Domenica d’infanzia

La colazione lenta mentre il sole invade la stanza e tu sai che è già mattina avviata, lo senti dalla luce nell’aria e dalla calma solare,
caffellate in cucina mentre mia madre smette per un attimo i suoi compiti domenicali, appoggia lo straccio e si siede davanti a me, con il gomito piegato e la mano sotto al mento.
Che cos’hai sognato?
La tuta da casa e gli alberi del vicinato che si riempiono di fiori in primavera,
la tentazione della tv davanti al camino di un pomeriggio d’inverno.
i compiti lasciati dal giorno prima, perché il sabato è sacro.

Pranzo dalla nonna paterna, quella bionda con gli occhi azzurri azzurri, rimasta vedova troppo presto. Lei che sa cucire ma non ho mai chiesto di imparare e ora mi chiedo perché.
Le case di ringhiera lombarde e dietro i muri abbandonati, il nuovo che avanza e i tempi passati che continuano a raccontare le loro storie fra le crepe e le vecchie fotografie di gente di cui si è perso il nome. Rubo giornali di cronaca nera, mi inebria il profumo dell’oleandro da cinquant’anni piantato nel vaso di una latta che un tempo serviva a qualcosa.
Ricordo, in quel cortile, i pacchi dei cartoni da aprire e un negozio, quello degli zii dove i miei genitori si sono conosciuti, quando ancora non esistevo e la casa dei nonni era un bar.

Lo sguardo distratto oltre la finestra, mentre il pomeriggio già sfugge dietro l’ombra sul muro.
La musica in radio e quel nascondersi dietro pile di libri, i quaderni con i quadretti che le equazioni chissà perché non tornano mai e ancora oggi rimangono un mistero che ritorna negli incubi.
Sfogliare un libro solo per inseguire una storia e vedere come va a finire, anche se la lezione da imparare è un’altra.
L’ondata crescente di panico quando le ore si sgretolano,
sbriciolate fra le lancette
e ormai non rimane che polvere di tempo.

Il mio momento preferito,
l’ora del tramonto.
Il sapore della fine e del silenzio che avvolge tutto,
la porta chiusa e il bagno pieno di vapore.
Umidità che cola lungo le piastrelle e l’acqua che porta via
ogni pensiero.
All’improvviso, solo per un attimo
non c’è più nessuno,
più niente da fare. Essere, semplicemente.

E poi il buio che cala sul sipario della domenica agli sgoccioli,
mio padre che ogni volta scende così in fretta i gradini che l’intera casa sembra tremare,
la porta che sbatte, il tintinnio delle chiavi.
Lo scricchiolio delle ruote sulla ghiaia,
le strade grige e gialle inondate dalla luce dei lampioni.
Mi perdo dentro a ogni finestra dove dentro si agita una vita che non conosco.

E poi le riunioni familiari,
il profumo di patate arrosto e rosmarino.
La cena, ogni domenica sera dai nonni materni.
D’inverno la mano che mescola il risotto ai funghi e brontola per i soliti in ritardo.
La finestrella della cucina aperta per far uscire il vapore,
la stessa che alle elementari spiavo ogni giorno, di ritorno da scuola,
mentre lei mi agitava la mano spiando il mio arrivo.

Estate, il giardino e il tavolo di metallo bianco con gli svolazzi,
l’amaca che una volta ci capoltammo cadendo tutti per terra.
Il prato e quel sapore inconfondibile di bella stagione che ritorna,
lo senti nel sangue, non mente, è già lì
a un passo.
E poi le sere d’inverno,
la pioggia che scroscia.
Ancora un attimo, il tempo di finire il film
l’angoscia come una palla dentro lo stomaco
Saluti affrettati all’improvviso già passati.
Domani è lunedì
la luna, la notte
le ruote, l’asfalto bagnato.
Il cancello quando si doveva ancora scendere sotto la pioggia.
E in fondo, a me che restavo lì, su quei sedili freddi
piaceva quell’istante, il lampione che illumina le pozzanghere arancioni e gli scrosci obliqui d’acqua, mio papà che si copre la testa con la giacca.
Si potesse gelare ora il tempo,
in questa fotografia per un attimo che duri non so quanto, almeno un po’.
Ancora un secondo

fermo immagine.

9 novembre 1989: la caduta del muro di Berlino

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Per anni ha diviso Berlino in due: eretto in una notte il 13 agosto del 1961, con il muro ci sono state Berlino Ovest e Berlino Est, una di fronte all’altra; due volti che si guardano, vicini e separati da una distanza inesorabile. Il muro di Berlino è stato abbattuto il 9 novembre 1989, quando il governo tedesco-orientale dichiara la riapertura delle frontiere con la repubblica federale.

