Perdersi in Veneto

Camminare lungo il camminamento di ronda della città medievale di Cittadella

Annusare piante e sprofondare fra i colori del Parco Giardino Sigurtà, a Valeggio sul Mincio

Per i sognatori con la testa fra le nuvole il Museo del Volo al Castello di San Pelagio in località Due Carrare in provincia di Padova

Perdersi (ovviamente) al labirinto dei Castelloni di San Marco

Viaggiare con la mente al Museo di Geografia di Padova

Esplorare le Grotte di Oliero alle pendici del massiccio dell’altopiano dei Sette Comuni in Valbrenta

La via dei Forti a Cavallino Treporti dove fra il 1845 e il 1917 vennero costruire fortificazioni militari che oggi rimangono a memoria del periodo della Grande Guerra

Tramonto al faro di Punta Sabbioni

A caccia di storia alle sorgenti valchiusane fra le acque del Brenta e del Livenza, e poi seguendo il viaggio del Timavo, che scorre fra Slovenia, Croazia e Italia

Lazise e la fortezza di Peschiera del Garda, dove inizia la pista ciclabile di 43,5 km lungo le alzaie del fiume Mincio, fino alla città lombarda di Mantova

In altalena al Parco delle Cascate di Molina, in provincia di Verona

Dentro alla storia del fiume Brenta al Museo Etnografico Canal di Brenta di Valstagna, dove fra i boschi dell’altopiano si coltivava tabacco, le vie del legno, i lanifici e la Grande Guerra del 1915-18

Sulle tracce dei Cimbri nell’Altopiano di Asiago, dove nel 1981 è stato scoperto il primo e più grande scheletro di Plesiosauria in Italia

Respirare la magia ancestrale della Terra nella grotta delle Torri di Slivia nel Carso Triestino

e poi….. chissà, forse continuare a perdersi in Friuli Venezia Giulia

Dedicato ai bambini

Insieme ai più piccoli esplorare il Parco degli Alberi Parlanti  a Treviso

Ai Pioppi, il parco giochi dove tutto funziona senza elettricità che Bruno Ferrin ha iniziato a costruire nel 1969

Con il naso fra i fossili al Museo di Storia Naturale di Venezia e alla scoperta degli insetti con i bambini all’Esapolis di Padova

Vietato non toccare al Children’s Museum di Verona

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Spiegare la Pasqua ai bambini

Il seme sembrava morto nella terra, invece guarda che meraviglia: è (ri)nato, anche quest’anno. Ci vuole coraggio, il coraggio dei sogni, per ricordarci che rischiare, e persino morire, non sempre è la fine di tutto. Anzi, è sempre dalla fine di qualcosa che nasce ogni nuovo inizio.

Quando ero una bambina la maestra di nonsopiùcosa in classe aveva spiegato che gli uomini primitivi non avevano affatto idea di cosa ci fosse dopo la morte o che si potesse immaginare un’altra esistenza, solo con il cristianesimo questo fu insegnato grazie alla figura di Gesù. Davvero questi esseri umani antichi non ebbero alcuna idea riguardo la morte? E allora quand’è che nella storia compare il concetto di “reincarnazione”? Io, già allora con la testa eternamente fra le nuvole, mi facevo queste domande e, a dire il vero, la spiegazione ricevuta mi sembrò subito stranissima. Manciate di anni dopo e pagine dei libri sfogliati e esami universitari fatti, mi sono accorta che i miei dubbi avevano un’ottima ragione d’essere. Le religioni sono incredibilmente più mescolate e sfaccettate di così, anche se ancora oggi in molti non lo credono, non lo sanno o semplicemente non ci vogliono far caso. Non solo: nulla, proprio nulla ancora oggi possiamo dire su quegli uomini, quelle donne e quei bambini di un tempo, un tempo così lontano che si perde nel vortice dei numeri. Non possiamo dire nulla perché non abbiamo le loro parole e i pensieri che li hanno attraversati rimarranno un mistero che si è perso fra le foglie di foreste ormai scomparse e il vento della storia. Possiamo solo immaginarli, in piedi, davanti alla notte a scrutare le stelle e il blu inchiostro dove affonda la luna, come noi secoli dopo ancora facciamo. Di se stessi e del loro passaggio sulla Terra hanno lasciato un’impronta lieve, come le mani e le figure disegnate nelle grotte di tanti luoghi d’Europa dove ancora si conservano, al riparo dalla luce. Non sapremo mai che cosa sognavano, quale messaggio avrebbero voluto lasciare; non conosceremo le loro vite, né le gioie e le paure. Eppure, da soli, in silenzio davanti alla notte anche noi sperimentiamo lo stesso senso di grandiosa bellezza e insieme un filo di spavento dentro all’immenso che, anche stasera, rimane ignoto, misteriosamente e irrevocabilmente sconosciuto. Io me li sento vicini questi donne, uomini e bambini di un tempo, un tempo che forse in fondo al cuore non è così distante perché sono sicura che se ci potessimo guardare negli occhi ritroveremmo uno sguardo di una scintilla comune. Io so che quegli uomini e quelle donne erano molto più vicini alla morte di quanto noi stessi lo siamo: combattevano l’inverno, il gelo, la fame perenne. Tu pensa il sole all’improvviso più caldo, i rami che si ricoprono della dolcezza dei fiori; tu senti sulla pelle il calore del gelo che si scioglie e immagina lo stupore di ritrovare piante e fiori dove poco fa c’era neve e fango. Forse è proprio da qui che nasce la prima meraviglia: la consapevolezza che dopo la morte c’è vita di nuovo e non si tratta di congetture o metafisica. In natura la vita dopo la morte accade ogni anno, quando la primavera arriva dopo l’inverno. Perché questo preambolo? Per dire che non sempre bisogna credere ai grandi solo perché sono grandi. A volte, anche gli adulti sbagliano. Sbagliano gli scienziati e lo sanno, anzi sono sempre pronti a imparare dagli errori perché la base della scienza è proprio questa: osservare, fare ipotesi e poi confrontarsi con ciò che accade. Sbagliando abbiamo imparato tantissimo; abbiamo fatto scoperte incredibili e ogni giorno continuiamo a scoprire cose nuove esplorando. Quindi tu non smettere di farti domande e non credere mai quando qualcuno ti dice “le cose stanno così”.

