3 giugno

Sul transatlantico Cristoforo Colombo

La Storia è un posto incasinato dove tutto accade contemporaneamente. Siamo noi la mappa, è scritta e arrotolata dentro a un DNA infinito. Siamo storie nella Storia: viaggiamo attraverso lo spazio e non siamo altro che viaggiatori del tempo, persi nella geografia del nostro divenire…

3 giugno 1960
Genova – New York andata e ritorno

Nata nel 1904 a Batna, in Algeria, lei vede il mondo all’alba di un nuovo secolo, che ormai per noi è già il passato. Tu immagina solo per un attimo, se puoi, la guerra, l’amore, gli anni della ricostruzione: sappiamo così poco, in fondo, della vita di chi ci ha preceduto, e quasi nulla dei loro pensieri, dei dubbi, degli amori e delle delusioni, dei sogni giovanili e di quello che ne è stato.

E poi eccola, un giorno, sembra quasi di essere lì. Una figura piccola e sottile, perché lei era così, una donnina da nulla con una grande forza. Il vento in faccia che scompiglia i capelli; il ponte nell’ora silenziosa del dopo pranzo, quando l’azzurro accecante punge gli occhi con il luccichio delle onde e la gola pizzica di libertà. I giorni della guerra sono passati, sotterrati i morti di ieri anche se ieri non passerà mai, no, non potrà capirlo mai chi non ha vissuto una guerra, come ti sa cambiare la morte e come ti può trasformare l’orrore, la morte in faccia di chi conosci, la morte che esplode e dissangua. Davanti adesso c’è un mondo da immaginare di nuovo.




Siamo bellissimi e nessuno ce l’ha mai detto

Appunti sul Tempo di Maddalena De Bernardi

Siamo bellissimi e nessuno ce l’ha mai detto

Diciamo ai bambini di essere “bravi”, di fare i bravi. Ma in realtà nessuno di noi è bravo o non-bravo. Siamo tutto, siamo tutti. La parola “gentile” in origine significava “appartenente alla stessa famiglia”, ecco se pensiamo di appartenere a un’unica famiglia forse possiamo diventare più gentili. E non si tratta solo dell’umano. Apparteniamo alla tribù, così variopinta, così diversa nelle forme e nella manifestazione, che si trova qui in viaggio sul pianeta Terra.

Siamo alberi, siamo pioggia e fiume, siamo mare, siamo umani, siamo tigre, siamo lepre. Siamo sogni, siamo attesa, amore, passione, rabbia. Quando siamo gentili è perché vediamo la bellezza dentro l’altro che siamo noi e ci ricordiamo che apparteniamo tutti alla stessa grande famiglia di viaggiatori in questo immenso sconosciuto universo.

Riflettevo tempo fa, abbiamo questa idea di dover tirare fuori il meglio da noi stessi e dal mondo. Invece basterebbe vedere quanto siamo già tutto questo e oltre, altro.
Eravamo bellissimi, quando abbiamo iniziato a percorrere questa strada, appena precipitati su questa sfera azzurra chiamata Terra.
Siamo bellissimi e nessuno ce l’ha mai detto.




Che cosa voglio fare del mio tempo?

Sarebbe bello imparare il non-fare nel fare. Allora potremmo lavorare e pulire, cucinare o passare l’aspirapolvere con la stessa leggerezza di quando i bambini lavano le tazze della colazione giocando con l’acqua per mezz’ore intere. Potremmo dipingere, cucire, pettinare, sbrogliare, saltare, sguazzare, senza occhio per l’orologio. Potremmo perdere il tempo, goccia dopo goccia, e poi miracolosamente, ritrovarlo. Nell’istante in cui tutto accade improvvisamente la perdita si ricostituisce e la ferita, come insegna la colata d’oro dell’arte kintsugi, diventa esperienza: nel tempo dell’attesa lavora il desiderio, nel tempo di dipana il filo dell’esistenza.

La domanda è questa e non ci sono scappatoie. Che cosa voglio del mio tempo? Perché le cose da fare sono tante, è vero; sono tante anche quelle che sembrano belle, buone giuste. Eppure non c’è tutto il tempo del mondo: non avrai tutto il tempo del mondo, nessuno di noi lo ha.

