Partenza

Svegliarsi ed è mattina presto, fuori ancora buio
è il tipo di mattina in cui girarsi e rigirarsi ancora, rotolare al caldo fra le coperte.
Alzarsi è già un buon passo. L’acqua fredda sulle guance, il profumo del profumo spruzzato addosso fra i capelli e l’angolo del maglione. Guardarsi intorno, hai preso tutto?
Acchiappare ancora un’ultima cosa. Lo spazzolino da denti infilato nella borsa già piena.
Un giocattolo di pezza, il ciuccio. Un’altra felpa. Un libro

Chiudere la porta di casa

Il tempo della partenza è giornata che si sveglia veloce
e c’è chi dorme poco o apre gli occhi all’alba,
eccitato come da bambini quando si partiva per le vacanze, la macchina carica
i panini per un picnic, il nonno che si infilava i guanti per guidare.
Nonna con le caramelle al miele in borsa, in ogni viaggio

rivedo la strada fatta da chi mi ha preceduto

curva dopo curva, il paesaggio si snoda
il filo di un gomitolo che va lontano

Il momento della partenza è fatto di sveglie all’alba, zaini chiusi in fretta, cose dimenticate e progetti da cacciare in tasca: fotografia di un’istantanea in movimento

Adesso ti guardo

Adesso ti guardo e tu mi guardi,
da solo sul tappeto smetti per un attimo di mordere quel calzino e
il nostro sguardo si trova
rincorrendosi in diagonale nella stanza,
io al computer e tu per terra a esplorare il mondo intorno a te.
Appoggi le piccole mani sulla paglia intrecciata di una sedia, valutando se arrampicarti.
Picchi sul pavimento con decisione una ciambella di plastica.
Sono uno dei giochi che preferisci quelle semplici ciambelle di plastica colorata,
ti ha portato la piramide Daniela con Paolo e il piccolo Pietro e Anita.
Tu giri sempre con una ciambella.

Adesso appoggi la bocca sul pouf, quello di cuoio spesso marrone e blu comprato nel souk di Marrakech insieme alla nonna. Ti ci appoggi e ti sollevi.
Ho lasciato l’aspirapolvere lì in un angolo e tu da ieri sera la maneggi:
muovi il tubo avanti e indietro come hai visto fare a me, un po’ mi sembra ti renda perplesso
questo strano fatto di vederlo lì inerte a terra invece che volante per aria.

Prima dalla cucina ti guardavo con la coda dell’occhio,
mentre facevo il caffè.
Tu eri lì, seduto per terra con l’aspirapolvere rossa
e ti sei voltato e
mi hai guardato anche tu,
poi mi hai lanciato un sorriso da lontano.

Quando sorridi sei un piccolo sole che si accende,
scaldi il cuore e illumini il mondo,
il tuo piccolo mondo che si illumina da dentro,
all’improvviso.

Ci guardavamo, di traverso
una freccia di sguardo dalla cucina alla sala. Pensavo a questo,
a come l’autonomia si conquista a piccoli passi
e quando le persone criticano chi tiene i neonati troppo in braccio
bisognerebbe semplicemente far notare che nell’arco di pochi mesi, appena l’uso dell gambe lo permette
si inizia a esplorare il mondo da soli.
Prima si tiene dritto il collo e ci si guarda intorno,
come facevi tu a tre mesi quando questa estate ti tenevo in braccio passeggiando in giardino e
allungavi il collo qua e là spalancando gli occhi agli alberi. Poi hai imparato che potevi allungare
una mano, è tua
risponde ai comandi. Allora, sfioravi le foglie versi dei rami più bassi e io
per gioco sfioravo con le foglie la punta del tuo naso e la fronte
il tuo sorriso neonato che dicono che i neonati non sorridano ma non è vero.

Adesso sai stare seduto e muoverti, da solo
inizi a esplorare il mondo.
Si cresce un passo dopo l’altro
e intanto ti giri, mi cerchi con lo sguardo
qualcuno mi ha visto ha visto che ho fatto?
Sì, ti ho visto. Sstamattina appoggiavi
una mano sul baule e una sul piccolo armadio dipinto di verde dal nonno,
saggiando su quale appoggiarti ti molleggiavi e saggiavi distanze, rapporti di forze
poi con una mano ti sei tenuto all’angolo di bronzo e l’altra l’hai lasciata
un braccio in equilibrio nell’aria, con coraggio.
Ti sei girato verso di me, io nel letto
pronta a ricevere il tuo sguardo come quando ti svegli e
cerchi uno sguardo in cui ritrovarti
onorata di essere quello sguardo in cui ti ritrovi.