Il significato della parola “Pasqua”

La parola Pasqua ha un senso bellissimo: viene dal greco e prima ancora dalla lingua aramaica. Significa “passaggio”, passare oltre. Il passaggio è stato storico, ha avuto un’esistenza geografica e sociale quando il popolo ebraico decide di opporsi alla schiavitù e infine riesce a partire, in una notte, e abbandonare l’Egitto passando attraverso il Mar Rosso prodigiosamente aperto. Il passaggio è personale, del corpo e dell’anima, diventa scelta politica, quando Gesù, che secondo diversi studiosi è figura storicamente esistita, vive la morte per celebrare la vita e contrapporsi alla morte in vita. In fondo, Gesù è un ribelle. Adesso immagina un posto come la Palestina, dove c’è il deserto e si innalzano le montagne; un posto dove la sera illumina un paesaggio fatto di piccoli villaggi fra i pendii ricoperti di ulivi e alberi da frutto. Ma aleggia la guerra, l’occupazione dell’antica Roma, allora potenza invincibile, e il senso soffocante di una società rigidamente schierata in cui donne e uomini sono profondamente divisi; uomini ricchi e sapienti da una parte, persone umili dall’altra. Gesù è nominato sia nel libro sacro alla religione ebraica, la Torah, sia nel Corano; entrambi lo definiscono un saggio profeta e se profeta è uno che sa vedere il futuro, allora si può immaginare la potenza del cambiamento di un visionario ribelle che all’improvviso, a quel vecchio mondo, inizia a dire una sola parola ma fondamentale: amore. Amore, la legge che tutto muove. L’amor che move il sole e l’altre stelle, scriverà secoli dopo Dante Alighieri, quando amore non sarà più parola proibita. In fondo, la primavera e la libertà condividono molto, la stessa aria di dolcezza di quando, dopo il gelo che ti blocca, finalmente si aprono i polmoni e riesci a respirare liberamente. La prima volta che respiri, dopo una dittatura, è come una boccata d’aria pura, di ossigeno e sole, dopo il ghiaccio dell’inverno. Ti sembra di vivere per la prima volta, rinascere se è possibile. La primavera tornerà, le primavere dell’anima tornano sempre, ancora e ancora: i sognatori lo sanno.

Le feste di primavera nel mondo

In Iran si festeggia Nowruz, il capodanno persiano, una delle feste più antiche. La parola nowruz significa “giorno nuovo” e questa festività ricorre fra il 20 e il 22 marzo, proprio i giorni in cui, dall’altra parte del Mediterraneo si festeggia l’inizio di primavera, che coincide con l’equinozio. La parola equinozio viene dalla lingua latina, equus, equo, infatti segna un cambiamento nel ciclo del tempo: si verifica quando la durata del giorno e della notte è all’incirca uguale, ovvero dodici ore ciascuno (guarda un po’, anche lo stesso numero degli apostoli). In India, dove si segue un calendario lunare come nel mondo arabo, nei giorni intorno al 18 marzo si celebra Holi, la festa dei colori, che inizia la notte prima, quando intorno al fuoco si ricorda il momento in cui venne sconfitto il demone Holika Dahana, che brucia nelle fiamme. In coincidenza con la festa cristiana di Pasqua in Thailandia a metà aprile c’è Songkran, il 13 aprile, una festa estremamente in cui ognuno è invitato a uscire per strada e ci si bagna reciprocamente, facendo vere e proprie guerre d’acqua con ogni mezzo, da pistole ad acqua a secchiate, a ogni età. Songkran è la festa per l’inizio del Nuovo Anno.

Il nuovo anno. Dall’altra parte del Mare Nostrum, il Mediterraneo, i popoli del Medio Oriente e dell’Estremo Oriente festeggiano l’inizio del nuovo anno tra la fine di gennaio e marzo. Anche per i popoli antichi era così. Il nostro Natale, vicino ai giorni del solstizio d’inverno, segna il periodo più buio e freddo dell’anno, soprattutto fra le montagne europee. Ma il punto più oscuro dell’anno segna anche il momento in cui, lentamente, la luce torna ad aumentare. Fra il mese di febbraio e marzo la terra è ricoperta dalle ultime nevicate, il sole diventa ogni giorno più forte e caldo. Vento e luce scioglieranno le ultime nevi: sotto, la terra fredda nasconde i semi caduti in autunno o seminati alla fine dell’estate; sono già lì, rimasti addormentati per mesi, al buio nell’incubatrice naturale di una pancia cosmica che li ha protetti e cullati per tutto l’inverno, nell’attesa delle condizioni giuste. Adesso è il momento di sbocciare.

Il senso della primavera in natura

Basta l’arrivo dei primi giorni di sole ed ecco che in un attimo sui prati compaiono i fiori di primavera più coraggiosi: primule (non ha caso chiamate così perché sono fra le prime a comparire), violette, crocus bianchi e viola, bucaneve, margheritine. I rami si ricoprono di gemme che fra un paio di mesi porteranno la meraviglia dello spettacolo profumato dei ciliegi in fiore, in Giappone chiamato sakura, insieme alla fioritura dei meli selvatici, peschi e peri, o i cespugli come il biancospino. Fra le spine delle rose si intravedono già i nuovi butti,a breve si trasformeranno in boccioli.

La primavera è il momento in cui si nasce. Nella natura accade ancora così, ogni anno si rinnova il tempo del nuovo, proprio come il nuovo anno che anche noi, nelle società umane, desideriamo ricordare e celebrare. Nell’aria tornano a volare coccinelle, api e qualche mosca vagabonda. Nei boschi a breve nasceranno i piccoli cerbiatti e i caprioli; nelle stalle questo è il tempo dei giovani vitellini e capretti. Si nasce quando ci sono più probabilità per sopravvivere e per l’estate si sarà già sufficientemente forti per essere indipendenti. Madre Natura insegna che nulla è per caso. La vita cerca e insegna la vita. Grazie alle piogge primaverile, che ogni tanto si trasformano in acquazzoni tempestosi, la terra riceve nutrimento e in un attimo, non appena ricompare il sole, il bosco si accende di una tonalità di verde unica, ricco di clorofilla e vibrante del nuovo fogliame che nel giro di qualche settimana ricoprirà gli alberi.

Un tempo, nelle campagne italiane così come in molti altri luoghi d’Europa, si accendevano i falò. Talvolta i fuochi venivano accesi in gennaio, oppure in maggio o in giugno a seconda del posto e della tradizione a cui era legato. Accendere i falò era un’antica usanza contadina e aveva anche un risvolto pratico perché serviva a ripulire la terra, senza contare la funzione della cenere che, grazie ai microelementi come magnesio, calcio e rame, fa da concime e fertilizzante naturale. Sembra che il rito dei falò, che oggi rimane in alcuni luoghi come la festa dei Falò di Rocca San Casciano in Emilia Romagna, si perda nella notte dei tempi e arrivi fino agli antichi Liguri, i Longobardi e i Celti.