E allora succede di doverci pensare e riflettici bene, sul tuo tempo, perché ne va del filo che intesse la vita intera. Inseguilo quel filo, tienilo fra le dita e guardalo.

Dove mi porta il filo del tempo? Nel Taoismo wu-wei è “non-azione”. Le cose verranno a noi, dicono i saggi di ogni tempo in tutto il mondo: tutto arriva al momento giusto, né prima né dopo. Ciò che non è affatto semplice, invece, è l’attenzione. Un po’ come quelle ragazze nella notte, raccontate in una pagina antica della Bibbia cristiana, che attendono lo sposo; attendono con una lampada e dell’olio, ma se ne usi troppo, al momento sbagliato, non ci sarà per l’attimo fatale in cui servirà. C’è sempre un attimo fatale, in cui all’improvviso ti devi svegliare e alzare: il momento catartico in cui esserci, non si sa quando ed è per questo che dobbiamo stare svegli.

Io me l’immagino così. In piedi, nella notte. Non vedi là fuori, cosa accade nell’oscurità: è il buio della coscienza. Attendi. Sai di avere una luce, è lì accanto; ce l’hai dentro. Per qualcuno sarai la luce, un faro nella notte: qualcuno lo è stato per te. Poi c’è l’attimo decisivo in cui la fiamma inizia a brillare, si sveglia la consapevolezza ed ecco che accade l’incontro con l’altro, che hai sempre sognato di incontrare. L’altro che in fondo sei tu, null’altro che Tu

Che cosa significa “attendere”? Che cosa facciamo mentre aspettiamo? Oggi mi hai detto di sentirti – molto triste, quando papà è al lavoro. Anche a me dispiace quando non c’è, ho risposto io. Davvero, davvero anche a te dispiace? Mi hai chiesto tu, con la faccia dipinta di sorpresa. Certo. Al tempo stesso so che a volte si seguono strade diverse per poi ritrovarsi; si fanno altre cose, si sta da altre parti: poi ci si incontra di nuovo e sarà bellissimo fare nuove cose insieme, portando quelle incontrate su altre strade e direzioni. Come barche esploratrici, come ataviche tartarughe marine nella corrente, seguiamo il flusso: andiamo, alla scoperta. Ogni giorno.

Ogni giorno è un viaggio che non conosco.

Intanto, cosa si fa quando si aspetta? Si fa o non si fa? Un concetto antico, che abbiamo perso, è quello della veglia. Le ragazze di quel racconto biblico vegliavano, nella notte. Le donne un tempo vegliavano spesso, nelle lunghe ore di buio invernale. Si diceva perfino, nel linguaggio popolare, “andare a veglia”, a vejgghh, nel dialetto di queste montagne dell’Appennino. “A veglia” si ricamava e cuciva, ci si incontrava e si aggiustavano le cose rotte, anche i rapporti; ci si fidanzava e ci si conosceva, si passava tempo insieme, gomito a gomito. Ecco, il tempo: forse era il tempo la ragnatela che stava dietro a questo filare, di parole e di ore. Oggi la parola passatempo è quella più vicina e che ha sostituito il concetto antico della veglia, ma il passatempo è spesso solitario e dentro ha questo “passare” che finisce un po’ per sfilacciare il tessuto del tempo, invece di rafforzarlo.

Wu-wei è “quando agire, quando non agire”. Il cinese Lao Tzu, considerato il fondatore del Taoismo, ha scritto: «Ecco come bisogna essere! Bisogna essere come l’acqua. Niente ostacoli – essa scorre. Trova una diga, allora si ferma. La diga si spezza, scorre di nuovo. In un recipiente quadrato, è quadrata. In uno tondo, è rotonda. Ecco perché è più indispensabile di ogni altra cosa. Niente esiste al mondo più adattabile dell’acqua. E tuttavia quando cade sul suolo, persistendo, niente può essere più forte di lei». Allenarsi a stare in questo significa allenarsi a stare nella condizione che in cinese è ming, “chiarezza”. Come l’acqua del fiume: quando ci metti i piedi dentro e allora devi fermarti un attimo e attendere che la polvere si posi per vedere di nuovo chiaro.