Ti vedo, ti guardo.
Tu batti forte la mano sul tavolo e poi ti metti a ridere.

E all’improvviso piangi, che ti è venuta fame e allora
mi alzo a prenderti in braccio, tu e i tuoi piedini gelidi che è impossibile farti tenere i calzini
ami andare a piedi nudi.
Ci accccoliamo sul divano come gatti, tu prendi il tuo latte e ti addormenti.
Io che passerei tutto il giorno a darti baci nel collo e sfiorarti con una mano i capelli

23 dicembre ’20

Le cose che mi danno pace

Guardare le tegole di quel tetto che vedo da sempre, così da vicino che
la prospettiva è la stessa dei codarossa appoggiati sul filo.
Le gocce di pioggia che rimbalzano sulla grondaia.

Strapparsi via le sopracciglia e a volte osare cambiare quella sagoma che fa un po’ parte di noi,
così com’è
il ricordo di come mia nonna si metteva il rossetto
rosso, ogni mattina
vicino alla finestra con lo specchietto in mano

Le cose che mi danno pace,
le cose che ci danno pace…
Ogni tanto bisogna tornare a chiedersele,
sentirle sulla pelle

Un libro bello e un pomeriggio per leggerlo,
il cielo completamente opaco eppure luminescente,
a modo suo,
in una giornata grigia.
La distesa di nuvole bianche come coltri,
la coperta pesante di quelle che si usavano una volta
peso della trapunta che schiaccia e noi sotto,
fuori l’aria ghiacciata della stanza.

Camminare nella folla,
che non abbiamo bisogno dei centri commerciali per acquistare,
è che dona una strana inspiegabile pace
perdersi nella folla, su e giù
fra le scale e i piani e gli ambienti
uno di quei centri coomerciali grandi, molto grandi
percorrere il vuoto dello spazio, navigarlo
osservare le facce della folla,
fermarsi a prendere un caffè in un posto sconosciuto e
non tornarci mai più.

Il mare d’inverno,
guardare la pioggia dalla finestra.
La tempesta dietro una vetrata, in solitudine.
Piangere sotto la doccia.
Guardare le onde dall’oblò di una nave,
restare immersi nella vasca da bagno finché
l’acqua non diventa tiepida e poi aggiungerne ancora

sentire la vita che ci attraversa,
felicità, dolore anche, a volte. Malinconia

Le luci di Natale,
anche se non è Natale.
Accendere una candela nella notte,
il profumo della torta di mele. La
colazione lenta del sabato mattina,
agitare la mano di rimando a un bambino sconosciuto che saluta
in macchina al semaforo
arrivare davanti alla porta di un palazzo dove abbiamo abitato/blockquote>

Scoperte meravigliose

conoscere-con-la-pelle

I piedi sono venuti dopo, le mani anche.
All’inizio ci sono state le foglie.
Mille respiri che si muovono intorno, sono le foglie dell’acero del giardino scompigliate dal vento.
Quando le guardavi all’inizio della tua vita era estate, colore verde, adesso ti stupisci perché è passato solo un attimo eppure ora le vedi cambiate, stregacomanda colore… giallo! Autunno è arrivato.
A testa in su, dentro una culletta dove ora non stai più, minuti interi hai passato a osservare.
Adesso afferri. Allunghi una mano e accade,
Ah sì, è vero. Me n’ero scordato, si muovono se ci penso davvero, se mi concentro sul serio.
Sono pezzi di me. Mani e piedi, si chiamano.

scoperte-meravigliose

E adesso cos’è questa fantastica cosa che fa rumore?
All’inizio del Novecento, che per te è molto più di un secolo fa, a un portinaio viene in mente di mettere insieme un ventilatore, una scatola e una spazzola. Prima ancora ci aveva provato una coppia di Chicago, collegando un tubo a una pompa agganciata a una carrozza di cavalli.
Il portinaio, che sta in un posto molto lontano al di là del mare e anche dell’oceano, l’Ohio, vende il brevetto a suo cugggino… Il signor Hoover.
Il resto è storia. Il nome di questa invenzione rivoluzionaria per la vita domestica è ASPIRAPOLVERE.
Un giorno ci sono buone probabilità che la odierai. Ma non ti preoccupare, prometto solennemente che eviterò di passarla di domenica mattina