Esercizio di immaginazione

Scende la sera, la giornata sta finendo. Ora pensa a un mondo molto più buio del nostro: un mondo senza elettricità, in cui il freddo è molto più freddo di ora, senza comodità, e la notte infinitamente più lunga. Adesso immagina l’inverno, con il freddo sulle mani e nell’anima, un lungo inverno che sembra non passare mai; la fame, le giornate che finiscono in fretta, l’immobilità. Ora il buio di un’intera vallata di colpo si anima con la fiamma di tantissimi piccoli fuochi, falò disseminati ovunque che fanno sorridere. Falò intorno a cui prendersi per mano, ballare, tornare a sognare e iniziare a innamorarsi. Piano piano torna la luce, ogni giorno di più e il primo giorno in cui si sente di nuovo il sole sulla pelle è una festa davvero. I prati producono nuove erbe da mangiare; gli uccelli selvatici e le galline, che durante l’inverno sono in ferma, tornano a fare le uova. L’aria si riempie di nuovi profumi.

Antiche storie sulla creazione

Il buio, il fuoco. L’acqua, come la festa thailandese di Songkran. In modo diverso, i popoli del mondo celebrano la luce che torna a far vivere la natura e le speranze. Che di questo ha bisogno la vita qui sulla Terra per continuare: luce, fotosintesi, acqua e aria. L’uovo, simbolo ancestrale, non solo ricorda il periodo dell’anno in cui le risorse naturali tornano ad abbondare e nascono i nuovi nati. L’uovo cosmico, associato al mistero della creazione, celebra l’esistenza che è e sempre sarà, il mistero racchiuso all’interno che si apre al mondo, l’istante del miracolo in cui la Vita torna magicamente a fluire. Nell’antico Egitto il dio della Terra, Geb (maschile!), sposo di Nut, dea del Cielo (femminile!), era rappresentato con un’oca sul copricapo, mentre in India Brahma nasce da un uovo cosmico da cui ha origine tutto il mondo. In quanti modi noi, come umanità, abbiamo immaginato la creazione: tu quante storie conosci sulla creazione? Se ci fermassimo solo un attimo potremmo forse scoprire che ogni racconto è immerso in un’atmosfera tutta sua: ha coordinate geografiche e spaziali diverse. Immagina di essere una donna o un uomo di millenni fa, senza internet né libri, e provare a spiegare il mondo, a te o a un bambino: quante incredibili storie abbiamo saputo vedere osservando la natura misteriosa del pianeta.

A proposito della mitologia indiana, anche qui, dall’altra parte rispetto al nostro mondo, esiste una trinità: si tratta di Brahma, Visnu e Shiva, che corrispondono a tre aspetti differenti del divino. Brahma è considerato il creatore, Visnu il dio e il principio conservatore che mantiene inalterato l’ordine del mondo e Shiva il distruttore. In un certo senso, fanno venire in mente anche il grande ordine del tempo, che noi scandiamo in passato, presente e futuro. Secondo alcune fonti sembra che Gesù abbia viaggiato fino in India negli anni in cui non si ha notizia di lui,  e che in alcuni monasteri della città santa di Lhasa, per secoli inaccessibile, sia rimasta testimonianza del suo passaggio. Nessuno saprà fino in fondo ciò che è stato della sua esistenza e come avrebbe voluto tramandare i suoi insegnamenti, eppure forse la sua lezione principale resta questa: se ci guardiamo intorno c’è un’unica grande Storia di cui continua a parlare il mondo; la racconta la terra, con le sue trasformazioni e le stagioni , la raccontano i fiori e gli uccelli che ritornano dalle migrazioni invernali per tornare a fare i nidi e deporre uova che porteranno a nuove generazioni.

Anche gli esseri umani, da una parte all’altra del globo, osservano e continuano a celebrare la vita, in modi diversi che ciò nonostante contengono un filo colorato. Lo vediamo quel filo: è sottile e colorato come quello di un aquilone pronto a lanciarsi nel cielo blu al soffio del vento di primavera, è la magia della Vita che ritorna, ancora e ancora, anno dopo anno, a rinnovare il patto e ricordarci che siamo vivi. Il seme sembrava morto nella terra, invece guarda che meraviglia: è (ri)nato, anche quest’anno. Ci vuole coraggio, il coraggio dei sogni, per ricordarci che rischiare, e persino morire, non sempre è la fine di tutto. Anzi, è sempre dalla fine di qualcosa che nasce ogni nuovo inizio, in fondo la morte è lo spazio di silenzio e calma, la stasi, di cui c’è bisogno affinché fra una pausa e l’altra si possa scrivere il ritmo di una nuova musica.

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Holi, festa dei colori all’inizio di primavera

In India Holi è alla fine dell’inverno e preannuncia la nuova stagione, l’arrivo della primavera: segna un giorno di festa in cui celebrare la vita, fare pace, pregare e ripartire riparando ciò che ha bisogno di nuova luce.

La festa di Holi inizia di notte, davanti al fuoco. Tra le fiamme danza il demone Holika Dahan, la cui storia è stata raccontata tanto e tanto tempo fa sulle pagine dei sacri libri dei Veda. Holikā Dāhana significa “Holika che brucia”, in sanscrito, che è la lingua in cui sono scritti i Veda. La storia racconta che Shiva ridusse in cenere il demone Holika con il suo terzo occhio: ogni anno si rivive questo rito ballando e pregando intorno al fuoco.

Non è l’unica leggenda, di storie ne circolano moltissime. A seconda della regione geografica può variare il racconto e il contesto, eppure questo rito di accendere un fuoco nella notte a me ricorda i falò che anticamente bruciavano alla fine dell’inverno anche nelle nostre campagne, che oggi rimangono in forma di rito e festa. E Holika Dahana, questo demone che brucia nelle fiamme, in fondo mi sembra che suggerisca a ognuno di noi di incontrare i suoi demoni: l’ombra si incontra nell’oscurità, la notte che a qualsiasi età sa scatenarci dentro emozioni primordiali. I demoni della rabbia, tristezza, paura ci mettono in guardia sui nostri umani, umanissimi, limiti: è sulla soglia, al confine di noi, che sappiamo prenderci cura della nostra pelle e rimetterci in pace con tutto ciò che – non- possiamo. Sì, abbiamo dei limiti. Anche la vita li ha. Questo meraviglioso viaggio ha un inizio e ha una fine. Al termine dell’inverno il seme, che è rimasto rinchiuso mesi nella oscura terra, muore e si trasforma: alcuni si fonderanno con il fango e la pioggia, nella terra, altri diverranno pianta. La morte, la nostra paura più grande e ineludibile, si fa tangibile e nel sole della primavera che si affaccia celebriamo di nuovo la vita, con emozione, altrettanta paura e vulnerabilità, con tenerezza e col respiro in sospeso

In India e in Nepal nei giorni prima di Holi si accendono pire e il fuoco brucia, simbolo di purificazione e rigenerazione. Al mattino del giorno di Holi si gioca con le polveri colorate simbolo di questa festa, che ogni anno torna all’inizio di marzo, in giorni simili ma diversi poiché in India si segue il calendario lunare.

