scuola della Tuol Svay Prey High School terminano bruscamente e le finestre vengono sbarrate con pezzi di legno e ferro. Le aule grandi che un tempo ospitavano le classi sono frazionate e trasformate in minuscole celle divise fra loro da pareti. A pochi passi ci sono le case, tutte intorno questo edificio da sempre immerso nella vita brulicante del quartiere, all’improvviso i suoi muri alti sono circondati di filo spinato.

Tutti sapevano cosa accadeva. S-21 è una cicatrice nella storia della città di Phnom Penh. I primi gruppi di detenuti arrivano in autunnno e poi altri andranno ad aggiungersi, un fiume inesorabile che lava di sangue i pavimenti dove venivano incatenati, caviglie e polsi, con catene ancora fissate ai piedi dei letti. I Khmer rossi ribattezzeranno la struttura Ufficio di Sicurezza 21. Dal 2009 il Museo Tuol Sleng è nell’Elenco delle Memorie del mondo Unesco e testimonia il genocidio del popolo cambogiano. Una grande scala conduce dal cortile, dove si affacciano i diversi stabili, al piano superiore, in cui sono esposte alcune delle storie di chi è arrivato qui, spesso senza nemmeno sapere perché, senza un motivo: contadini strappati alla terra ai quali venivano fatte domande senza che si potesse capir quale risposta dare, domande a cui in fondo non c’era risposta.

Del genocidio cambogiano rimane la spiazzante ferocia di un dolore urlato nel silenzio generale. Tuol Sleng, in lingua khmer “collina del mango selvatico”, era una delle prigioni disseminate in tutto il Paese: fra il 1976 e il 1979 a Tuol Sleng vengono imprigionate oltre 17.000 persone. Nessuno conosce il numero esatto. Come in seguito raccontò il direttore, i proiettili non venivano utilizzati perché ritenuti troppo costosi. Insieme agli uomini e alle donne, qui furono imprigionati bambini.
Di 17.000 prigionieri i sopravvissuti di Tuol Sleng furono 14.

I grandi massacri di Phnom Penh fra il 1975 ed il 1978 ebbero luogo nel liceo Tuol Sleng, a poche decine di metri dall’ ambasciata cinese, dove non solo si potevano sentire le urla delle vittime, ma si tenevano i conti della gente che veniva via via eliminata. Durante gli anni che ho trascorso a Pechino ho saputo di un diplomatico cinese ricoverato in un ospedale psichiatrico: era stato assegnato a Phnom Penh e, testimone e complice delle stragi, era impazzito.

William Shawcross, nel suo libro Sideshow, individua le radici della brutalità dei Khmer rossi nell’ essere stati vittime della brutalità dei bombardamenti a tappeto americani; ma questa può essere stata solo un’ aggravante. La verità, come dicevo, è che i Khmer rossi sono il prodotto di una ideologia. Pol Pot non è un pazzo; quello che ha tentato di fare in Cambogia è la quintessenza di ciò che ogni rivoluzionario vorrebbe realizzare: una nuova società. La stessa cosa, ad esempio, aveva cercato di fare Mao con la rivoluzione culturale. L’operato di Pol Pot fa più impressione, sembra più disumano, solo perché Pol Pot ha ridotto i tempi di realizzazione, è andato direttamente al nodo della questione.

Come tutti i rivoluzionari, Pol Pot aveva capito che non si può creare una società nuova senza prima creare degli uomini nuovi, e che per creare degli uomini nuovi bisogna eliminare innanzitutto gli uomini vecchi, distruggere la vecchia cultura, cancellare la memoria collettiva. Di qui il progetto dei Khmer rossi di spazzar via il passato con tutti i suoi simboli e con i portatori dei suoi valori: la religione, gli intellettuali, le biblioteche, la storia, i bonzi.
Tiziano Terzani

Al tramonto un vecchio cambogiano siede fra gli alberi sulle scalinate del Wat Phnom, noto come montagna di Pagoda. In effetti assomiglia a una piccola montagna, proprio nel cuore della città di Phnom Penh. Il Wat Phnom, costruito nel XIV secolo, è un tempio buddista che sfiora i 27 metri di altezza. È un vecchio rito quello di chiudere in una gabbia gli uccelli per poi liberarli, una moneta. Un’intenzione che prende le ali, una preghiera che vola fino al cielo.

Manciate di strade più in là, odore di mille cucine dal mercato di Phnom Penh e lo stile art-deco del Central market, Le Thmei. Costruito nel 1937 su un vecchio lago, durante la stagione delle piogge l’acqua torna a allagare l’area, dove oggi svetta la cupola centrale, antica scrosciante memoria di fango e fiumi.
Fondata nel 1400, Phnom Penh è un porto che vive d’acqua. Da nord a sud la taglia la via principale, il Monivong Boulevard, lungo sei chilometri e mezzo, pieno di palazzi e gente in motorino. Ma sulle sponde del Tonle Sap, dove c’è il porto fluviale di Phnom Penh, il tempo si ferma. Davanti a un caffè osservo il pranzo di quelli in partenza, in attesa del traghetto nel primo pomeriggio. Sì, da Phnom Penh si va via sull’acqua. Attraverso il viaggio su questa acqua vasta, seguendo la scia delle piccole imbarcazioni che propongono una crociera di qualche giorno sul fiume: da lontano, ci si saluta con la mano mentre si osserva la vita intorno. Il fiume occupa tutte le nostre parole. Via, trovando la direzione verso la liquida linea della frontiera con il Vietnam, un punto invisibile nell’orizzonte in movimento.

