Cronache dalla Zona Rossa

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Credits © Chiara Stoppa – venerdì 13 marzo 2020

All’inizio il telegiornale e poi gli avvisi alla radio; all’inizio la forza di sentirsi più forti e intoccabili. Poi la lontananza che si accorcia, il tempo che si allunga e diventa senza data né età, tempo liquido e abbondante che cola ovunque.
Tempo di cui all’improvviso non si sa che farsene, disabituati alla sua presenza e alla solitudine.
Il mondo che si ferma. La primavera dietro la porta di casa, chiusa.
La vita in sospeso questa vita in quarentena.

Il bollettino medico quotidiano della Protezione Civile, quelli che scappano e la scenografia da pessimo film di fantascienza come le pellicole di cui ci siamo infarciti la mente dagli anni Ottanta, per ben più di un attimo sembra che la nostra fantasia davvero sia riuscita a trasformare l’immaginario in cruda realtà. Quelli giovani che pensavano di essere intoccabili, gli infermieri come in trincea, le terapie intensive e le tute integrali che avevamo visto solo nei film. La costruzione degli ospedali da campo che non credevamo possibile, qui in Italia, dove fino all’altro giorno la conversazione era sul lavoro precario e che cosa fai domenica prossima, organizziamo una cena.

Morti: a Bergamo altre 70 bare sui convogli militari, è la mattina del primo giorno di primavera, sabato 21 marzo 2020. In Lombardia il picco del contagio, seguita da Emilia Romagna e Veneto. Superati i mille morti in Spagna; anche la Gran Bretagna, che fino a pochi giorni fa andava ai concerti, si rassegna a chiudere pub e scuole. I Coronavirus sono stati identificati negli anni Sessanta: possono essere causa di un banale raffreddore come di importanti infezioni del tratto respiratorio e finora sette hanno dimostrato di essere in grado di infettare l’essere umano, ma nCoV rappresenta un nuovo ceppo segnalato per la prima volta in Cina, a Wuhan, nel dicembre 2019.

Esiste da oltre tremila anni Wuhan: costruita nel punto in cui l’Han confluisce nel fiume Azzurro e quasi distrutta nel 1944 da un raid della Quattordicesima Forza Aerea degli Stati Uniti d’America, si estende nella provincia di Hubei, un nome che significa “a nord del lago”. Il lago in questione è quello di Dongting. Un territorio dominato dall’acqua dove si trova l’impianto energetico più potente al mondo, la diga delle Tre gole. Dopo la diga idroelettrica di Itaipú sul fiume Paraná, al confine tra Paraguay e Brasile, quella costruita sul Fiume Azzurro è la seconda più grande al mondo. Qui dal 2015 è in funzione il più grande ascensore al mondo per navi al mondo, con cui è possibile risalire il fiume senza circumnavigare la diga. Grazie alla produzione di energia elettrica la diga delle Tre gole avrà l’effetto di risparmiare sul carburante derivante da combustibili fossili. Per raggiungere questo scopo si stima che negli anni dal 2008 al 2023 saranno complessivamente trasferite in altre località cinesi circa 1,4 milioni di abitanti. Sono stati sommersi dall’acqua 13 città, 140 paesi, 1352 villaggi, oltre 1300 siti archeologici.

Da tre giorni non ci sono nuovi contagiati a Wuhan. Nel frattempo raddoppiano i contagiati negli Stati Uniti e a Milano una sirena suona dopo l’altra. Si abbassano in silenzio le saracinesche a Londra, compreso Harrods, che nei suoi 170 anni di storia aveva continuato a servire l’affezionata clientela anche durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Appare deserta la Spianata delle Moschee di Gerusalemme: all’improvviso svuotate le strade del mondo. E se questo è il coprifuoco ci si chiede cosa dovesse essere davvero, in altri tempi, in altri luoghi, rinchiusi nella propria casa, per mesi, senza cibo o quasi, essere prigionieri di una vita che rantola. È un solo un amaro assaggio di paura, ma è buio che sa di paura, incertezza, stupore all’improvviso.