Sarebbe bello imparare il non-fare nel fare. Allora potremmo lavorare e pulire, cucinare o passare l’aspirapolvere con la stessa leggerezza di quando i bambini lavano le tazze della colazione giocando con l’acqua per mezz’ore intere. Potremmo dipingere, cucire, pettinare, sbrogliare, saltare, sguazzare, senza occhio per l’orologio. Potremmo perdere il tempo, goccia dopo goccia, e poi miracolosamente, ritrovarlo. Nell’istante in cui tutto accade improvvisamente la perdita si ricostituisce e la ferita, come insegna la colata d’oro dell’arte kintsugi, diventa esperienza: nel tempo dell’attesa lavora il desiderio, nel tempo di dipana il filo dell’esistenza. Siamo, in ogni istante. Anche quando lo dimentichiamo, credendo di attendere qualcosa o qualcuno. Sei adesso. Anche il tempo è adesso, lo tieni in una mano: a ogni respiro lo soffi via e te lo riprendi, con una magia che è la vita stessa.

“Pensi di poter prendere il controllo dell’universo e migliorarlo?
L’universo è sacro.
Non puoi migliorarlo.
Nella ricerca della conoscenza, ogni giorno guadagniamo qualcosa. Nella ricerca del Tao, ogni giorno perdiamo qualcosa.
Facciamo sempre meno finché non raggiungiamo la non-azione.
Il Tao rispetta la non-azione, eppure nulla rimane incompiuto”

Lao Tzu




Calendimaggio

Calendimaggio, o cantar maggio: è la festa del primo maggio che, in alcuni luoghi, si festeggia nei giorni immediatamente seguenti. Una festa antichissima quella di Calendimaggio, già presente nel calendario dell’antica Roma. Nell’Europa del Nord, dall’Irlanda alla Germania, era la festa gaelica di Beltane, che astronomicamente è l’opposto del giorno dedicato ai morti, in autunno.

Dall’irlandese Lá Bealtaine e dallo scozzese Là Bealltainn, Beltane o beltaine: “fuoco luminoso”, da accendere durante la notte fra il 30 aprile e il primo maggio.

Quante le feste dei falò che accendevano le notti nelle campagne: in ogni parte d’Europa, in parte per ripulire la terra in un momento in cui ancora non c’è il rischio di incendi, quando l’inverno è ancora alle spalle e la primavera sulla porta, in parte, simbolicamente per salutare un nuovo inizio. Maggio è il tempo delle nuove nascite, il tempo delle piogge e delle ultime nevicate, in montagna: tempo per l’orto e di attesa. Mai come adesso, con il potere degli acquazzoni e del sole che diventa ogni giorno più forte, la natura si rigenera e le foglie nei boschi sfoggiano un colore di un verde così giovane e intenso che entra nel cuore.

Primo maggio, Calendimaggio: non sempre lo ricordiamo ma c’è stato un tempo in cui bruciavano falò nella notte e sotto la luna
si cavalcava sul dorso di una lepre fino ai monti sacri. Come il monte Brocken in Germania e le montagne italiane dell’Appennino.
Per onorare la luna e la nuova luce, accogliere la primavera. E con la primavera il nuovo anno. Che un tempo l’anno iniziava ora, con l’aria che si faceva dolce e i semi pronti a nascere, le piogge forti e il sole sempre più forte. Dopo i mesi passati al focolare, nuovi giorni di là da venire in cui tornare a lavorare la terra e stare all’aperto, portare il gregge nei pascoli più alti e attendere il periodo dell’anno in cui la notte è più chiara e luminosa.

La notte di Valpurga

La festa di Beltane con la diffusione della religione cristiana verrà sovrascritta dalla notte di Valpurga, il cui nome deriva da Valpurga di Heidenheim, monaca bavarese dell’VIII secolo canonizzata dalla Chiesa Cattolica e venerata il primo giorno maggio. Fu badessa nel monastero di Heidenheim, in Baviera, ed ebbe due fratelli, entrambi santi (!): sembra che il padre fosse il nobile san Riccardo d’Inghilterra.