La storia del re Hiranyakashipu

Desidera la vita eterna Hiranyakashipu ma non può chiedere l’immortalità. Il dio Brahma gli concede cinque desideri: non morirà “né fuori né dentro la sua residenza, né di giorno né di notte, né in cielo né in terra, né a causa di un essere inanimato o un animale”. Hiranyakashipu nel cuore nasconde uno sterminato odio verso il dio Visnu a causa dell’uccisione di suo fratello. Nel suo regno proibisce il culto di Visnu tuttavia a disobbedire è proprio suo figlio. Prahlada, infatti, cresce devoto a Visnu: dopo aver cercato di dissuaderlo e convertirlo il re prova a uccidere il figlio, ma alla fine sarà lui a morire. Considerato un demone dalla mitologia indiana, Hyranyaksha verrà sventrato e divorato dagli artigli di Narasimha, incarnazione di Visnu, né essere inanimato né essere vivente, al crepuscolo, quindi né notte né giorno, sulla soglia del suo palazzo, né dentro né fuori. Anche Visnu cadrà preda dell’ira e solo il saggio, mite Prahlada riuscirà a fermare la sua incontenibile rabbia.

Il lato ombra dietro al demone

Machig Labdrön, maestra e asceta nata intorno al 1055, in Tibet diede forma a una pratica spirituale che si diffonderà con il nome Chöd, letteralmente “separazione, rottura, o tagliare”.

“I nostri demoni sono ciò di cui abbiamo paura. Come diceva Machig, qualsiasi cosa blocchi la nostra libertà interiore è un demone. Machig parlava anche di dei-demoni. Gli dei sono le nostre speranze, ciò che ci ossessiona, che desideriamo intensamente, i nostri attaccamenti”

Tsultrim Allione, “Nutri i tuoi demoni”

Che differenza può esistere fra la speranza e ciò che speranza non è più? Forse solo un margine sottilissimo, e ciò nonostante evidente. Potremmo definirla aderenza alla realtà, eppure non può essere solo questo. I sognatori sanno che a volte per custodire e portare in porto una grande impresa è necessario battersi anche contro ciò che è ragionevole. Ma quando la speranza di qualcosa diventa ossessione allora l’idea ci tiene prigionieri: succede anche in amore, o nella passione per qualcosa. Fingere che non sia importante non è la strada: non si smette di amare solo perché lo si vuole, non si smette di essere arrabbiati o tristi solo perché si butta l’ombra da una parte. Anzi, nell’oscurità l’ombra diventa più grande.

Facciamo un esperimento, scrive Tsultrim Allione nel suo libro, che forma daresti al tuo dolore? Una sedia vuota di fronte a noi: ci sediamo. Chiudo gli occhi. Respiro. Che forma ha… l’emozione che sto provando? Se dovessi disegnare che colori userei? Scopro che a seconda del tempo diversi sono i miei demoni, alcuni bellissimi, altri che mettono terrore solo a guardarli. Perché c’è sempre un filo di paura a guardare negli occhi un demone, ma forse proprio quel filo ci porta davanti alla vita e alla morte, alle cose importanti dell’esistenza.

A volte, più spesso di quanto pensiamo, guardi un demone negli occhi e scopri che quello sguardo lo conosci, lo conosci bene. E ricordiamocelo, anche la parola “felicità” ha a che fare con i demoni: dal greco eudaimonia, eu-buono, daimon, demone. Che ad accompagnarci e possederci sia un demone benefico. Abbracciare il demone, quello più pungente e oscuro, forse significa proprio questo, addomesticare e trovare un punto di connessione con il selvaggio che è in noi, una zona fra ombra e luce dove tendere la mano e trovare il contatto, al di là della rabbia, della tristezza e della paura.

Luce e ombra danzano insieme

A chilometri e chilometri dall’India e dalla turbolenta storia di Hiranyakashipu viene in mente Serse, il re della Persia, figlio di Dario, che nel 485 a.C sale sul trono e vuole conquistare la Grecia. Serse aveva una flotta potente e un esercito di duecentomila soldati di tantissime diverse nazionalità: nel giugno del 480 aC attraversa lo stretto dei Dardanelli, allora chiamato Ellesponto. A causa di un traditore, Efialte, che confida l’esistenza di un sentiero segreto, l’esercito persiano riesce a sorprendere alle spalle gli Spartani, che per due giorni alle Termopili avevano resistito eroicamente insieme al comandante Leonida: piuttosto che arrendersi i greci combattono fino alla morte. Intanto Serse continua la guerra e riesce a invadere una terra dopo l’altra, Focide, Beozia e Attica. In settembre raggiunge Atene; la città e il porto del Pireo vengono incendiati. L’ateniese Temistocle, alla guida della flotta greca, attira le navi persiane nella baia di Salamina, dove le imbarcazioni greche, più piccole e veloci, hanno un vantaggio. Serse osservava la battaglia da un trono posto ai piedi del monte Egaleo: in dodici ore la flotta persiana viene distrutta.

Erodoto racconta che per consentire il passaggio del suo esercito sull’Ellesponto Serse aveva fatto costruire un ponte sullo stretto vicino alla città di Abido, in Asia Minore, e un altro, nello stesso periodo, fu costruito presso il monte Athos. Una tempesta distrusse il ponte e Serse decise di punire il mare, con trecento frustate e maledizioni. La cultura greca definirà gesti come questo un’azione legata all’hybris: è l’arroganza di chi pecca commettendo azioni ingiuste senza comprendere il giusto limite, per il piacere di umiliare. Ancora una volta, il limite. Serse non è invicibile, anzi ironicamente il mare sarà teatro della sua sconfitta definitiva. Saturno è destinato a essere sconfitto e da suo figlio: il Tempo non si può arrestare, l’umana lezione è un lento imparare i cicli della natura. Hiranyakashipu non può essere immortale. Eppure, dentro ha un dolore che non dà pace, per la morte del fratello: la tristezza, quando non viene riparata, si trasforma in un demone di rabbia che tutto vorrebbe possedere e distruggere. Persino Visnu, il grande dio Visnu, signore che preserva e custodisce l’equilibrio del mondo, non è immune dalla rabbia.

Attraverso le polveri colorate di Holi possiamo ricordare a noi stessi, di nuovo, che tutto è in grado di trasformarsi. Mai come in questo tempo dell’anno in cui non è più inverno e ancora non è primavera ogni cosa è mobile, nella natura e in noi. In Europa è il momento delle ultime nevicate e dei primi coraggiosi fiori; la forza della luna piena, il sole che sta per ritornare, forte sulla pelle e nell’anima; l’attesa dei semi e delle piante messe a dimora. Ce la faranno? (Ri)nasceranno? La morte danza con la vita, la vita danza con la morte. Sempre. Ogni giorno è un viaggio di cui non conosco la fine né l’inizio. Solo, viviamo. Danzando. Celebrando i colori che sono dentro di noi e che iniziamo a ritrovare là fuori, fra gli alberi e la natura che inizia una nuova stagione.