È attesa.

E poi il lavoro che all’improvviso si ricorda, dove possibile, dell’uso di una tecnologia più intelligente e smart. La scuola da casa perché l’istruzione può essere anche a distanza. Consumare meno, fermarsi di più. E poi fermarsi e basta, tutti. Tutti a casa. E allora un’emergenza diventa possibilità per una rete più consapevole, tra le persone e nel web: usare strumenti ignorati fino a un attimo fa, vincere il dubbio e provare a buttarsi. Inseguire la curiosità, iniziare a fare e provare a fare senza, senza perfezione né perfezionismi.

Condividere, c’è voglia di condividere. Anche ai più solitari finisce che verrebbe voglia di un abbraccio; proprio a loro, allergici ai contatti, manca il saluto della persona che vedevi sempre e neanche ci facevi caso, le due chiacchiere in quel bar che è un po’ anche casa tua, la partita a carte con gli amici di quarant’anni fa. Questa società additata di solipsismo e solitudine si scopre con la fame del contatto di pelle che per anni ci ha fatto sobbalzare e indietreggiare. Da una parte all’altra nascono piccoli gesti che fanno la differenza, per sorridere anche da lontano. Si apre la finestra e si canta, si fa musica, ci si saluta dai balconi, anche alla vicina con cui non si parlava da anni – buon giorno, come va oggi – online fioriscono corsi di yoga, matematica e meditazione; lezioni gratuite offerte, scambiate, riscoperte, tanto il tempo non manca e allora perché non provare. Si chiacchiera, ci si telefona e anche online si è più attenti alle buone notizie, quelle che non usano il lamento ma alimentano la passione.

C’è bisogno di qualcosa? È la domanda che rimbalza da un cortile all’altro, lungo il filo del telefono e attraverso i muri. La necessità ci riscopre umani. Mai come adesso sento pronunciare una parola che ritorna: consapevolezza. Si inizia a pronunciarla, prima con timidezza poi con decisione. Nei momenti difficili si scopre un nuovo modo di rispondere alle questioni della vita, è il nocciolo del concetto di resilienza. Da sempre, l’evoluzione si fa strada attraverso il buio della difficoltà, come una radice nata da un seme che cerca la luce.

Ora che il caos si è fatto silenzio, si sentono finalmente le voci. Niente clacson, né strombazzamenti impazziti all’incrocio, niente gite, né bus, né folla come sardine tutti stretti stretti in metro all’ora di punta. Strade deserte. Sulla pelle delle città il disegno di una nuova anatomia e nel vuoto sterminato l’annuncio lugubre del – restate a casa -.
Il cielo è limpido e le stelle risplendono, anche in Cina. I livelli di smog non sono mai stati così bassi, i decibel si abbassano e il silenzio cresce. Negli ospedali si muore e si continua a nascere. Fra le corsie deserte neogenitori emozionati e l’urlo dei neonati, coraggiosi e bellissimi, capitati in questo momento storico bizzarro, con i corsi preparto tutti annullati, niente teorie né le normali procedure mediche, la vita esposta in tutta la sua vulnerabilità, potente, incontrollabile, caotica come un fiume in piena, mare in tempesta, oceano immenso nella sua pace al di là del singolo.

Mai come adesso che non si può, abbiamo voglia di fare sport, di aria aperta e picnic, di organizzare gite e dei pranzi in famiglia, di andare al lavoro nel solito treno dei pendolari con troppe persone rispetto al numero dei posti. E poi il caffè orrendo delle macchinette, le corse al nido e a scuola che sbrigati a finire il caffellate anche stamattina è già tardi. Tornati a quella solita normalità che ora guardiamo un passo indietro quanto tempo passerà prima di iniziare lamentarsi di nuovo?