Ma la santa e la notte di Valpurga non riescono del tutto a cancellare il potere di un femminile ancestrale: un potere capace di affascinare e incutere timore come gli sconquassi delle burrasche di primavera e della luce del sole che senza che si sappia esattamente come, ci abbraccia e sparisce ogni volta a suo piacimento. Secondo tradizioni antiche durante la notte fra l’ultimo giorno di aprile e il primo di maggio le streghe uscivano dai loro rifugi e si incontravano nei boschi per danzare in onore della Luna. A citarle è anche Goethe nel suo dramma in versi Faust, pubblicato nel 1808.

Arrivavano lì galoppando, minuscole, una lepre, animale sacro e notturno, volando su oggetti rimasti nell’immaginario come la classica scopa di saggina o persino grazie al potere dei sogni, viaggiando con l’immaginazione

Si incontravano nel folto della foresta e sul monte Brocken ballavano il sabba, che in lingua basca era conosciuto come akelarre. Sabba è una parola che nessuno sa esattamente cosa significhi, ma ha un’assonanza con il termine ebraico shabbat e infatti, di solito, aveva a che fare con un convegno segreto che si teneva il sabato notte. Sembra che il termine compaia per la prima volta nelle carte di un processo di metà del Quattrocento, registrato dai tribunali francesi. Chissà come li chiamavano loro, questi incontri segreti, questi balli notturni illuminati dal potere delle stelle e della luna: forse non avevano nome, come tutte le cose belle che non hanno bisogno di essere chiamate o catalogate.

Sul monte Brocken in Germania

Da settembre a maggio sul monte Brocken c’è la neve e spesso una nebbia così fitta che non si vede a un palmo di naso, sarà forse per questo che fosse il luogo preferito, così nascosto e discreto, da queste donne antiche, che arrivavano lì galoppando, minuscole, una lepre, animale sacro e notturno, volando su oggetti rimasti nell’immaginario come la classica scopa di saggina o persino grazie al potere dei sogni, viaggiando con l’immaginazione. Oggi il monte Brocken, che si trova nella catena montuosa dell’Harz, ricco di boschi e giacimenti minerari (il nome, letteralmente significa “foresta”) è parco nazionale e ospita un giardino botanico inaugurato nel 1890 di piante di montagna. C’è un piccolo treno a scartamento ridotto a condurre i visitatori fino lì, dove si trova una vecchia torre televisiva che ora è utilizzata come osservatorio ma un tempo, all’epoca della costruzione del Muro di Berlino, venne utilizzata dalla polizia segreta della Germania dell’Est, la Stasi, come centro di spionaggio. Ancora prima, il Brocken e la sua stazione meteorologica, vennero bombardati dagli Alleati, il 17 aprile 1945. I danni furono ingenti ma la torre televisiva si salvò: era stata la prima al mondo a essere costruita, proprio qui, su queste montagne, la prima a portare in diretta televisiva l’Olimpiade di Berlino del 1936.

La notte di Valpurga in Svezia

Nella città universitaria di Uppsala, nelle vicinanze di Stoccolma, il 30 aprile, sista april o Valborgsmässoafton, si fa colazione con un bicchiere di champagne e verso le dieci di mattina si va sulle rive del fiume per il tradizionale appuntamento con forsränning. Gli studenti discendere le rapide del Fyrisån, chiamato anche Full o fiume Sala, a bordo di zattere allegoriche, costruite da loro stessi nelle settimane precedenti. Poi si pranza con il buffet tipico, sillunch, con il meù della tradizione e aringhe. Sala era l’antico nome del fiume, che in seguito fu cambiato, per l’esattezza fra 1600 e 1700, in onore della pianura paludosa di Fyrisvellir, a sud del villaggio di Gamla Uppsala.