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7 marzo

“Fermati, viaggiatore, per un momento, e guarda
Uno che ha viaggiato più di te;
In tutto il mondo, per ogni grado,
Anson e io abbiamo solcato il mare.
Sono passate zone torride e gelide
E, alla fine, arrivammo a terra al sicuro-
In pace, solenni eccociIn pace, solenni
Lui alla Camera dei Lord – io qui”

Stay, traveller, a while, and view
One who has travelled more than you;
Quite round the globe, thro’ each degree,
Anson and I have ploughed the sea.
Torrid and frigid zones have pass’d
And-safe ashore arrived at last-
In ease with dignity appear,
He in the House of Lords – I here.

Se ti capitasse di camminare fra le sale del National Maritime Museum di Greenwich, il più importante Museo Marittimo del Regno Unito, vai a cercare il Centurion: il falegname Benjamin Slade, che lavorava nei cantieri navali di Plymouth, realizzò il modellino di legno che vedi chiuso nella teca, completo di tutto, dai minuscoli tasselli in legno alla polena, che un tempo accompagnò questa nave in mare aperto.

Oggi, 7 marzo 1941, il capitano Anson doppia capo Horn e attraverso lo stretto di Le Maire passa dall’Oceano Atlantico al Pacifico. L’equipaggio è sfinito, ma intanto li coglie di sorpresa una tempesta da ovest: le vele sono a brandelli, la nave rolla così tanto che chi non sa mantenersi in equilibro aggrappato al legno della prua finisce inghiottito dal mare. L’uragano.

Si acquieta per poi cominciare di nuovo. Passa il giorno e sopraggiungono le stelle. Arriva l’alba, meravigliosa speranza fra le nubi nere. E passa un’altra giornata in balia delle onde. L’uragano squassa il Centurion per cinquantotto giorni di fila. Quelli che non uccide la tempesta, li uccide lo scorbuto: la mancanza di frutta, verdura, acqua, vitamine. Ogni giorno si lasciano all’acqua salata i cadaveri dei marinai, dai sei a otto.

Anson tiene la rotta seguendo il sessantesimo parallelo sud; ad occhio, dovrebbe trovarsi a duecento miglia a ovest della Terra del Fuoco, pensa. Dopo due mesi dalla completa oscurità appare la luna: Anson punta verso nord. La meta è l’isola di Juan Fernandez. La foschia si dirada e all’orizzonte appare la terra. Terra! Ma, contro ogni aspettativa, è Capo Noir, al margine occidentale della Terra del Fuoco. Com’è possibile? In realtà, la nave nell’azione disperata di combattere contro la tempesta, era rimasta quasi ferma. Adesso si tratta di recuperare la rotta e in fretta, perché se fossero morti altri uomini, non ne sarebbero rimasti abbastanza per manovrare le vele.

Il giornale di bordo, giorno 24 maggio 1741, segna che Anson conduce il Centurion alla latitudine dell’isola di Juan Fernandez, trentacinque gradi a sud dell’Equatore. Est o ovest, qual è la direzione giusta? Anson decide di puntare a ovest, il Centurion naviga per quattro giorni. Poi, qualcosa gli fa cambiare idea. Inverte la rotta. Anson non sa di trovarsi a poche ore dalla costa agognata. Nel frattempo, dopo quarantotto ore ecco che si avvista terra, di nuovo. Ma si tratta della costa del Cile, dominio spagnolo.

Anson e l’equipaggio del Centurion caleranno l’ancora a Juan Fernandez il 9 giugno 1941, due mesi dopo. Degli uomini imbarcati, oltre cinquecento, rimarranno meno della metà. Questa pagina strappata dal libro dei giorni è dal libro “Longitudine” di Dava Sobel, che narra la storia della difficile, difficilissima conquista della longitudine, la scoperta che riuscì a cambiare la navigazione.

Fra l’altro, proprio nell’isola di Juan Fernandez al Centurion si spezzò il cavo dell’ancora: trascinato in mare fu di nuovo riportato, con grande difficoltà a terra. Costruito nel cantiere navale di Portsmouth e varato il 6 gennaio 1732, la nave HMS Centurion apparteneva alla Marina Britannica. A Canton lo scafo venne abbattuto e ricostruito dai falegnami cinesi; dopo aver catturato il galeone Manila fece ritorno in Inghilterra attraverso il Capo di Buona Speranza e una volta giunto a Londra l’equipaggio marciò per le strade della capitale carico di bottino. Un bottino che i marinai dilapidavano in poche notti, come narrano le voci dei porti, perché allora non esistevano certo fondi di investimento e le proprie tasche, insieme alla vita spesa in mare e per il mare, erano l’unica certezza.

Dal 1734, anno della sua prima sortita, a bordo ospitava John Harrison, orologiaio inglese testardo e autodidatta, che per oltre quarant’anni, sfidando le autorità scientifiche e le guerre di corte, avrebbe continuato a sperimentare il suo cronometro, fino a ottenere l’ambito premio offerto dal Parlamento. Nel 1741 il Longitude Act, infatti, aveva stanziato l’equivalente di milioni di sterline per chi avesse saputo risolvere il problema del calcolo della longitudine in mare aperto.

Per trentasette lunghi anni il Centurion navigò per ogni mare. Con il capitano George Anson attraversò l’Oceano Atlantico, dall’Africa alla Giamaica. Aveva una missione speciale: dare fastidio alla flotta spagnola intercettando il Galeone Manila, un nome in codice che era stato dato alle navi della corona spagnola che dal porto di Manila attraversavano il Pacifico sbarcando ad Acapulco, cariche di merci, che veniva scaricate per poi viaggiare via terra fino a Veracruz, in Messico, e poi di nuovo caricate dai galeoni indiani per arrivare fino in Spagna. Dal 1565 al 1815 questo commercio continuò, ininterrottamente, fra Spagna e Messico e non senza difficoltà, a causa dei venti e delle correnti.