Inizialmente l’intento del governo è di mantenere confidenziale la decisione di riaprire i confini di modo che le procedure dei permessi possano essere organizzate gradualmente nei giorni successivi. È grazie a un giornalista italiano se la notizia si diffonde a macchia d’olio, improvvisa e totale come una fiamma accesa nella notte.

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10 maggio 1933: il rogo dei libri di Berlino

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I roghi di libri, Bücherverbrennungen, sono stati decisi in Germania nel 1933 dal governo nazista. Tutti i libri non in linea con l’ideologia nazista vennero bruciati: gettati dalle finestre, accumulati per strada, trasformati in falò.


Dort wo man Bücher verbrennt, verbrennt man auch am Ende Menschen

Dove arde il libro, in fin si abbrucia l’uomo.
Heinrich Heine, poeta tedesco

“Là dove si bruciano libri, si finirà per bruciare uomini”. Nato tre anni prima che il Settecento finisse, il poeta tedesco Heinrich Heine, di origine ebrea, morirà a Parigi il 17 febbraio 1856: le sue parole sinistramente profetiche anticipano la visione che nel giro di trent’anni diventerà lugubre realtà, nella sua Germania. Nella città di Düsseldorf, dove Christian Johann Heinrich Heine era nato, il principale rogo di libri avviene l’11 aprile 1933. Uno dei primi fu a Dresda, 8 marzo, poi a seguire Braunschweig, Würzburg, Heidelberg e Kaiserslautern, Münster, Lipsia e Wuppertal il primo aprile, Schleswig il 23, Monaco di Baviera il 6 maggio, Rosenheim e Coburgo il 7. Insieme ad altri, uno fra i più tristemente noti è il rogo di libri di Berlino, avvenuto il 10 maggio 1933. Il rogo più grande.

Saranno 25mila i libri dati alle fiamme nella celebre Opernplatz, la grande Piazza dell’Opera nel quartiere Mitte di Berlino, nel 1947 rinominata Bebelplatz. Oggi, proprio in questo luogo c’è una targa con le parole del poeta Heine. Sì, dove si bruciano libri si finirà per bruciare uomini, oggi sappiamo che è così. Sotto un pannello luminoso, l’occhio vede oltre la superficie della strada: dentro, una stanza piena di scaffali vuoti, opera di Micha Ullman.

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Il 10 maggio 1933 gli studenti bruciano oltre 25.000 volumi, considerati da distruggere a causa dello spirito non tedesco: intorno al terribile falò che illumina questa notte di tarda primavera circa 40.000 persone, riunite qui all’interno dell’Opernplatz per il discorso di Joseph Goebbels. Inizia così la censura di Stato, organizzata dall’ufficio della Stampa e della Propaganda, promossa dall’Associazione studentesca della Germania, condivisa da tutti quelli che staranno lì, a guardare.

Coltivare una mente libera non è mai facile

berlino-rogo-libri
Rogo dei libri in Opernplatz a Berlino

La lista degli autori e dei libri proibiti

La lista degli autori, i cui libri vennero bruciati nei roghi organizzati dal governo nazista, è lunga. È una lista lunga e trovo sia importante annotare ogni nome, uno dopo l’altro. Lo spazio che vediamo nell’opera di Micha Ullman in Opernplatz ci ricorda che il vuoto lasciato dall’assenza è un un territorio vivo, che possiamo decidere di abitare.
Ogni volta che leggiamo un libro, le parole di un autore vivono di nuovo e così la sua visione del mondo, che si intreccia alla nostra vita: le idee cambiano la storia, attraverso il tempo.

Albert Einstein
Alexander Lernet-Holenia
Alfred Döblin
Alfred Kerr
Alfred Polgar
André Gide
Anna Seghers
Arnold Zweig
Arthur Schnitzler
Bertha von Suttner
Bertolt Brecht
Carl Sternheim
Carl von Ossietzky
Charles Darwin
Egon Erwin Kisch
Émile Zola
Erich Kästner
Erich Maria Remarque
Ernest Hemingway
Ernst Bloch
Ernst Erich Noth
Ernst Glaser
Ernst Toller
Erwin Piscator
Eugen Relgis
Felix Salten
Franz Kafka
Franz Werfel
Friedrich Engels
Friedrich Wilhelm Foerster
Georg Kaiser
Georg Lukács
George Grosz
Grete Weiskopf
H. G. Wells
Heinrich Eduard Jacob
Heinrich Heine
Heinrich Mann
Helen Keller
Henri Barbusse
Hermann Hesse
Ilja Ehrenburg
Isaak Babel
Iwan Goll
Jack London
Jakob Wassermann
James Joyce
Jaroslav Hašek
Joachim Ringelnatz
John Dos Passos
Joseph Roth
Karl Kraus
Karl Liebknecht
Karl Marx
Klaus Mann
Kurt Tucholsky
Lev Trockij
Leonhard Frank
Lion Feuchtwanger
Ludwig Marcuse
Ludwig Renn
Ludwig von Mises
Maksim Gor’kij
Marcel Proust
Marieluise Fleißer
Max Brod
Nelly Sachs
Ödön von Horváth
Otto Dix
Robert Musil
Romain Rolland
Rosa Luxemburg
Sigmund Freud
Stefan Zweig
Theodor Lessing
Thomas Mann
Upton Sinclair
Vladimir Lenin
Vladimir Majakovskij
Walter Benjamin
Werner Hegemann

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Anniversario

Quando te lo ricordi all’improvviso e pensi “come ho fatto a dimenticare”.

