Natale è una festa antichissima, è il momento dell’anno in cui la luce cala per poi magicamente iniziare a ritornare. Con nostro figlio, che ora ha due anni e mezzo, leggiamo storie di gnomi, elfi, fate e boschi a cui appartengono renne e cervi, che in questo momento sono più del solito 🙂 Babbo Natale, che in altri paesi del mondo era Nonno Gelo o Inverno, prima lo vedeva come uno gnomo. Rimane sempre un po’ perplesso quando la gente gli chiede se ha scritto la letterina: ora è piccolo comunque no, non la faremo. Non mi piace pensare che Natale sia una lista di regali, non mi piace l’idea di raccontare di una cassetta delle lettere chissà dove e a dire il vero già da piccola mi puzzava questa storia di questi Babbi Natale così numerosi e posticci che si vedono in giro. Al momento non scarteremo nemmeno i pacchetti perché non c’è un giorno unico di festa: ci sono regali quando ci va, ci sono giorni in cui stare molto insieme e andare a trovare quelli a cui vuoi bene. Ci sono lunghe serate a giocare e le candeline, quelle del compleanno, messe anche sul panettone perché ci divertiamo a cantare tanti auguri e spegnerle tutte anche in giorni imprevedibili. Abbiamo fatto l’albero e sotto una città di cartone con animaletti della fattoria e della jungla, treni e macchinine. Ci godiamo le lucine, di solito ne teniamo un filo tutto l’anno. E a proposito, a pochi giorni dal Natale e da Santa Lucia, ricorrenza molto sentita nel Nord ed Est Europa, intanto questa settimana si festeggia anche Hannukkah, la festa ebraica delle luci, quando si accende una candela ogni giorno in più, per otto giorni. E forse proprio questa simmetria ci ricorda che in fondo alle radici di questo periodo di festa c’è lei, la luce. Celebriamo la luce. Il seme messo nella terra arata in autunno che deve attraversare il buio per nascere una nuova primavera.
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La festa di Hannukkah
Mentre si festeggia l’attesa del Natale, quasi negli stessi giorni, si celebra come ogni anno Hannukkah, o Chanukkah. Al tramonto di ogni sera si aggiunge una luce, una candela all’arrivo della notte, per otto giorni. Una settimana più un giorno.
Gerusalemme: la Giudea è occupata dall’esercito di Antioco IV, re di Siria, che a Babilonia e in Antiochia inizia a costruire templi e ginnasi come nelle città greche. Questo re di notte amava vagabondare da solo, o con qualche amico, per i vicoli della città, si fermava a parlare con la gente, nascondendo la sua identità sotto la maschera di un abito qualunque. Amava gli scherzi e le feste. Tu pensa che sorpresa quando da una tasca spuntava una collana di preziosi o una moneta brillare nell’oscurità: l’oro finiva nella casa di uno del popolo, incontrato per caso quando la luna dissimula la persona che appare al giorno e scopre chi siamo, dentro. Dopo l’assedio e il ritiro da Alessandria d’Egitto, Antioco si ferma a Gerusalemme: la città è saccheggiata e molti degli abitanti uccisi, la religione ebraica proibita: il tempio che guarda dall’alto tutta la distesa dell’abitato, stretto fra le antiche mura, sarà dedicato al dio straniero Giove.
Ma un pugno di uomini, guidati da Mattatia, si dà alla macchia e organizza la resistenza. Quando Mattatia muore il comando passa a Giuda Maccabeo, un condottiero discendente di un’antica famiglia. Nel libro del profeta Daniele si racconta questa storia e di come re Antioco IV Epifane un giorno morì, non è noto se cadendo da un carro durante la battaglia, se assassinato dai sacerdoti di un’altra dea straniera, la babilonese Nanea, signora della natura e della fecondità, o per una grave crisi depressiva. O, più probabilmente, in Persia, malato di tisi. La storia si confonde e rimescola.
I Maccabei ripuliscono il tempio dagli dei stranieri, Gerusalemme è illuminato dal sole di un nuovo giorno. “Consacrazione” o “inaugurazione” è il significato della parola Hannukkah, che ricorda la costruzione del nuovo altare nel Tempio dopo la liberazione della Giudea dall’invasione dell’esercito di Antioco IV, il 25 di Kislev. Nel momento della consacrazione doveva essere acceso un lume con olio di oliva puro, tuttavia non se ne trovò abbastanza, si racconta nel Talmud.
C’era olio solo per una notte. Ma l’olio durò otto giorni, da qui l’origine di Hannukkah, la festa della luci, quando per ogni giorno si accende una candela nella channukià, il tradizionale candelabro a nove bracci. La candela che sta al centro, chiamata shammash, serve ad accendere tutte le altre. Sembra che secondo la tradizione il diluvio universale finì proprio in questo momento dell’anno, dopo che le piogge si riversarono sul mondo durante il mese di Kislev: è il mese che ha come simbolo un arco e guarda un po’, anche del diluvio, rimase un arcobaleno come nuovo patto dell’ordine del mondo.