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Cose che si fanno d’inverno

Le piccole cose capaci di renderci felici durante il tempo invernale. Giorni lunghi, lunghissimi che poi ci si volta indietro e ancora una volta sembrano passati in fretta. I giorni dell’inverno sono quelli in cui avremmo voglia di casa e di rotolarci fra le coperte e invece magari bisogna svegliarsi presto e uscire quando è ancora buio – che succede anche questo – e poi scopri comunque che può essere bellissimo, passato il primo momento più difficile, l’aria in faccia e il mondo che si sveglia, ognuno a modo suo, le giornate di nebbia infinita, guardare fuori dai vetri di uffici e scuole, sognare, immaginare, preparare biscotti e nuove idee…

Cose che si fanno d’inverno

Ascoltare musica e se si può i dischi, con il vecchio mangiadischi arancione o un nuovo giradischi per tornare a sentire il fruscio dei 45 e 33 giri, imparare a posizionare la puntina… piano piano, nel punto giusto

macinare i chicchi di caffè e immergere il naso nel profumo forte, scaldare le fette di pane nel tostapane e preparare colazioni sontuose con marmellata, burro salato o formaggio. E poi i pancakes: il cesto dei pancakes della domenica, quando svegliarsi è più dolce e papà con la frusta impasta tutto poi cuoce per tutti

i caffè lunghissimi e i piedi nudi sul divano, mangiare biscotti dalla scatola e non importa per le briciole

passare da una stanza all’altra, giocare e fare caos e poi riordinare tutto e trasformare anche il riordino in un nuovo gioco, in cui trovare cose e riscoprire oggetti perduti

disegnare, dipingere con gli acquarelli, leggere libri belli, guardare film e inventare storie

spiare il Tempo dalla finestra, che come diceva lo scrittore Joseph Conrad «Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?»

indossare sciarpa e cappello di lana e poi uscire fuori, con l’aria fredda che soffia sulle dita e sulle guance

osservare i rami degli alberi disegnati dal ghiaccio, le case e le aiuole: pensare a quando ci sarà così sole che diremo – si muore di caldo- e indosseremo pantaloni corti e infradito e magliette e sembrerà così strano ripensare a queste giornate qui, immerse nella nebbia e strizzate nel gelo, sembrerà strano tanto oggi sembra strano e innaturale immaginare che fra qualche mese saremo in questa stessa strada, svestiti e con le braccia abbronzate, circondati di fiori e alberi pieni di verde

fare picnic in salotto, con tanto di tovaglia da stendere sul tappeto e tramezzini e frutta

ascoltare la pioggia che cade di notte e se nevica rimanere minuti interi incantati a osservare il pulviscolo della tormenta di fiocchi attraverso la luce gialla dei lampioni sotto casa

accendere fili di luci per tutta casa e mica solo a Natale, arrotolati lungo le scale e sul soffitto della cucina, per scaldare le stanze di casa e il cuore

rispolverare i giornali vecchi e i libri che non si ha ancora avuto tempo di leggere perché non è vero che accumulare è peccato: ci sono momenti in cui troviamo cose, oggetti, libri e sogni e li mettiamo da parte, in angolo della testa e dell’anima, poi arriva il giorno giusto e allora li apriamo ed esploriamo, succede così di tenere fra le mani sorprese che avevamo preparato per noi stessi, senza saperlo, infiniti momenti fa

preparare il tè delle cinque e se non è a quell’ora poco importa, l’importante è fermarsi e sorseggiare piano. Piano piano, che il tempo: il Tempo, questo nessuno ce lo regala, ce lo dobbiamo prendere e a volte anche rubare, disegnare per noi e per ciò che amiamo, per trovare spazio per glia abbracci e cuscini sul divano, parole da scrivere e raccontare, piante da annaffiare

e non importa se è inverno, forse fioriranno anche i gerani se li lasciamo dentro alle finestre. Per fare finta che l’estate sia già tornata, o forse mai passata: la bella stagione del cuore, che non importa quanto freddo faccia, è un battito di farfalla dentro, un arcobaleno nella pioggia

svegliarsi e riaddormentarsi. Perché almeno una volta durante l’inverno dobbiamo concederlo a noi stessi, di non sentire la sveglia e continuare a sognare e rotolarci fra le coperte quando ormai è troppo tardi per fare tutto.

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Fiori di primavera

Germogli di bucaneve, come ogni anno di fianco alla porta di casa

Fiori di primavera o di fine inverno? Mentre la neve si scioglie sui prati fra i sentieri fa sobbalzare il colore intenso dei nuovi fiori, ci lasciamo sorprendere da profumi che credevamo dimenticati e nuove sfumature dell’anima. Qui dove abitiamo noi, nell’Appennino Tosco-Emiliano, provincia di Modena, i primi fiori di primavera a spuntare sono le primule, che fanno rinascere di giallo il mondo.

Alla fine dell’inverno appaiono le violette, in mucchietti che mi ricordano i gruppi di vecchie amiche, strette strette negli sciallini minuscoli spalla contro spalla a chiacchierare e commentare ciò che è stato dell’inverno. Poi il crocus, che colora la terra di bianco e sfumature viola, ricordo delle vacanze di Pasqua quando andavo con mia nonna a camminare in questi prati.

Crocus

L’ho avvistato per primo fra tutti quest’anno, una piccola esplosione viola fra il color terra delle foglie secche. Il crocus è temerario e di frequente è il primo a sbocciare, fra la fine dell’inverno e l’inizio di primavera. Appartiene alla famiglia delle Iridacee (Iridaceae) e il suo nome viene dalla lingua greca, Kròkos. Questo piccolo fiore, viola o bianco, è citato fra le pagine dell’Iliade: significa filo di tessuto. All’interno sono ben visibili i lunghi stigmi che nel suo cugino più celebre, il Crocus sativus (comunemente noto come zafferano!) vengono sfruttati in cucina.

Il piccolo crocus durante la stagione primaverile sa trasformare i prati in un dipinto. Nell’Appennino tosco-emiliano il crocus spunta ovunque, fra le zolle di terra brulla e l’erba ingiallita scampata alla fine dell’inverno insieme ai piccoli cespugli di violette e le primule. Cresce in Europa, ma si trova anche in in Africa nord-occidentale e in Asia occidentale, fra le vallate dei Monti Altaj, un posto magico, dove anticamente nacque lo sciamanesimo. I popoli che vivevano in Altaj, o Altai, consideravano sacre le montagne. Siamo in Asia, sui monti che svettano dal deserto dei Gobi alla Siberia occidentale all’incrocio fra Russia, Mongolia, Cina e Kazakistan.

Primula

I petali di primula si possono aggiungere anche all’insalata. Ma la vera sorpresa è avvistarle alla fine dell’inverno, quando i prati sono ancora secchi e il loro colore è il primo a manifestare signora Primavera che torna a camminare sulla Terra. Infatti il nome primula, dal latino, viene dalla parola primus, primo: è il primo fiore a sbocciare dopo l’inverno e per questo la primula è il simbolo della rinascita di primavera.

Violetta

Il genere Viola appartiene alla famiglia Violaceae, diffuso in ogni continente: comprende circa quattrocento specie. La violetta è il fiore della città di Toulouse, nel sud della Francia, dove si produce un aperitivo a base di questo fiore. Come si riproduce la violetta? In due modi. I fiori più in alto vengono impollinati dalle api e dagli insetti, così viaggiano nell’aria, mentre negli altri, più in basso, si verifica l’autoimpollinazione. Questo significa che questi semi cadono vicino alla pianta madre e presentano un corredo genetico simile a lei. Non è meraviglioso pensare a questo processo immaginando che alcuni figli vadano lontano, a esplorare il mondo, e altri si fermino qui, vicino a noi. Figli o… azioni. Possiamo pensare ai semi dei fiori come ai nostri gesti: i nostri pensieri e le azioni che compiamo ogni giorno volano e riproducono ciò che siamo.