Perdersi nella memoria

La persistenza della memoria, un dipinto. Olio su tela di Salvador Dalì. Orologi che si sciolgono, tempo liquido che sfugge come sabbia scivolosa fra le dita.

Di che cos’è fatta la memoria? Tempo liquefatto, tempo fluido e agli sgoccioli. L’elasticità e la relatività del tempo. Camminando nella neve oggi ascolto il suono dei miei passi, quasi nullo nel silenzio totale. Il paesaggio con la neve si trasforma in una tela con poche ed essenziali forme: la strada, una linea lunga senza confini che non inizia e non finisce. Combatto con il pericolo di cadere e mi lascio andare all’oscillazione che mi mantiene in equilibrio, un equilibrio fluido e momentaneo.

Perdo tempo. Perdo il senso del tempo in questo tratto scritto da un paesaggio tutto uguale in cui non mi riconosco. E allora a risaltare sono i miei pensieri, il filo dei miei pensieri mi trasporta e mi ricorda a che punto sono della strada.

Sembra che l’origine della parola memoria provenga dalla radice indoeuropea smer: “ponderare, pensare, meditare, considerare, curare” ci ricorda James Hillman. Mnemosine, non regina bensì madre delle Muse, dea della memoria; mnema, in greco antico, tomba e ricordo.

Strada liquefatta, fluida e agli sgoccioli. Una strada fatta di polvere di neve, scivolosa e plastica, in trasformazione costante, ora dopo ora.

E ora dopo ora, il paesaggio si modifica, sommerso da questa neve instancabile che cade da ventiquattr’ore, polvere leggera. A sera la spio mentre cade nella luce dei lampioni accesi: in queste ore che attraversano il tempo, invisibili e leggere, lontani, ritrovo i fili dei miei pensieri come fili di perle da toccare nel buio di una scatola segreta, cippi ai bordi di una strada posti come pietre di confine in questa vastità fluida del tempo.

Il meteo di certe strade

Ti sarà capitato di tornare in certe strade e scoprire con sorpresa che l’orologio del paesaggio è rimasto fermo sulle stesse lancette. Persino il meteo è lo stesso di quando ci sei passato per la prima volta, in questa strana casualità della vita in cui la vera stranezza è ciò che torna uguale a se stesso, incredibile arbitrario dono dell’imprevisto.

Era da anni che non tornavo in questa via, eppure tant’è ci ricapito perché invitata da amici che non sapevo abitassero proprio qui. Arrivo di notte e nonostante il buio le mie cellule si risvegliano aprendo la pagina giusta di una mappa mai dimenticata, ben chiusa in un cassetto della memoria, nemmeno stropicciata dal tempo perché in fondo usata pochissimo, solo per un frammento piccolissimo di vita.

Ci sono momenti che sono passati come un lampo nella nostra vita, così brevi che non dovrebbe restarne traccia. Invece certi istanti non passano mai: di loro resta il sapore dell’assenza, di tutto ciò che avrebbe potuto e non sarà. Come quando sei in ospedale e io guardando i corrimani o i quadri alle pareti mi chiedo quante preghiere silenziose, quante speranze e disperazione hanno ascoltato: le dita appoggiate sul davanzale nel momento in cui la vita può cambiare, il bivio di quando niente sarà più lo stesso. Poi te ne scordi, ma solo apparentemente: la mente registra la mappa scritta attraverso il tatto da quelle mani aggrappate al momento. Un filo tesse la nostra presenza nella vita attraverso le assenze di ciò che non è, ciò che non sarà mai o non è più: ciò che si è perso, ciò che è scivolato via nella nebbia sottile e nella pioggia, come quella di stamattina, dove mi svegliano le nuvole troppo bianche di una via ben nota.

Ecco, il meteo di questa strada anche quando l’ho conosciuta anni fa era fatto dal bianco opaco di nuvole strisciate e folte come un piumone sul cielo. Oggi, con un cane al guinzaglio che prima non avevo, guardo le villette una di fianco all’altra, il cemento delle architetture semplici e i bordi colorati; le scale che si arrampicano quasi chiocciola su per i palazzi di pochi piani, dove nessuno si conosce bene ma tutti in fondo si sono già visti. I cespugli di rosmarino e salvia piantati all’angolo della via, ci passo una mano e si diffonde la scia nella pioggia sottile che inizia a inzuppare la manica.

Un tempo è stata un’ombra alla finestra, questa via, e sigarette nella notte. Il volto di una donna inquieta che oggi è lontana: la vita ha vinto su di lei. Ma forse no, chi può dire quali siano i piani in serbo per ognuno di noi, che cosa sia vincere e cosa perdere. Passando qui, senza volere, entro di nuovo in quella storia e la mia presenza tesse i fili della memoria.

In ogni spazio che attraversiamo lasciamo tracce del nostro passaggio, che qualcuno ritroverà come pietre erose dal tempo.

Perdersi d’inverno in Toscana

Però a pensarci adesso, la bellezza magica del paesaggio della Toscana che affiora nell’aria limpida e asciutta, il sapore del vino bevuto in piedi per riscaldarci in quel locale in cui siamo entrati mille volte per il freddo, il rumore dei tacchi che risuonano sui pavimenti di pietra ghiacciati, i fiocchi di neve che volteggiano e il vapore che si solleva dalle terme e l’odore dello zolfo, il calore di una vecchia tisana corroborante bevuta non so quante volte, quella sensazione di aria morbida e sensuale tipica degli inverni in Europa… tutto questo mi provoca una morsa al petto di bellezza e nostalgia.

Banana Yoshimoto, Un viaggio chiamato vita. Feltrinelli, 2010, pagina 21