Questo è il mese dell’olio nuovo dopo la raccolta delle olive in autunno. Secondo il testo mistico dello Sefer Yetzirà il mese di Kislev è associato alla lettera samech, che significa “supporto” ed “è predominante nel sonno”. Diciotto minuti prima del tramonto si accendono le candele dello Shabbat. In queste sere, pochi giorni dopo la notte della festa cristiana santa Lucia, un tramonto dopo l’altro si riempiono di luce i bracci della channukià, che in alcune case se ne sta sulla finestra di fianco alla porta di casa, sulla mensola della veranda che nelle case del nord Europa si affaccia sulla strada un po’ come a prenderne un pezzo e scambiarsi frammenti di vita fra il dentro e il fuori, interno e esterno.
Nel momento più buio dell’anno accendiamo una luce sempre più forte, forse per ricordare che è da qui che accade una nuova nascita: dal buio. Al centro del buio, lì dove affonda il mistero, accade qualcosa capace di riversarsi all’esterno e inondare di senso quello che ci circonda. Ha a che fare con l’attesa, come il Natale e come forse ogni rito, specialmente in questo periodo: la veglia segna passo dopo passo il nostro esserci, abbiamo bisogno di essere svegli se vogliamo accorgerci del passaggio delle stelle attraverso l’arco del Tempo.
8 dicembre
Chi è quello? mi aveva chiesto lui, otto anni
a te chi sembra?
Un ragazzo seduto
infatti. È quello che è, una persona seduta. A volte un uomo, a volte un ragazzo.
Sì, questo l’avevo capito. Ma chi è lui, veramente?
si chiamava Siddharta, è nato così tanto tempo fa che sembra incalcolabile, 2500 anni fa. La sua era una ricca famiglia di nobili guerrieri. Viveva in Nepal, in una vallata verde fra le montagne dell’Himalaya, in mezzo a quelli che sarebbero diventati Cina, India e Tibet, ma che ancora la storia non aveva diviso.Siddharta, racconta la voce del tempo che fu, era nato in un bosco dal fianco di sua mamma Maya, una principessa bellissima e pura come sempre vuole la tradizione in questi casi. Dal fianco, una nascita speciale, un po’ come un cesareo d’altri tempi, e se anche lui è nato così pensiamoci a questi modi di venire al mondo, strani e meravigliosi, inconsueti, da raccontarci come inizio a una vita che è già avventura.
Insomma Siddharta cresce nello splendido palazzo di famiglia. Si sposa, a sedici anni, con la principessa Yasodhara, e insieme avranno il loro unico figlio, Rahula, che diventerà un grande saggio indiano. Ma a Siddharta manca qualcosa. Sente di non aver ancora afferrato quello che c’è da comprendere della vita. Non vuole diventare guerriero, la vita di palazzo non fa per lui.
Allora, un bel giorno il principe Siddharta se ne va. A ventinove anni esce di casa, dal suo bel palazzo dove la sua famiglia ancora dorme fra cuscini di raso e tappeti. Inizia un viaggio da cui non tornerà mai più. Perché mai torniamo uguali a noi stessi quando abbiamo il coraggio di andare via veramente. Siddharta cammina e cammina. Attraversa boschi e villaggi. Incontra la gente. Gli occhi della gente. Che vive, nasce, muore, ride, piange. Siddharta si ferma, a un certo punto. Si siede, così come lo vedi, seduto per terra fra le radici di un albero antico
a occhi chiusi
il respiro, va e viene
aria che entra, attraversa i polmoni e raggiunge ogni cellula del corpo
cuore che battein una notte di luna piena nel mese di maggio Siddharta, lì fermo sotto quel fico antico, incontra l’infinito, che nessuno sa descrivere a parole perché tutti possiamo scoprire com’è il silenzio solo quando attraversiamo la porta della nostra solitudine. Questa notte è accaduta 2500 anni fa a Bodh Gaya, una città dell’India dove ancora questo albero esiste. Ora lì c’è un tempio.
Siddharta, che da quel momento chiamarono Buddha, che significa “il risvegliato”, sarà ispirazione per tantissime persone in tutti secoli dopo, fino a oggi. Una persona seduta, tu, io, qualsiasi persona. Ci ricorda che c’è un momento in cui ti puoi fermare. E se ti fermi un attimo a contemplare la vita che scorre allora ti puoi puoi ricordare qualcosa che va al di là del tran tran quotidiano. È un lampo. Quello che forse in Occidente i poeti chiameranno sublime, la sensazione di appartenere a uno spazio molto più ampio e disteso. Come il mare quando guardi l’orizzonte. Quella sensazione che niente inizia e niente finisce e tu ci sei mezzo. E non là, è qui: dentro il respiro. Allora, ti svegli. Perché non si nasce solo una volta, si nasce tutte le volte in cui ti rendi conto che ti sei di nuovo RISVEGLIATO.