Alla fine dell’inverno ogni anno attendo, con trepidazione e curiosità, i bucaneve. Perché la natura ritorna, con magica puntualità, da anni, così tanto che noi non abitavamo in questa casa e non eravamo nemmeno nati. C’è un unico piccolo gruppo di bucaneve, qui in giardino; non sono che tre o quattro eppure da più di cinquant’anni, tornano, alla fine dell’inverno, sempre di fianco alla porta di casa. E io ogni anno spio il loro arrivo.

Bucaneve

Il bucaneve, Galanthus nivalis, è della famiglia delle Amaryllidaceae: galanthus, così viene chiamato anche in lingua inglese, da due parole greche: gala, latte, e anthos, fiore. Fra i parchi del Regno Unito in questa stagione è ovunque: se ti trovi a camminare fra i parchi di Londra nel mese di febbraio vedrai un tappeto di minuscoli bucaneve, ai piedi delle querce. In Irlanda il bucaneve era il simbolo della festa di Imbolc, una festa antichissima che poi in epoca cristiana divenne la Candelora. Sai che il bucaneve inglese ha un legame con l’Italia? Fu la regina Elisabetta a introdurre i primi bucaneve in Gran Bretagna, dalle montagne italiane.

Tarassaco o dente di leone

All’improvviso il giallo delle prime primule sembra diventare scialbo. D’un colpo, in una notte e un giorno, è nato il tarassaco: il suo giallo rende tutto ciò che era prima sbiadito.

C’è una cosa che ci insegna il tarassaco ed è il senso della trasformazione: nulla accade se non accade prima dentro. Rifletto su questo ogni volta che osservo il tarassaco. Com’è diverso a seconda del momento della sua esistenza, vero?

Leggi qui: la lezione del tarassaco

La raccolta delle erbe selvatiche di primavera, un tempo così comune, è diventata una pratica dimenticata. Tuttavia, dagli studi emerge che il livello di zuccheri presenti nel nostro sangue presenta un aumento preoccupante e altrettanto preoccupante nella nostra alimentazione è la carenza delle erbe amare e del loro potere detossinante.

Rosmarino

Anche il rosmarino, Salvia rosmarinus, all’inizio di primavera si trasforma. Non sono meravigliosi i suoi fiori azzurri e viola?

Viola canina o viola selvatica

Lamium purpureum o falsa ortica

Spinacio selvatico

Noto con altri nomi, come buon enrico o farinello, lo spinacio selvatico o spinacio di montagna è ottimo nella frittata, nel risotto e nelle zuppe. Si tratta di un’erba spontanea preziosa per il sistema immunitario, ricca di vitamine e sali minerali, un tempo particolarmente importante in un momento dell’anno, la fine dell’inverno, in cui c’era meno disoponibilità di verdura fresca e fonti di vitamina. Al contrario, attualmente ciò di cui più il corpo risente è la carenza di un elemento che già nell’Ayurveda o in medicina cinese viene abbinato al potere disintossicante delle erbe di primavera. Sono le erbe come il tarassaco, o dente di leone, l’ortica e l’aglio orsino che da secoli venivano raccolte nei campi e per tempo immemorabile sono state protagoniste nella cucina di primavera, svolgendo un ruolo importante perché oltre che nutrimento e fonte di vitamine, aiutavano la depurazione dell’organismo e la pulizia dell’intestino. Oggi viviamo sempre più lontani dalla natura, per questo la raccolta delle erbe selvatiche di primavera, un tempo così comune, è diventata una pratica dimenticata. Tuttavia, dagli studi emerge che il livello di zuccheri presenti nel nostro sangue presenta un aumento preoccupante e altrettanto preoccupante nella nostra alimentazione è la carenza delle erbe amare e del loro potere detossinante.

Alliaria

Se avvisti questa pianta spontanea prova stropicciare leggermente una delle sue foglie fra le dita. Sa di aglio, vero? Si chiama alliaria ed è un’altra delle erbe di primavera buona da mangiare. Puoi pestare le foglie o sminuzzarle e usarle per l’insalata o la bruschetta.

Trifoglio

La fioritura del prunus

In Giappone la fioritura dei ciliegi, chiamata sakura, è uno spettacolo che diventa rito collettivo. La parola hanami letteralmente rimanda all’azione del “guardare i fiori”, un gesto di attenzione: un atto di comtemplazione trasformato in rito collettivo. Sulle montagne dell’Appennino fiorisce il genere prunus, che comprende oltre trecento specie di piante. Fiorisce il ciliegio e insieme a lui l’amareno, da cui nasceranno, all’inizio dell’estate, piccoli frutti rossi dal sapore aspro. Da bambini, in vacanza sui monti, raccoglievamo con le nonne le rosse amarene, che venivano coperte con alcol e zucchero per farne barattoli da lasciare sui davanzali al sole, che sarebbero diventati doni per le mamme e i papà, in attesa del loro arrivo in agosto, all’inizio delle ferie.

Orchidea selvatica

Il periodo migliore per vederla è maggio, anche se in luoghi come la Sardegna è facile avvistarla anche in marzo: l’orchidea selvatica.

Muscari neglectum

Cerastium peverina

Farfaraccio

Osservare un fiore nel tempo è una riflessione sul cambiamento. Alcuni fiori non sembrano gli stessi, a distanza di qualche giorno o settimana. Ma in fondo non succede anche a noi? Ci trasformiamo, giorno dopo giorno. Siamo sempre gli stessi, ma anche nuovi, ogni istante, anche se non ci facciamo caso o non ce ne rendiamo conto.

Anemone dei boschi

Attenzione all’anemone…

Bellissimo, ma velenoso.

Anemone giallo

Myosotis, non ti scordar di me

Erba di san Lorenzo o bugola

Ha tanti nomi lei: erba Lorenza o erba di san Lorenzo, bugola, morandola, ma il suo nome scientifico è Ajuga reptans. Assolutamente non per uso interno a meno che non si tratti di integratori preparati da professionisti perché possiede un’azione epatotossica, un tempo le sue foglie venivano raccolte e strofinate sulle ferite infatti ha proprietà cicatrizzanti.

In attesa dell’estate…

Fragaria, fragola

Che meraviglia le piccole piante di fragoline di bosco: è la fine di aprile e quest’anno stanno spuntando ovunque. Non sempre accade perché dipende anche dall’umidità.

