La zingarata

 

 

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Amici di scuola, di caserma… E dunque, amici da tutta la vita.
Eccoli qui, gli amici miei. Cari amici.

Oh, ma che fai? Dove vai?
Ha svoltato a sinistra.
Che c’è a sinistra?
So ‘na sega! Allo zingaro quando gli gira… gli gira.

Ecco, questo è essere zingari.
Questa è la zingarata: una partenza senza meta e senza scopi,
un’evasione senza programmi.
Può durare un giorno, due o una settimana.

Una volta mi ricordo, durò venti giorni.
Salvo complicazioni.

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Gastone Domenico Moschin se n’è andato il 4 settembre 2017: 88 anni a osservare l’Italia dal palcoscenico, prima con la Compagnia del Teatro Stabile di Genova, poi il Piccolo Teatro di Milano e il Teatro Stabile di Torino, dal 1983 con la compagnia da lui fondata. Immagine di un sorriso dolce e amaro quello della commedia, che nei suoi protagonisti incarna sogni, malinconie e desideri di un popolo intero, quello italiano, dagli anni cenciosi e difficili del dopoguerra agli anni Sessanta e Settanta, le spedizioni sulla luna, la Fiat, il trench in gabardine e la cravatta, le osterie aperte fino a tardi, le serate in balera e i cinema dove fumare durante la proiezione. Italia che rinasce o almeno ci prova e per un momento sembra davvero possibile. Italia senza troppo regole, come quasi sempre accade nei Paesi che escono da una guerra e rinascono sulle proprie macerie. Italia che sogna e spera, con un sospiro di malinconia per le cose di una volta che ormai non ci sono già più: portate via dal tempo, cancellate persino le tracce di chi le ha vissuto.

Anche loro vengono da un’altra epoca: Adolfo Celi (Alfeo Sassaroli), Ugo Tognazzi (Raffaello Mascetti), Duilio Del Prete (Guido Necchi), Philippe Noiret (Giorgio Perozzi), Gastone Moschin (Rambaldo Melandri). Il primo ad andarsene è proprio lui, Adolfo Celi. L’ultimo sarà Gastone Moschin, Rambaldo Melandri, “architetto trombato, ma per pochi voti, per l’assessorato ai lavori pubblici del Comune di Firenze”.

Il film, diretto da Mario Monicelli, in realtà era stato pensato da Pietro Germi, che tuttavia non potè realizzare il suo progetto a causa della malattia che lo porterà alla morte nel 1974. Nei titoli di testa prima di “Regia di Mario Monicelli” si ricorda l’autore, “Un film di Pietro Germi”. Sembra che anche il titolo sia un richiamo a questo, il suo addio al cinema: “amici miei, ci vedremo, io me ne vado”, racconta una voce che siano state queste le ultime parole di Pietro Germi. Le indimenticabili musiche composte da Carlo Rustichelli restano incise nella mente, insieme alle avventure, le glorie e le misfatte dei quattro. E chi ha amici di una vita lo sa, non si potrebbe essere più diversi eppure c’è un dettaglio, qualcosa che quando riesce a tramandarsi negli anni diventa una forza trascinante, nota olfattiva come un odore persistente, il profumo dimenticato e sempre lì custodito nel cassetto della memoria.

In una delle sue ultime interviste Gastone Moschin racconta le zingarate, l’anima libera che risiedeva in quel nome e in un’epoca intera.

“Cos’è la zingarata? Un’auto, e noi sopra. Monicelli accendeva la musica e dava il ciak. Improvvisazione, anche. Ma soprattutto è la fine dell’inizio, quando annoiati ci fermiamo alla giostra, sui cavallini, col pensiero che è notte fonda e che dobbiamo tornare alla vita reale. Non azzardo se dico che Amici Miei è stato molto più documentario che film. E le zingarate probabilmente esisterebbero ancora se il tempo non ci avesse cambiato. Oggi apriamo la finestra e l’Italia, il mondo, non ci permettono nessuna zingarata, nessuno spiazzo di allegria. Non è più possibile, come invece avveniva in quel film, abbandonare per una attimo la quotidianità. Gli anni Sessanta e Settanta erano fatti di speranze. Il cinema era un’industria in movimento, si lavorava nelle co-produzioni. Io all’epoca giravo un giorno in Italia, il giorno dopo in Jugoslavia e quell’altro ancora in Francia”
Emiliano Liuzzi, da Il Fatto Quotidiano di lunedì 24 dicembre 2012

Si ritrovavano in piazza. Perché da sempre quello è il posto dell’appuntamento: la piazza, incrocio di vite e di chiacchiere, pensieri inespressi e gomitate, luogo fisico ma non solo, piazza virtuale e metafora sociale.
Loro, gli amici, si ritrovavano in piazza Beccaria davanti al cinema Metropolitan e andavano al bar Necchi. È notizia della primavera 2019 che il lato di piazza Demidoff che parte dal lungarno Serristori e arriva in via dei Renai sarà intitolato al regista Mario Monicelli. Si tratta dello storico punto di incontro celebrato nel film e oggi in questo luogo resta una targa: “Qui davanti al bar Necchi i personaggi del film “Amici miei” di Mario Monicelli vivono sempre nel ricordo dei fiorentini”. Era uscito al cinema il 10 agosto del 1975 e da allora “Amici miei” è un luogo che vive nella memoria. Anche i suoi protagonisti lo sono, fanno fatica a staccarsi dai nomi e già i personaggi è facile immaginare di vederseli camminare qualche asso più avanti, sbilenchi e rumorosi, solitari nella notte, in quella Firenze che rappresenta un po’ tutte le città delle nostra esperienza. Mattine fatte dalla routine del quotidiano e svegliate dal rumore delle saracinesche che si alzano, vecchi che scrutano dalle persiane aperte, portoni e strade conosciute dalla memoria tenace dei nostri passi, giorno dopo giorno; le periferie e i rettilinei che ci portano lontano, verso un bivio sconosciuto, e poi perdersi dopo una curva e ancora avanti, dimenticando per un attimo tutto e tutti, tranne l’incredibile attimo presente.

Nel frattempo diventato Astra 2, il cinema Metropolitan di Firenze non esiste più. Ha chiuso i battenti in un freddo mercoledì di gennaio, nel 2015, diventato, suo malgrado, anche lui segno dei tempi inesorabilmente cambiati. Simbolo di un amarcord amaro: in soli due anni, dal 2012, il pubblico era diminuito del 50 per cento. Oggi abbiamo la tivvù a pagamento, perché uscire di casa? Forse quello che manca, invece, è la consapevolezza della magia. Il grande schermo, lo spettacolo della proiezione e la sala buia con la sua visione collettiva e partecipata, i bisbiglii, il fruscio delle carte di caramelle, la commozione sottovoce dei vicini, ognuno sprofondato nella sua poltrona di velluto, ognuno nel buio liberante delle proprie emozioni, mentre si asciuga in fretta una lacrima sfuggente e dopo un paio d’ore, lì sulla porta mentre ce ne andiamo via, sembra quasi di essere amici, ci si riconosce nello sguardo dell’altro. Ecco questa magia che è fatta di condivisione è qualcosa di speciale, qualcosa che si trovava nelle balere e nei cinema, nei posti dove sopravvive l’umano e allora può essere che lo troveremo anche altrove, se solo ci mettiamo a cercarlo.

Il bello della “zingarata” è proprio questo: la libertà, l’estro, il desiderio. Come l’amore: nasce quando nasce e quando non c’è più è inutile insistere, non c’è più.
Giorgio Perozzi – Philippe Noiret

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