Per ora granelli di sabbia nell’ingranaggio. L’orologio è lì sull’ingresso. Non serve più controllare, stare attenti al minuto. Il tempo è immobile: per qualcuno una scoperta, per altri una tacca sul muro nel carcere della giornata. C’è chi ritrova la fantasia e quelli a cui prudono le mani. Il divano con il tappeto scovato in quel mercatino, la stampa presa in viaggio: forse per la prima volta troviamo tempo per sederci. Lo sgabuzzino sgombrato, dopo anni aperti gli ultimi cartoni del trasloco e nel frattempo abbiamo già divorziato. Abbiamo abitato la casa solo nelle manciate di minuti ritagliate dal lavoro e appena c’è un week end via, fuga nell’altrove, ora ce ne rendiamo conto. Abitare casa è una cosa nuova.

Ora abbiamo tempo, non sembra vero. È bellissimo, è terribile.
Tutto il mondo vive una sospensione e come nelle più ardite meditazioni, ognuno nella propria cella, c’è chi rischia di impazzire e chi dentro di sé, nella forzata immaginazione, (ri)trova creatività, senso del gioco, silenzio dell’anima.
Quello che viene meno ci fa ricordare ciò di cui abbiamo più bisogno. La disconnessione attiva la connessione, la lontananza porta vicinanza. Le brutte notizie portano la ricerca delle buone e di entusiasmo nuovo. Il contrasto fa riemergere, prepotente, il senso originario.

Nel frattempo nel mondo, là fuori, combatte chi vive in corsia, chi ogni giorno lavora dietro una cassa, chi consegna pacchi e medicinali, chi si veste con guanti e tuta per curare, aiutare, stare vicino, compiere il proprio dovere, fare la propria parte. Astronauti in missione sul pianeta Terra esplorano il territorio più difficile: il corpo dell’umanità.

Ci rendiamo conto delle piccole cose che fanno la qualità della vita e della salute. Camminare, fosse anche per andare a buttare la spazzatura o a piedi al supermercato. È da anni che lo raccontano gli esperti: vita attiva, il potere degli abbracci, un sorriso a chi incontri, il buon cibo preparato in casa. Mai come adesso l’abbiamo capito, quante storie.
Non c’è cosa migliore come sperimentare la privazione sulla pelle, è quello che ci hanno sempre ripetuto i nonni che all’epoca avevano provato la guerra, è quello che racconta chi ha vissuto grandi fatti. Non c’è come provare sulla pelle per capire: la consapevolezza si scrive con l’esperienza.

Ne usciremo migliori? Trasformati, più consapevoli, capaci di ricordare tutto quello che stiamo capendo? Forse. Per ora impariamo la grandezza della vita e il potere della morte, l’ansia palpabile quando si moltiplica in mille sguardi e la condivisione capace di far sentire più umani, più vicini, più uniti. Scopriamo internet in modo nuovo, persino sui social. Sperimentiamo nuovi stili di vita e di lavoro, più digitale per tanti, e che una nuova scuola è possibile: bisogna iniziare a pensarla, costruirla pagina dopo pagina, perché queste scoperte possono diventare una risorsa per tutti. Quando sarà passata l’emergenza bisognerà ricordare di non dimenticare. Un nuovo modo di intendere il lavoro e l’esistenza è possibile, è un virus del sistema che ci sta costringe a riprogrammare i nostri mondi, e i nostri bisogni. Dal cuore alla mente.

Camminando sul filo della distanza e di questa solitudine obbligata recuperiamo il filo perso nella fretta e forse troviamo nuove risposte a vecchie domande. O sprofondiamo nella paura, nello sconcerto e nel pessimismo (tutti fattori che, tra l’altro, fanno crollare salute psichica e difese immunitarie, spiega la medicina), oppure possiamo imparare a dare di nuovo valore alle cose, alla nostra forza e alla vita. È un esercizio quotidiano, è una nostra scelta. Lo stiamo imparando sulla pelle. Il viaggio dell’umanità ha attraversato smisurati territori di ombra, paura, incertezza per arrivare a nuovi paesaggi, è così che funziona crescere. Si cresce attraversando l’ignoto.