Anticamente, i viaggiatori per raggiungere il tempio e la residenza del re di Svezia, situati a Gamla Uppsala, dovevano lasciare le imbarcazioni e proseguire a piedi. La parola, dalla lingua norrena, Fyrva fa riferimento al “rifluire” e alle inondazioni che periodicamente sommergevano la piana d’acqua. L’area poi fu bonificata e oggi le navi possono risalire il fiume Fyrisån dal Mälaren, il lago in cui sfocia, vicino alle sponde del mar Baltico, fino alla città di Uppsala, dove due chiuse impediscono un’ulteriore risalita. Durante l’ultimo giorno di aprile già un secolo fa gli studenti tentavano l’impresa di risalire il corso del fiume con le zattere e si ritrovavano, dopo pranzo, in Carolinabacken indossando il berretto universitario tradizionale, lo studentmössa, bianco con visiera nera, per suonare e intonare canti tradizionali di primavera. Ancora oggi lo mösspåtagning, quando il rettore si affaccia da una finestra agitando il berretto e tutti lo agitano con lui in segno di saluto, viene trasmesso dalla televisione svedese. La stessa tradizione viene ripetuta ogni anno anche nell’università di Stoccolma, Göteborg e Linköpin, dove ci si ritrova nel cortile del castello cinquecentesco, accompagnati dal coro.

Calendimaggio in Italia: Assisi

Nella città di Assisi si celebra Calendimaggio e il ritorno della primavera con una festa che rievoca le feste e gli usi degli Umbri, l’antico popolo che un tempo abitava le terre della valle del Tevere fino al mar Adriatico, che Plinio il Vecchio commentava come la popolazione più antica d’Italia, i quali, riporta nella Naturalis Historia, che sarebbero stati chiamati Ombrici dai Greci perché sopravvissuti alle piogge quando la terra fu inondata. Sulle tavole eugubine, in bronzo, ritrovate nel territorio di Gubbio nel Quattrocento e oggi conservate nel Palazzo dei Consoli della città, sono descritti in una difficile lingua che mescola umbro e latino, alcuni riti dell’epoca. Gli umbri credevano nella dea della terra Cupra e nella triade divina Ju-pater, Mart, dio della guerra e Viofonus, equivalente del latino Quirino.

Simboli di maggio sono le viole, le rose e l’ontano, di cui i Maggerini trasportavano un ramo dove appendere doni. Intorno agli ontani, alberi sacri, si ballava e cantava. Per l’equinozio di primavera in Romagna si festeggiava la Fogheraccia e i riti del nuovo anno, che per molti popoli della Terra iniziava con la primavera.




La lezione del tarassaco

Torna ad affacciarsi signora Primavera ed ecco che nel giro di una settimana ci fa girar la testa, di nuovo. L’avevamo scordato il profumo dei fiori nell’aria e all’improvviso i colori, così chiassosi e ribelli. Poi d’un colpo, in una notte e un giorno, appare il tarassaco. Ed è giallo, per un attimo, tutto il mondo.

C’è una cosa che ci insegna il tarassaco ed è
il senso della trasformazione: nulla accade se non accade prima dentro

La parola ‘cambiamento‘ viene dal greco antico: trova le sue radici nel verbo kamptein, che significa “curvare, piegare, girare intorno”.
Il cambiamento ti capita fra capo e collo,
è un tormento a volte, o
un ostacolo;
spesso non lo decidi, anzi forse quasi mai capita di darsi a lui in piena consapevolezza. Si tratta di un colpo di testa, al meglio delle ipotesi. Oppure, appare fugace e perentorio come un mal di schiena, il mal di pancia, il trasloco, la fine del lavoro, o un contratto stracciato: il cambiamento ti prende alla sprovvista.
Mica sempre è brutto, sai. Il cambiamento può anche essere una cosa bella: un lavoro nuovo, sposarsi, cambiare casa, il cane, un figlio, un dipinto appena fatto, la cosa che non sapevi di saper fare, una passione appena trovato, la fresca idea di un nuovo progetto. Eppure fa sempre un po’ paura, perché il cambiamento è così: ti affacci ed è sempre al di là del parapetto: al di là delle tue intenzioni, possibilità, al di là del noto per l’ignoto c’è questo tuffo nel pozzo buio del non-so.
Il cambiamento
è qualcosa che si mette sulla nostra strada e ci costringe a
girare la testa, il collo verso una nuova
direzione, che non è quella abituale. Ecco, la radice dolorosa e miracolosa del cambiamento: esce dall’abituale, ci costringe. Ci butta fuori di casa anche quando fa freddo, ci sposta di peso e a volte non risparmia un calcio, ci sprona e se serve costringe. E allora succede: lentamente accade. Muovo, mi muovo di nuovo
lentamente
prima il collo, poi gli occhi. Ci vuole un attimo per abituare lo sguardo, focalizzare l’orizzonte. Sempre è necessario il momento in cui tornare a metter(si) a fuoco: una vecchia storia scovata in un deserto africano l’aveva narrata al mondo dicendo che è il tempo di cui abbiamo bisogno perché l’anima ci raggiunga, affinché lo spirito delle nostre radici profonde raggiunga il posto in cui abbiamo camminato. Sì, perché dove ci troviamo, il punto in cui siamo nel presente, non sempre corrisponde al luogo in cui siamo rimasti, con il cuore o con la mente.