“Che bello, se piove porteremo anche l’ombrello”
Stefano Rosso

ombrello-origine

Si chiama ombrello, ma la pioggia ha incrociato la sua vita solo per caso. Dall’Estremo Oriente, dove era simbolo di nobiltà, all’antico Babilonia si passeggiava con l’ombrello sotto il sole. Immagina compassati dignitari cinesi fra i vicoli di terra, camminare compunti a piccoli passi; intorno la folla dei mercati d’Asia, bambini a piedi nudi che corrono e sbattono contro le gambe, si nascondono fra le ceste intreciate. Chi urla, chi vende pesci vivi e tartarughe per il brodo. E loro, lenti, solenni, passano invisbili protetti dal tenue cono d’ombra del piccolo ombrello dipinto. Era il XII secolo a.C. e sembra il popolo cinese sia stato fra i primi a usare l’ombrello parasole. A trovare il suo uso come parapioggia la Roma imperiale, dove inizia a essere usato per proteggersi dalle intemperie. Poi l’ombrello viene dimenticato; resta lì, trascurato in un angolo come è facile dimenticarsene dopo la pioggia proprio nel punto in cui è finito l’acquazzone.
Passano i secoli, cinquecento anni, ed ecco che poi arriva uno che se ne ricorda. To’ guarda com’è comodo uscire a passeggiare con l’ombrello.

Ascoltare il cuore

Questa sera mi viene in mente un libro che ho letto su come educare un bambino. Il concetto fondamentale era l’imparare a non-fare nulla: addormentarsi da soli è un atto di autonomia, azione e dichiarazione d’indipendenza fra i primi che facciamo nella vita e questa è una cosa bellissima. Nel libro veniva spiegato che ogni gesto diventa un rito della buona notte che poi sarà imprescindibile fare. Una volta abituati si dovrà passeggiare se si passeggia, o non so che altro, ognuno sa del suo. È per questo che la cosa migliore sarebbe accompagnare i piccoli nel posto dove ci si vuole addormentare, mantenere il contatto visivo e di pelle guardandosi negli occhi e tenendosi per mano, poi lentamente lasciare che Morfeo arrivi e faccia il suo corpo. Senza dipendere da nulla.
Che bello, ho pensato quando ho letto quel libro. Insegnare e imparare l’autonomia. Non avere appigli. Non dover camminare ore come quelli che a un bel momento si allontanano per ore

poi c’è questo fatto di cui mi rendo conto, io
sono una passeggiatrice seriale. Capita, di essere passeggiatori seriali.
Di solito sono quelli che amano fare nuovi percorsi, che escono a buttare la spazzatura e finiscono per fare ritorno dopo ore; le città se le viaggiano passo dopo passo, che grammaticalmente non sarà molto corretto ma concettualmente rende benissimo quella che alla fine è filosofia e arte di vita, il camminare.

Ecco, stasera tu combatti contro il sonno che arriva e io di scatto decido di alzarmi e anzi non sono io a deciderlo ma le mie gambe, che da sole lo agiscono e io mi ritrovo già lì, ferma sui piedi che mi sostengono e poi un passo dopo l’altro, con te sul braccio destro, che agiti la testa scoordinato e ti lamenti come un piccolo gatto.
Ecco, me ne rendo conto adesso. È già qualche settimana che tre quattro passi bastano a calmarti. Li abbiamo fatti in un corridoio d’ospedale che si è allungato a dismisura per contenere tutti i passi che servivano, con il nonno hai camminato in giardino durante i pomeriggi e le mattine estive; abbiamo camminato su e giù per le scale, che ti piacciono moltissimo, e in cucina dove a volte basta arrivare dal frigo all’angolo che già sei addormentato.

Adesso lo so. Sarei io a perderci se non lo facessi, questo che forse è già un rituale ed è il più antico atto umano, il primo della vita, uno dei gesti più belli che conosca. Camminare.Da quando cammino con te sperimento l’attesa, perché, insieme, camminiamo le emozioni aspettando il sonno. Un tempo avevano un nome per questo, la chiamavano veglia. Vegliare significa fare qualcosa in attesa di qualcos’altro, prima o poi scopriranno che il cervello in questo modo si libera e rigenera. O forse lo sanno già. Oggi è una parola desueta, ne conosciamo il senso ma la pratichiamo poco, che di tempo per vegliare non ce n’è più e nemmeno serve; l’unica veglia è forse rimasta la notte di Natale.