Facciamo di nuovo funzionare la creatività, (ri)scopriamo che viaggiare è immaginare. Probabilmente non avremo mai più case così pulite e se tutto va bene inizieremo una nuova stagione della vita assaporando in modo diverso il gusto del tempo. Un tramonto estivo, il gelato che sgocciola sulla maglia pulita, il solletico dell’erba sotto la schiena, la sabbia e il vento in faccia, gli amici e le piccole cose; le riunioni di famiglia, il bello dell’aria pungente sulla faccia quando il naso diventa rosso, le mani screpolate e i guanti di lana, gli scaffali della biblioteca dove perdersi e il cappuccino al bar, la briscola e la carta ruvida del giornale da sfogliare la domenica mattina al sole, le rondini che tornano, il cinema, le zingarate, il profumo di pane all’alba dalla saracinesche dei forni, le fughe del venerdì sera dopo la settimana di lavoro, il treno troppo pieno. Nuovi orizzonti in tasca come nuove mappe pronte da disegnare.
E guai chi si lamenterà per la spazzatura da portare fuori.

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Dipinto di Max Ernst, citazione di Jan Fabre (1978)

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Potremmo chiamarlo il Virus del Contrappasso.
Potenza invisibile nell’era della visibilità.
Minaccia il respiro ma migliora la qualità dell’aria.
Costringe a casa le famiglie ma riconsegna ai genitori il ruolo di educatori.
Relativizza l’intelligenza artificiale vendicando il mondo animale più selvatico.
Ridicolizza l’opinione del popolo valorizzando la competenza degli esperti.
Penalizza il contatto fisico dimostrandone l’insostituibilità.
Elimina gli eccessi dando forza all’essenziale.
Favorisce lo smartworking chiarendone i limiti di intelligenza.
Elimina gli alibi maschili parificando i ruoli domestici.
Isola le persone indicando il bisogno di reciprocità.
Disarma la discriminazione selettiva alimentando la coscienza sistemica.
Non credo al castigo biblico ma Dante era un genio
Francesco Morace
sociologo italiano, presidente dell’istituto di ricerca Future concept lab e ideatore del Festival della crescita

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Street art – Opera di Nello Petrucci a Pompei

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Domanda sul #coronavirus. Fatemi sapere 😘🖤❤

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Favole al telefono, che prende ispirazione dal celebre libro di Gianni Rodari, è un’azione del progetto di educazione alla lettura LeggiAMO 0-18 del Friuli Venezia Giulia #LeggiAMO018 #FavoleAlTelefono #ioleggoacasa #LeggiAMOacasa
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Fiorista, Bari centro, via Putignani

 

Daniele Bettuzzi “Den” è un autore e chitarrista di Palagano, piccolo paese sull’appennino modenese. Qui la sua pagina Facebook  insieme al video Pure, realizzato nel 2019, per mettere una spolverata di buon umore all’anima.

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The Fantarlettis, la pagina creata da Mattia, Educatore Musicale, e Virginia, Educatrice di Nido bilingue per raccontare l’avventura di crescere insieme alla loro figlia Dalia, ci invita a guardare in alto verso il cielo. Dal terrazzo, dalla finestra. da ovunque, lui è sempre lì.

 

 

Qualcuno che la sa lunga
mi spieghi questo mistero:
il cielo è di tutti gli occhi
di ogni occhio è il cielo intero.

È mio, quando lo guardo.
È del vecchio, del bambino,
del re, dell’ortolano,
del poeta, dello spazzino.

Non c’è povero tanto povero
che non ne sia il padrone.
Il coniglio spaurito
ne ha quanto il leone.

Il cielo è di tutti gli occhi,
ed ogni occhio, se vuole,
si prende la luna intera,
le stelle comete, il sole.

Ogni occhio si prende ogni cosa
e non manca mai niente:
chi guarda il cielo per ultimo
non lo trova meno splendente.