In Giappone il giorno 8 dicembre si celebra Rōhatsu, Giorno del Risveglio, in cui si ricorda il momento in cui Siddhartha Gautauma raggiunse l’illuminazione, conosciuta anche con il termine Bodhi in sanscrito o pali. La tradizione racconta che la stella del mattino Venere appariva in cielo mentre si faceva giorno e nello stesso istante, dopo tre notti di veglia ad affrontare i demoni delle tenebre, il principe Siddhartha infine trovò le risposte che cercava. È per questo che divenne Buddha, il “Risvegliato”, o “Illuminato”.
Vigilia di Natale
Il vento fortissimo tutta notte, le lucine messe su per tutta casa con te in braccio.
Giornata grigia, pioggia intensa e il primo giorno di un Natale in lockdown che fino a un anno fa questa parola non esisteva.
Stare a piedi nudi, preparare da.mangiAre. fare pranzo quando è già pomeriggio e guardare te che ti dividi i giochi con il cane, da bravi fratello e sorella.
Provare a fare l’insalata russa come il nonno.
Sprimacciare i cuscini.
Ballare in cucina mentre ti addormenti sulla mia spalla.
Un film bello e le stelle.
Di nuovo,il vento fortissimo che porta vi a
Il primo Natale qui, a casa nostra. Il primo Natale in tre. Quattro con la ricciolina quattrozampe che adesso ti annusa e si siede di fianco a te quando stai per cadere
Natale ’20, Vigilia
Adesso ti guardo
Adesso ti guardo e tu mi guardi,
da solo sul tappeto smetti per un attimo di mordere quel calzino e
il nostro sguardo si trova
rincorrendosi in diagonale nella stanza,
io al computer e tu per terra a esplorare il mondo intorno a te.
Appoggi le piccole mani sulla paglia intrecciata di una sedia, valutando se arrampicarti.
Picchi sul pavimento con decisione una ciambella di plastica.
Sono uno dei giochi che preferisci quelle semplici ciambelle di plastica colorata,
ti ha portato la piramide Daniela con Paolo e il piccolo Pietro e Anita.
Tu giri sempre con una ciambella.Adesso appoggi la bocca sul pouf, quello di cuoio spesso marrone e blu comprato nel souk di Marrakech insieme alla nonna. Ti ci appoggi e ti sollevi.
Ho lasciato l’aspirapolvere lì in un angolo e tu da ieri sera la maneggi:
muovi il tubo avanti e indietro come hai visto fare a me, un po’ mi sembra ti renda perplesso
questo strano fatto di vederlo lì inerte a terra invece che volante per aria.Prima dalla cucina ti guardavo con la coda dell’occhio,
mentre facevo il caffè.
Tu eri lì, seduto per terra con l’aspirapolvere rossa
e ti sei voltato e
mi hai guardato anche tu,
poi mi hai lanciato un sorriso da lontano.Quando sorridi sei un piccolo sole che si accende,
scaldi il cuore e illumini il mondo,
il tuo piccolo mondo che si illumina da dentro,
all’improvviso.Ci guardavamo, di traverso
una freccia di sguardo dalla cucina alla sala. Pensavo a questo,
a come l’autonomia si conquista a piccoli passi
e quando le persone criticano chi tiene i neonati troppo in braccio
bisognerebbe semplicemente far notare che nell’arco di pochi mesi, appena l’uso dell gambe lo permette
si inizia a esplorare il mondo da soli.
Prima si tiene dritto il collo e ci si guarda intorno,
come facevi tu a tre mesi quando questa estate ti tenevo in braccio passeggiando in giardino e
allungavi il collo qua e là spalancando gli occhi agli alberi. Poi hai imparato che potevi allungare
una mano, è tua
risponde ai comandi. Allora, sfioravi le foglie versi dei rami più bassi e io
per gioco sfioravo con le foglie la punta del tuo naso e la fronte
il tuo sorriso neonato che dicono che i neonati non sorridano ma non è vero.Adesso sai stare seduto e muoverti, da solo
inizi a esplorare il mondo.
Si cresce un passo dopo l’altro
e intanto ti giri, mi cerchi con lo sguardo
qualcuno mi ha visto ha visto che ho fatto?
Sì, ti ho visto. Sstamattina appoggiavi
una mano sul baule e una sul piccolo armadio dipinto di verde dal nonno,
saggiando su quale appoggiarti ti molleggiavi e saggiavi distanze, rapporti di forze
poi con una mano ti sei tenuto all’angolo di bronzo e l’altra l’hai lasciata
un braccio in equilibrio nell’aria, con coraggio.
Ti sei girato verso di me, io nel letto
pronta a ricevere il tuo sguardo come quando ti svegli e
cerchi uno sguardo in cui ritrovarti
onorata di essere quello sguardo in cui ti ritrovi.Ti vedo, ti guardo.
Tu batti forte la mano sul tavolo e poi ti metti a ridere.E all’improvviso piangi, che ti è venuta fame e allora
mi alzo a prenderti in braccio, tu e i tuoi piedini gelidi che è impossibile farti tenere i calzini
ami andare a piedi nudi.
Ci accccoliamo sul divano come gatti, tu prendi il tuo latte e ti addormenti.
Io che passerei tutto il giorno a darti baci nel collo e sfiorarti con una mano i capelli23 dicembre ’20