Il punto in cui siamo nel presente non sempre corrisponde al luogo in cui siamo rimasti, con il cuore o con la mente: ci vuole tempo, ecco il difficile viaggio del cambiamento

Prendo la curva, mi piego. Mi costringo, fanno male le ginocchia: le giunture, come le chiamavano, perché quelle segnano il punto del collegamento mancante; fra le due ossa non c’è più un ponte, mi manca la connessione. Devo fare un salto.
Trovo un altro sguardo,
un’altra direzione.

La trasformazione no,
è un’altra cosa, a dirlo è la parola stessa. Il termine ‘trasformazione’ viene dal latino: trans-forma, “attraverso la forma”.
La trasformazione viene da dentro.
È questa la lezione di coraggio del tarassaco, lui che nasce sole,
con mille braccia gialle
e diventa vento, soffione leggero destinato a disperdersi nell’aria lanciando in giro semi e desideri. Nulla accade se non accade prima dentro, ecco la lezione dentro la metamorfosi del tarassaco: se fai attenzione, se ci guardi bene bene, tutto è già lì. Tutto è cambiamento perché si trasforma, impercettibilmente, ogni momento. Attimo dopo attimo, anzi attimo per attimo. Attraverso l’attimo. Il tempo ci scorre addosso e ci vive da dentro.

La realtà
cambia
quando
si trasforma
il mondo dentro.
Allora sì, che là fuori
mille impronte gialle
diventano strade nell’aria.

In viaggio dalla terra al cielo e dall’aria alla terra, di nuovo, i semi di ciò che agiamo diventano pensieri che si fanno azioni e viceversa. Come i semi del tarassaco di cui è buono tutto, dalle foglie amare che in montagna si mangiano nell’insalata o cotte in padella sulla stufa, ai petali gialli da bere nell’infuso. Nel giro di una sera e una mattina i prati si ricoprono di giallo, di nuovo. Soffiamo nell’aria i nostri desideri, credevamo di averli persi a un certo punto

e invece, eccoli lì. Sono fioriti i nostri pensieri. Si sono fatti colore. Noi non ce n’eravamo accorti, non ci facciamo mai caso, eppure sono sempre stati lì, intorno a noi: ad aspettare nel buio, attendere un varco, resistere al difficile e nutrirsi del domani, bere le tempeste e scoprire la luce dove non c’era. Il tarassaco ci insegna a soffiare via i nostri desideri, con tutte le nostre forze, lanciare i nostri sogni al mondo. E poi ritrovarli, dentro.




Primi giorni di primavera

Un uccellino dal 21 marzo, primo giorno di primavera, gira per tutte le case e da due giorni ci sveglia battendo forte il becco sul vetro della finestrella accanto a noi. Tu ieri hai spalancato gli occhi e sei rimasto un po’ lì ad ascoltare il silenzio, che cos’è questo rumore? È di nuovo quell’uccellino che batte sul vetro. È un batticosa, nero e bianco, veloce, che si nasconde fra i comignoli e poi torna a volarci addosso.

All’improvviso i prati si sono ricoperti di primule gialle e qualche crocus, cresciuti a macchie qui e là, insieme a violette minuscole, più rare e dal colore intenso. Il rosmarino non è ancora sbocciato ma lo farà a breve, lo so e appariranno i suoi fiori azzurri mentre lentamente, giorno dopo giorno, svaniscono i bucaneve che mi lasciano con la malinconia di saperli attendere per il prossimo inverno e la gioia di una nuova stagione che si apre.

Abbiamo visto il primo albero in fiore, un pruno selvatico ricoperto di mille fiori rosa. Primavera, mi hai detto tu stamattina, in spalletta da dove guardavi il mondo.