Spiegatemi voi dunque,
in prosa od in versetti,
perché il cielo è uno solo
e la terra è tutta a pezzetti.
Gianni Rodari

 

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#pensierinodellanotte Ricordo che ho sempre avuto la passione per il tennis . Anni fa avrei potuto giocare ed imparare ma rimandavo sempre la cosa . Poi nel 2011 cambia improvvisamente la mia vita . Ironia della sorte per un virus , che innesca una patologia chiamata Guillain Barrè , che in questo caso paralizza le parti motorie e nel caso peggiore anche l’apparato respiratorio. Ho dovuto re-imparare a camminare , a mangiare , a prendere in mano una forchetta , alzarmi da una sedia , salire le scale , scendere le scale . Gesti che per tutti possono essere normali . Io ne sono uscito ovviamente , sono tornato a vivere la mia vita , ma con qualche acciacco in più . Quindi ora il tennis lo posso solamente guardare , ma avrei una voglia matta di giocare , ma non posso. La vita ti mette sempre di fronte a delle scelte e delle opportunità . Siamo noi che dobbiamo essere bravi a coglierle. La famosa frase “carpe diem. Cogliere l’attimo , ma essere in grado anche di assaporarlo e di renderlo unico . Oggi viviamo certamente in una situazione di privazione forzata , della nostra libertà , del vivere quotidiano, di gesti che fino a ieri ci sembravano ovvi e scontati ma che domani ,credetemi , saranno e risulteranno esclusivamente come grandi conquiste ! Notte ❤️ #celafaremo

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Domenica d’infanzia

La colazione lenta mentre il sole invade la stanza e tu sai che è già mattina avviata, lo senti dalla luce nell’aria e dalla calma solare,
caffellate in cucina mentre mia madre smette per un attimo i suoi compiti domenicali, appoggia lo straccio e si siede davanti a me, con il gomito piegato e la mano sotto al mento.
Che cos’hai sognato?
La tuta da casa e gli alberi del vicinato che si riempiono di fiori in primavera,
la tentazione della tv davanti al camino di un pomeriggio d’inverno.
i compiti lasciati dal giorno prima, perché il sabato è sacro.

Pranzo dalla nonna paterna, quella bionda con gli occhi azzurri azzurri, rimasta vedova troppo presto. Lei che sa cucire ma non ho mai chiesto di imparare e ora mi chiedo perché.
Le case di ringhiera lombarde e dietro i muri abbandonati, il nuovo che avanza e i tempi passati che continuano a raccontare le loro storie fra le crepe e le vecchie fotografie di gente di cui si è perso il nome. Rubo giornali di cronaca nera, mi inebria il profumo dell’oleandro da cinquant’anni piantato nel vaso di una latta che un tempo serviva a qualcosa.
Ricordo, in quel cortile, i pacchi dei cartoni da aprire e un negozio, quello degli zii dove i miei genitori si sono conosciuti, quando ancora non esistevo e la casa dei nonni era un bar.

Lo sguardo distratto oltre la finestra, mentre il pomeriggio già sfugge dietro l’ombra sul muro.
La musica in radio e quel nascondersi dietro pile di libri, i quaderni con i quadretti che le equazioni chissà perché non tornano mai e ancora oggi rimangono un mistero che ritorna negli incubi.
Sfogliare un libro solo per inseguire una storia e vedere come va a finire, anche se la lezione da imparare è un’altra.
L’ondata crescente di panico quando le ore si sgretolano,
sbriciolate fra le lancette
e ormai non rimane che polvere di tempo.

Il mio momento preferito,
l’ora del tramonto.
Il sapore della fine e del silenzio che avvolge tutto,
la porta chiusa e il bagno pieno di vapore.
Umidità che cola lungo le piastrelle e l’acqua che porta via
ogni pensiero.
All’improvviso, solo per un attimo
non c’è più nessuno,
più niente da fare. Essere, semplicemente.

E poi il buio che cala sul sipario della domenica agli sgoccioli,
mio padre che ogni volta scende così in fretta i gradini che l’intera casa sembra tremare,
la porta che sbatte, il tintinnio delle chiavi.
Lo scricchiolio delle ruote sulla ghiaia,
le strade grige e gialle inondate dalla luce dei lampioni.
Mi perdo dentro a ogni finestra dove dentro si agita una vita che non conosco.