E allora mi ci perdo, in questi passi. Mi godo il momento. Tu che di solito all’inizio ami stare quasi verticale, appoggiato alla spalla. Appoggio il mio mento sulla tua piccola testa di velluto che ci sta tutta sotto al mio collo, il mio mento la contiene. Mi muovo, le tue palpebre curiose fino a un attimo fa sono socchiuse, a volte le guardo dallo specchio se capita di averne uno vicino.Piano piano, scivoli davanti e rimani lì, con la fronte appoggiata sulla pelle fra la mia clavicola e lo sterno. Ami incastrare la tua faccia sotto la mia, quante notti hai dormito così appena tornato dall’ospedale, il naso dentro la mia gola e il corpo rannicchiato sopra al cuore e ai polmoni, respiro ritmato dal ritmo della vita.
Così, adesso balliamo. Qui in cucina. Cheak to cheak, guancia a guancia, come canta una canzone di Aretha Franklin che quest’estate ascoltavamo sempre appena svegli. Guancia a guancia, la tua piccola mano tiene un an angolo della mia maglietta. Camminare diventa un passo di danza. Insieme, cheak to cheak. 
Crediamo che con i bambini si debbano fare cose per insegnare l’educazione. Poi, a quarant’anni suonati passiamo ore, giorni, settimane ad ascoltare noi stessi e gli altri, single e insonni, lamentarsi di non riuscire a trovare nessuno che scaldi il letto vuoto. Aneliamo un abbraccio, siamo pronti a prostrare la dignità per un bacio e qualcuno che ci regali briciole di coccole. Con i bambini no, attenzione. Mica che poi lo vizi.

E noi danziamo. Quanti balli abbiamo fatto, vecchi lenti dimenticati e canzoni di anni fa, dopo un po’ giriamo la rotella della radio e troviamo nuove stazioni. Non sei stanca? mi chiedono. Sono stata seduta tantissimo nella vita. Se uno fa bene i conti a scuola, incastrato in un banco, ci passa anni, mesi interi se calcoliamo compiti a casa e ripassi. Poi, il lavoro. Qualcuno ha provato a proporre tavolino e scrittura in piedi, ma alla fine l’idea non decolla. A scrivere si sta seduti; chissà, forse il cervello per concentrarsi ha bisogno di mettere radici. Ore, giorni interi a leggere, amo leggere e questo sì, puoi farlo anche in piedi, precaria in metropolitana o davanti alla finestra. 

Adesso appena posso cammino. Si cammina a velocità diverse, è la vita che ci insegna a cambiare ritmo. È un mal di schiena o una vescica, è una cosa bella come una pancia tonda, è uno spazio ristretto o un peso da portare, a volte età o malattia: come vai veloce, mi disse anni fa una signora, io ci metto un’ora per fare questa strada. Non importa. Lei vede dettagli che a me sfuggiranno. È il tempo a insegnarlo, si impara ad andare più lentamente, accorgersi del mondo e di come lo viviamo, respiro dopo respiro.Con te ho imparato a camminare passo a passo. Sto imparando. Me la godo questa lentezza, pochi passi e la stanza diventa un universo intero. Un piede davanti all’altro ed è già un passo di danza. 

Fuori dalla finestra si accendono le luci e intanto si spia l’arrivo di papà che entrerà dal cancelletto. Anche da bambina a quest’ora si aspettava l’arrivo di papà, suono dei pneumatici sulla ghiaia, fanali gialli nella sera invernale già notte. A quest’ora stavo nel mio posto preferito, in cucina dove avevo un cassetto tutto mio. Mi piaceva il quadrato di pavimento creato fra il frigorifero, l’armadio del pane e la porta che dà sulla sala, tenuta chiusa per evitare che il caldo si disperdesse. Mi sdraiavo per terra,la tuta sopra alle piastrelle, e dal cassetto, l’ultimo in basso, tiravo fuori tutti i pennarelli e li spargevo intorno. Avevo sempre album di spessore da riempire di colori.
Cheak to cheak, a passo lento mentre la sera arriva

Cose che si imparano con l’età

A dieci o vent’anni
mica lo capisci
troppa fretta
poco il tempo

cose che si imparano con l’età.

A perdonare, soprattutto se stessi,
che la siesta ha la sua bellezza

l’importanza degli amici, ma quelli veri e
non importa se non ci vediamo mai

trovare il tempo per quello che ami e
per quello che ami

mettere in pratica le spericolatezze subito
quando ti va,
altrimenti poi il coraggio se ne va

prenderti cura dei denti
evitare le tinte con l’ammoniaca
non piangere troppo sugli amori infranti
ricordarsi che la fine di qualcosa porta sempre con sé tristezza,
ma
ogni nuovo inizio
ha bisogno di una fine
per poter cominciare.

Assaggiare tutto,
specialmente se una persona ha cucinato per te.

Impara che a volte si delude
anche chi si ama, ma
non deludere te

sii fedele ai tuoi sogni
continua a chiederti
ciò che per te vale davvero la pena

ricordati che potrebbe cambiare
quello in cui credi,
non avere paura di diventare
una persona diversa

chi sei,
lo sei
adesso