E poi la giornata che ti sorprende perché non ha nulla di speciale. Il tran tran.

Un caffé nel sole di un inverosimile inverno. La macchina da aggiustare. L’odore di alcol e sapone del pavimento lavato in cucina. Il maglione in disordine. Le facce di quelli a cui vuoi bene.

Un partita a carte e gli urlacci sulle briscole da giocare per ignorare i postumi della cura pesante che circola nel sangue di uno che oggi si è vissuto l’ospedale.

Il vento freddo della sera, il profumo del sugo, le stelle silenziose e presenti.

Nella banalità della normale routine risplende il senso della vera festa, l’esistenza che ci sorprende di stupore: ancora qui, insieme.

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Dentro la fine un nuovo inizio

Il senso amaro della fine, lo stupore che pizzica gli occhi.
Quell’emozione grande che stravolge il respiro e il cuore allora batte più forte.
I grandi dolori, così forti che quasi non li senti (hanno spiegato che è vero, succede anche in caso di forti traumi e chi ha vissuto un incidente me l’ha raccontato in tanti casi: il dolore, quello forte, quello vero, l’ho sentito solo dopo)
La felicità pura, quella che ti fa piangere e poi ridere e poi ancora piangere
Il senso di abbattimento e la stanchezza,
come prima dell’alba, quando sei alzato da una notte lunga, lunghissima e
il giorno arriva all’improvviso
la luce fra i tetti
il silenzio del mattino presto
le saracinesche ancora chiuse e le finestre da cui filtrano le lampadine accese di
chi mette su il caffè
l’odore di pane fresco nell’aria.

La sensazione che sì, è finita.
Un colpo di spugna
Una riga tracciata con la matita rossa e blu
dritta, netta.
Un punto e
a capo.

Proprio quando sei lì e
ti abbandoni
perché non puoi fare altro, perché sei alla fine
la testa si svuota
leggerezza senza limiti
non essere più.
E allora accade, chiudi gli occhi.
Il cuore è un volo invisibile

Dentro la fine il nuovo inizio
sta già accadendo.

Quest’anno ha portato momenti difficili, gioie improvvise, il talento di coltivare una rosa e imparare dalle spine, l’incontro con la morte, il tempo degli addii. Ora arriva il tempo di inventare nuove parole per un ciclo, di nuovo, che inizia

A Capodanno a Benevento si fanno le zeppole: sono simili alle pittule, leccesi, che a Taranto si chiamano pettole e si preparano per santa Cecilia. Acqua e farina, gli ingredienti base di tutti i popoli del mondo, l’olio bollente che c’è da stare attenti. Si rotolano nello zucchero le pettole, invece le zeppole si mangiano così, o con il prosciutto. Da un pizzaiolo di Napoli a Roma una volta ho imparato una cosa simile, angeli o diavoletti, che sarebbero poi l’impasto della pizza fatto a pezzi e fritto, con il pomodoro se sono angioletti o piccante.
Quanti nomi e quanti modi di inventare la farina, l’acqua e l’olio, patrimonio antico dove dentro c’è la storia dell’uomo, lacrime, gioia e fatica, ricerca e bellezza. Quanti nomi e quanti modi per inventare la fine e un nuovo inizio.
E così alla tavola di Capodanno, che non è la fine, come spesso pensiamo, bensì l’inizio, capo-d-anno, succede di trovarsi tutti insieme intorno a una tavola: chi si conosce e chi no, chi è amico e chi lo diventa ora. E fra scambi, assaggi e racconti, si snocciola il filo che tesse la nostra trama da dove siamo arrivati fino a qui. Il nuovo anno lo voglio immaginare un po’ così.

Una tavola apparecchiata nella notte e tutte le risate che la fanno vivere, sguardi che diventano amici, luoghi dove girare una chiave ed entrare nella storia che raccontano. Per perdersi nel viaggio e attraverso lo spazio ritrovare il tempo.

Per ricordarsi che capodanno è il giorno che decidiamo. Capodanno è il nostro compleanno, quando un’annata si chiude come al compimento del primo anno di un bambino, e un’annata si apre. Capodanno è il giorno dopo il grande evento che conosci solo tu.
Il primo giorno di un nuovo ciclo nasce dentro la fine di quello che portiamo nascosto nel cuore.

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