E poi le riunioni familiari,
il profumo di patate arrosto e rosmarino.
La cena, ogni domenica sera dai nonni materni.
D’inverno la mano che mescola il risotto ai funghi e brontola per i soliti in ritardo.
La finestrella della cucina aperta per far uscire il vapore,
la stessa che alle elementari spiavo ogni giorno, di ritorno da scuola,
mentre lei mi agitava la mano spiando il mio arrivo.

Estate, il giardino e il tavolo di metallo bianco con gli svolazzi,
l’amaca che una volta ci capoltammo cadendo tutti per terra.
Il prato e quel sapore inconfondibile di bella stagione che ritorna,
lo senti nel sangue, non mente, è già lì
a un passo.
E poi le sere d’inverno,
la pioggia che scroscia.
Ancora un attimo, il tempo di finire il film
l’angoscia come una palla dentro lo stomaco
Saluti affrettati all’improvviso già passati.
Domani è lunedì
la luna, la notte
le ruote, l’asfalto bagnato.
Il cancello quando si doveva ancora scendere sotto la pioggia.
E in fondo, a me che restavo lì, su quei sedili freddi
piaceva quell’istante, il lampione che illumina le pozzanghere arancioni e gli scrosci obliqui d’acqua, mio papà che si copre la testa con la giacca.
Si potesse gelare ora il tempo,
in questa fotografia per un attimo che duri non so quanto, almeno un po’.
Ancora un secondo

fermo immagine.

9 novembre 1989: la caduta del muro di Berlino

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Per anni ha diviso Berlino in due: eretto in una notte il 13 agosto del 1961, con il muro ci sono state Berlino Ovest e Berlino Est, una di fronte all’altra; due volti che si guardano, vicini e separati da una distanza inesorabile. Il muro di Berlino è stato abbattuto il 9 novembre 1989, quando il governo tedesco-orientale dichiara la riapertura delle frontiere con la repubblica federale.

Inizialmente l’intento del governo è di mantenere confidenziale la decisione di riaprire i confini di modo che le procedure dei permessi possano essere organizzate gradualmente nei giorni successivi. È grazie a un giornalista italiano se la notizia si diffonde a macchia d’olio, improvvisa e totale come una fiamma accesa nella notte.

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10 maggio 1933: il rogo dei libri di Berlino

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I roghi di libri, Bücherverbrennungen, sono stati decisi in Germania nel 1933 dal governo nazista. Tutti i libri non in linea con l’ideologia nazista vennero bruciati: gettati dalle finestre, accumulati per strada, trasformati in falò.


Dort wo man Bücher verbrennt, verbrennt man auch am Ende Menschen

Dove arde il libro, in fin si abbrucia l’uomo.
Heinrich Heine, poeta tedesco

“Là dove si bruciano libri, si finirà per bruciare uomini”. Nato tre anni prima che il Settecento finisse, il poeta tedesco Heinrich Heine, di origine ebrea, morirà a Parigi il 17 febbraio 1856: le sue parole sinistramente profetiche anticipano la visione che nel giro di trent’anni diventerà lugubre realtà, nella sua Germania. Nella città di Düsseldorf, dove Christian Johann Heinrich Heine era nato, il principale rogo di libri avviene l’11 aprile 1933. Uno dei primi fu a Dresda, 8 marzo, poi a seguire Braunschweig, Würzburg, Heidelberg e Kaiserslautern, Münster, Lipsia e Wuppertal il primo aprile, Schleswig il 23, Monaco di Baviera il 6 maggio, Rosenheim e Coburgo il 7. Insieme ad altri, uno fra i più tristemente noti è il rogo di libri di Berlino, avvenuto il 10 maggio 1933. Il rogo più grande.