Nel mese di giugno le fragoline selvatiche sono facili da trovare nel folto del bosco, ma anche fra i prati e ai bordi dei sentieri tra ombra e sole. Si possono raccogliere e congelare o… mangiare fragola dopo fragola, magari con un cucchiaio di gelato. C’è un vecchio film del 1957 che parla di ricordi d’infanzia, tempo e cambiamento:Il posto delle fragole“, scritto e diretto da Ingmar Bergman girato in Svezia vicino alla città di Lund.

“La verità è che io vivo sempre nella mia infanzia, giro negli appartamenti in penombra della mia infanzia, passeggio per le silenziose vie di Uppsala, mi fermo davanti alla Sommarhuset ad ascoltare l’enorme betulla a due tronchi. Mi sposto con la velocità di secondi. In verità, abito sempre nel mio sogno e di tanto in tanto faccio una visita alla realtà”
Ingmar Bergman

Margheritina o pratolina

L’arte del vedere

Vedere è un’arte, sai? Sì, perché non basta vedere o poter vedere: saper vedere è un allenamento e un’ispirazione, va coltivata ogni giorno e quanto spesso ce ne dimentichiamo. A vedere si impara, ecco perché si tratta di un esercizio quotidiano. Nella storia della medicina i casi di chi ha potuto vedere grazie a un intervento chirurgico ci hanno fatto scoprire che fenomeni come la prospettiva non sono un fatto scontato bensì una costruzione: noi vediamo con il cervello e la nostra vista si allena nel tempo. La visione che abbiamo, del mondo e anche di noi stessi, delle forme, dei colori e di come percepiamo le cose è il risultato di tanti fattori: del nostro carattere e delle nostre unicità, della cultura che respiriamo e della storia in cui siamo collocati. È il nostro universo di senso. Se ci fermiamo su questo pensiero – il modo in cui ognuno di vede è unico – allora può accadere un’incredibile rivoluzione e a partire da questo possiamo persino iniziare a costruire la nostra visione, che non ha solo a che fare con la vista perché diventa il modo che abbiamo per chiederci quali sono i nostri sogni, le direzioni in cui ci interessa andare, la strada che stiamo percorrendo giorno dopo giorno.

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Incontrare la morte

Si muore, accade ogni attimo. Eppure non ci pensiamo, non ci pensiamo mai altrimenti forse impazziremmo. Come si spiega la morte ai più piccoli?

~ una volpe. Dorme? sì, una volpe. Non sta dormendo, è morta.

~ posso toccare? no, meglio di no

~ posso vedere? Posso vederla da vicino?

~ perché non va via?

perché è morta. Non può andare via.

Allora si volta e mi guarda ~ cosa succede quando muore?

Quando si muore succede che si lascia il corpo. Il cuore smette di battere. Il corpo si ferma dove si ferma il cuore, è rimasto qui.

~ perché ha gli occhi aperti?

Perché mentre moriva aveva gli occhi aperti.

~ è una volpe piccola. La sua mamma dove sarà, viene a cercarla. Guarda, ha la bocca aperta e si vedono i denti. Perché ha la bocca aperta?

~ perché quando si muore si respira, così. Ssss. Si espira. L’ultimo respiro ritorna nell’aria. Il cuore si ferma, il corpo si ferma e il respiro esce, vola via.

~ e dove va?

nessuno lo sa. Forse verso l’alto insieme al cielo e alle nuvole, forse diventa aria che respiriamo noi e gli alberi, terra e bosco. Aria e vento, leggeri e liberi

Senti. Adesso fermiamoci un attimo. Prendiamoci per mano e salutiamo la volpe. Respiriamo un attimo così. Inspiriamo e poi soffiamo via il nostro respiro. Anche i nostri respiri sono aria e ritornano all’aria.

Guardiamo la piccola volpe.

buon viaggio, volpe. Il tuo corpo è qui, ti auguriamo che il respiro del tuo spirito sia in cammino, libero e leggero

~ con la sua mamma. E di’: che non arrivano i cacciatori, ma persone buone tornano a accompagnarle

E che persone buone tornino ad accompagnarvi

~ e che arrivate in un bosco grandissimo, senza neve. Senza neve, con il sole. Aggiungi.

Buon viaggio, piccola volpe. Ti auguriamo che la tua mamma torni a prenderti e che non incontriate i cacciatori, ma persone buone che vi trovino e possano accompagnare verso un grandissimo bosco, dove l’inverno sia già passato, una radura piena di fiori, alberi e del tepore del sole, dove giocare libere.

Mentre lo diciamo, un raggio di sole arriva e illumina la piccola volpe e la neve intorno che filtra dall’ombra dei pini. Le minuscole, infinite minuzie, piccole cose incredibili che mi stupiscono dell’esistenza. Allora sorridiamo, davvero un po’ sorpresi.

Ecco, hai visto? Un raggio di sole, proprio come avevi tu. Dentro c’è nonno T, anche lui accompagnerà la piccola volpe come le persone buone che gli hai augurato di incontrare. Perché le cose belle, le sorprese improvvise, gli arcobaleni e le farfalle portano l’anima delle persone a cui vogliamo bene. Quando le persone muoiono continuano a mandarci una carezza, ovunque siano, trovano il modo di farci sentire vicini, ancora.

~ perché la volpe è morta? perché si muore?

Questo non lo sappiamo.

Stamattina siamo usciti per fare una passeggiata. Camminavamo senza meta, osservando i fiori di primavera che spuntano dal ghiaccio; il giallo delle prime quattro primule fra le radici contorte dell’albero di amarena. Poi, prima della pineta l’abbiamo vista: una volpe, bellissima. Stava distesa sulla neve, come fosse addormentata. Addormentata in un momento di neve. Non c’erano tracce di sangue, forse se fosse stato un lupo l’avrebbe divorata. O del fucile di un cacciatore sarebbe rimasta una traccia. Invece no, nulla. Solo una volpe immobile nella neve. Allora ci siamo avvicinati. Il primo impulso è quello di aggirare e andare lontani. È sempre un colpo al cuore quando si vede la morte, non importa come e quando accade. Viviamo sempre più lontani dalla morte; non cacciamo gli animali che mangiamo, la maggior parte di noi. Le malattie e la morte sono diventate un fatto d’ospedale, igienico e non visto: raramente ora guardiamo nelle bare o diamo l’ultimo saluto, anche quando il tempo per farlo ci sarebbe. Eppure, la morte esiste. Anche per i bambini, anche fra i bambini. Ai bambini a cui è permesso vivere a contatto con la natura capita ancora così, di incontrare la morte su un sentiero. Il primo contatto con la morte avviene nell’universo misterioso del piccolo, in cui Natura crea la legge del suo filo di vita nel fluire incessante e imperscrutabile. Nel microscopico di sottoboschi e fondali marini come accade nell’infinitamente grande, fra galassie, scoppi di stelle e buchi nero. Nel piccolo come nel grande e nel grande come nel piccolo. La vita si impara anche così, attraverso la morte. Osservando la fine.

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