Dopo 252 anni, 252, il Parlamento della Scozia abolisce la caccia alla volpe.




Perché tenerci stretta la malinconia

I paesaggi della malinconia sono come certe giornate d’autunno o di inizio primavera, quando la pioggia e il sole si scambiano di posto velocemente e l’aria è ancora fredda. La malinconia è dentro un tramonto, ma a volte anche dentro a certe albe seppur piene di luce e bellezza. Perché proprio con la luce e la bellezza si mescola l’ombra della malinconia: è nebbia, non di quelle dove non si vede nulla; assomiglia di più a quella foschia leggera che annebbia l’anima e i pensieri con un non so che dolciamaro. Sì, questa parola esiste, dolciamaro, e mi sembra bellissima perché unisce il dolce all’amaro, piacere e dolore insieme, l’ombra e la luce, allegria e tristezza, proprio come il sentimento complesso della malinconia.

Una decina di anni fa Justin Feinstein, dell’Università dello Iowa negli Stati Uniti, ha condotto una ricerca selezionando un gruppo di dieci persone, fra cui cinque affette da forme di amnesia antrograda a causa di danni all’ippocampo e alla memoria a breve termine, connessa con la memoria spaziale e con l’incapacità di formare nuovi ricordi. Alle persone sono state mostrati dei video con scene tratte da film emotivamente intensi: dopo la visione degli spezzoni i ricercatori hanno testato la “temperatura emotiva” e le reazioni dei soggetti coinvolti nell’esperimento. Il risultato? Le persone colpite da amnesia rimanevano tristi più a lungo rispetto agli altri, pur senza sapersi spiegare il motivo. L’esperimento è stato ripetuto con la visione di film allegri, tuttavia è stato registrato che nel primo caso la condizione di tristezza mostrava una lunghezza più importante.

Non è qualcosa a cui dovremmo fare molta più attenzione? A volte per superare brutti periodi, disavventure o momenti tristi vorremmo lasciarci tutto alle spalle con una scrollata di spalle. Pensiamo che resilienza sia andare avanti, sempre avanti eppure dimentichiamo una caratteristica fondamentale della resilienza (oltre all’ovvio fatto che noi esseri umani non siamo metalli): il ritorno alla forma originale dopo un urto o una sollecitazione presuppone comunque una deformazione, un cambiamento. Non torniamo mai le stesse persone che eravamo: ogni attimo ci trasforma, ogni passo dentro al viaggio del tempo. E non parliamo sempre e solo di traumi, parliamo di cicatrici e vita, cadute, ginocchia sbucciate, parliamo di salite e rincorse, discese a perdifiato, di tuffi e voli, del cuore in gola e dei sogni che abbiamo dentro.

Allora teniamocela stretta la malinconia, come piccole perle da infilare nelle collane del Tempo che passa e fluendo ci fa danzare come foglie al vento. Teniamoci stretti i giorni di nebbia e le piogge improvvise, quando stare a occhi aperti a sentire le gocce sul tetto e contare ogni istante, che poi finiranno per passare veloci anche quelli che sembrano immobili. Teniamoci stretti la luce opaca dei grigio e del bianco, di certe mattine del lunedì o di una domenica al rallentatore, fra divano e copertina. Sì, la malinconia sembra nutrirsi di un senso di immobilità, è la magia del Tempo che si ferma ma solo per un attimo. E per un attimo riporta istantanee che credevamo perdute, un profumo dimenticato, il gesto di una persona lontana da tanto, l’angolo di una stanza in cui siamo passati che ormai sono anni, come le targhette con scritto il cognome sulla porta di una casa abitata una vita fa, oggi scomparsa. Ecco, la malinconia è come un’onda e, quando abbiamo il coraggio di restare lì in attesa e chinarci in ginocchio davanti all’oceano del tempo, come per magia appaiono relitti che si pensavano scomparsi, la coscienza ce li restituisce e per un attimo sono di nuovo lì, a ricordarci, forse, la bellezza sublime dei valori in cui crediamo nascosti nei piccoli dettagli, quelli che ci fanno alzare ogni mattina. Questo sì, è importante: ricordare a noi stessi cos’è che ancora ci sveglia e ci riporta in vita.