Saranno 25mila i libri dati alle fiamme nella celebre Opernplatz, la grande Piazza dell’Opera nel quartiere Mitte di Berlino, nel 1947 rinominata Bebelplatz. Oggi, proprio in questo luogo c’è una targa con le parole del poeta Heine. Sì, dove si bruciano libri si finirà per bruciare uomini, oggi sappiamo che è così. Sotto un pannello luminoso, l’occhio vede oltre la superficie della strada: dentro, una stanza piena di scaffali vuoti, opera di Micha Ullman.

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Il 10 maggio 1933 gli studenti bruciano oltre 25.000 volumi, considerati da distruggere a causa dello spirito non tedesco: intorno al terribile falò che illumina questa notte di tarda primavera circa 40.000 persone, riunite qui all’interno dell’Opernplatz per il discorso di Joseph Goebbels. Inizia così la censura di Stato, organizzata dall’ufficio della Stampa e della Propaganda, promossa dall’Associazione studentesca della Germania, condivisa da tutti quelli che staranno lì, a guardare.

Coltivare una mente libera non è mai facile

berlino-rogo-libri
Rogo dei libri in Opernplatz a Berlino

La lista degli autori e dei libri proibiti

La lista degli autori, i cui libri vennero bruciati nei roghi organizzati dal governo nazista, è lunga. È una lista lunga e trovo sia importante annotare ogni nome, uno dopo l’altro. Lo spazio che vediamo nell’opera di Micha Ullman in Opernplatz ci ricorda che il vuoto lasciato dall’assenza è un un territorio vivo, che possiamo decidere di abitare.
Ogni volta che leggiamo un libro, le parole di un autore vivono di nuovo e così la sua visione del mondo, che si intreccia alla nostra vita: le idee cambiano la storia, attraverso il tempo.

Albert Einstein
Alexander Lernet-Holenia
Alfred Döblin
Alfred Kerr
Alfred Polgar
André Gide
Anna Seghers
Arnold Zweig
Arthur Schnitzler
Bertha von Suttner
Bertolt Brecht
Carl Sternheim
Carl von Ossietzky
Charles Darwin
Egon Erwin Kisch
Émile Zola
Erich Kästner
Erich Maria Remarque
Ernest Hemingway
Ernst Bloch
Ernst Erich Noth
Ernst Glaser
Ernst Toller
Erwin Piscator
Eugen Relgis
Felix Salten
Franz Kafka
Franz Werfel
Friedrich Engels
Friedrich Wilhelm Foerster
Georg Kaiser
Georg Lukács
George Grosz
Grete Weiskopf
H. G. Wells
Heinrich Eduard Jacob
Heinrich Heine
Heinrich Mann
Helen Keller
Henri Barbusse
Hermann Hesse
Ilja Ehrenburg
Isaak Babel
Iwan Goll
Jack London
Jakob Wassermann
James Joyce
Jaroslav Hašek
Joachim Ringelnatz
John Dos Passos
Joseph Roth
Karl Kraus
Karl Liebknecht
Karl Marx
Klaus Mann
Kurt Tucholsky
Lev Trockij
Leonhard Frank
Lion Feuchtwanger
Ludwig Marcuse
Ludwig Renn
Ludwig von Mises
Maksim Gor’kij
Marcel Proust
Marieluise Fleißer
Max Brod
Nelly Sachs
Ödön von Horváth
Otto Dix
Robert Musil
Romain Rolland
Rosa Luxemburg
Sigmund Freud
Stefan Zweig
Theodor Lessing
Thomas Mann
Upton Sinclair
Vladimir Lenin
Vladimir Majakovskij
Walter Benjamin
Werner Hegemann

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Anniversario

Quando te lo ricordi all’improvviso e pensi “come ho fatto a dimenticare”.

E poi la giornata che ti sorprende perché non ha nulla di speciale. Il tran tran.

Un caffé nel sole di un inverosimile inverno. La macchina da aggiustare. L’odore di alcol e sapone del pavimento lavato in cucina. Il maglione in disordine. Le facce di quelli a cui vuoi bene.

Un partita a carte e gli urlacci sulle briscole da giocare per ignorare i postumi della cura pesante che circola nel sangue di uno che oggi si è vissuto l’ospedale.

Il vento freddo della sera, il profumo del sugo, le stelle silenziose e presenti.

Nella banalità della normale routine risplende il senso della vera festa, l’esistenza che ci sorprende di stupore: ancora qui, insieme.

15/365

Dentro la fine un nuovo inizio

Il senso amaro della fine, lo stupore che pizzica gli occhi.
Quell’emozione grande che stravolge il respiro e il cuore allora batte più forte.
I grandi dolori, così forti che quasi non li senti (hanno spiegato che è vero, succede anche in caso di forti traumi e chi ha vissuto un incidente me l’ha raccontato in tanti casi: il dolore, quello forte, quello vero, l’ho sentito solo dopo)
La felicità pura, quella che ti fa piangere e poi ridere e poi ancora piangere
Il senso di abbattimento e la stanchezza,
come prima dell’alba, quando sei alzato da una notte lunga, lunghissima e
il giorno arriva all’improvviso
la luce fra i tetti
il silenzio del mattino presto
le saracinesche ancora chiuse e le finestre da cui filtrano le lampadine accese di
chi mette su il caffè
l’odore di pane fresco nell’aria.

La sensazione che sì, è finita.
Un colpo di spugna
Una riga tracciata con la matita rossa e blu
dritta, netta.
Un punto e
a capo.

Proprio quando sei lì e
ti abbandoni
perché non puoi fare altro, perché sei alla fine
la testa si svuota
leggerezza senza limiti
non essere più.
E allora accade, chiudi gli occhi.
Il cuore è un volo invisibile

Dentro la fine il nuovo inizio
sta già accadendo.

Quest’anno ha portato momenti difficili, gioie improvvise, il talento di coltivare una rosa e imparare dalle spine, l’incontro con la morte, il tempo degli addii. Ora arriva il tempo di inventare nuove parole per un ciclo, di nuovo, che inizia

A Capodanno a Benevento si fanno le zeppole: sono simili alle pittule, leccesi, che a Taranto si chiamano pettole e si preparano per santa Cecilia. Acqua e farina, gli ingredienti base di tutti i popoli del mondo, l’olio bollente che c’è da stare attenti. Si rotolano nello zucchero le pettole, invece le zeppole si mangiano così, o con il prosciutto. Da un pizzaiolo di Napoli a Roma una volta ho imparato una cosa simile, angeli o diavoletti, che sarebbero poi l’impasto della pizza fatto a pezzi e fritto, con il pomodoro se sono angioletti o piccante.
Quanti nomi e quanti modi di inventare la farina, l’acqua e l’olio, patrimonio antico dove dentro c’è la storia dell’uomo, lacrime, gioia e fatica, ricerca e bellezza. Quanti nomi e quanti modi per inventare la fine e un nuovo inizio.
E così alla tavola di Capodanno, che non è la fine, come spesso pensiamo, bensì l’inizio, capo-d-anno, succede di trovarsi tutti insieme intorno a una tavola: chi si conosce e chi no, chi è amico e chi lo diventa ora. E fra scambi, assaggi e racconti, si snocciola il filo che tesse la nostra trama da dove siamo arrivati fino a qui. Il nuovo anno lo voglio immaginare un po’ così.

Una tavola apparecchiata nella notte e tutte le risate che la fanno vivere, sguardi che diventano amici, luoghi dove girare una chiave ed entrare nella storia che raccontano. Per perdersi nel viaggio e attraverso lo spazio ritrovare il tempo.

Per ricordarsi che capodanno è il giorno che decidiamo. Capodanno è il nostro compleanno, quando un’annata si chiude come al compimento del primo anno di un bambino, e un’annata si apre. Capodanno è il giorno dopo il grande evento che conosci solo tu.
Il primo giorno di un nuovo ciclo nasce dentro la fine di quello che portiamo nascosto nel cuore.

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