9 novembre

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Nove novembre 1944, liberazione di Forlì,
mia nonna paterna, che non ho mai conosciuto, portò con sé un prosciutto per nutrire i suoi cari (mio nonno, mia padre e mia zia) durante lo sfollamento. Tutti avevano fame, ma in campagna trovarono sempre qualcosa da mangiare, e mia nonna fu inflessibile nel difendere il prosciutto: quello sarebbe servito solo nel momento peggiore.
Il fronte si avvicinava, ma il momento peggiore poteva sempre essere il giorno dopo.
Alla fine il fronte passò… il momento peggiore non arrivò mai, o forse arrivò e mia nonna non lo seppe riconoscere.
Il prosciutto andò a male. Lieto fine e forse una morale da imparare da questa storia.

La foto qui fu scattata da un membro dell’equipaggio di un B-26, un certo Croote, sudafricano.
La casa dove sarei nato anni dopo, al Foro Boario di Forlì è sotto la nuvola bianca (al centro) sollevata dalle bombe appena cadute, ma i miei, e il prosciutto che andò a male, erano sfollati a qualche chilometro di distanza.
Luca Pazzi

8 dicembre

Chi è quello? mi aveva chiesto lui, otto anni
a te chi sembra?
Un ragazzo seduto
infatti. È quello che è, una persona seduta. A volte un uomo, a volte un ragazzo.
Sì, questo l’avevo capito. Ma chi è lui, veramente?
si chiamava Siddharta, è nato così tanto tempo fa che sembra incalcolabile, 2500 anni fa. La sua era una ricca famiglia di nobili guerrieri. Viveva in Nepal, in una vallata verde fra le montagne dell’Himalaya, in mezzo a quelli che sarebbero diventati Cina, India e Tibet, ma che ancora la storia non aveva diviso.

Siddharta, racconta la voce del tempo che fu, era nato in un bosco dal fianco di sua mamma Maya, una principessa bellissima e pura come sempre vuole la tradizione in questi casi. Dal fianco, una nascita speciale, un po’ come un cesareo d’altri tempi, e se anche lui è nato così pensiamoci a questi modi di venire al mondo, strani e meravigliosi, inconsueti, da raccontarci come inizio a una vita che è già avventura.

Insomma Siddharta cresce nello splendido palazzo di famiglia. Si sposa, a sedici anni, con la principessa Yasodhara, e insieme avranno il loro unico figlio, Rahula, che diventerà un grande saggio indiano. Ma a Siddharta manca qualcosa. Sente di non aver ancora afferrato quello che c’è da comprendere della vita. Non vuole diventare guerriero, la vita di palazzo non fa per lui.

Allora, un bel giorno il principe Siddharta se ne va. A ventinove anni esce di casa, dal suo bel palazzo dove la sua famiglia ancora dorme fra cuscini di raso e tappeti. Inizia un viaggio da cui non tornerà mai più. Perché mai torniamo uguali a noi stessi quando abbiamo il coraggio di andare via veramente. Siddharta cammina e cammina. Attraversa boschi e villaggi. Incontra la gente. Gli occhi della gente. Che vive, nasce, muore, ride, piange. Siddharta si ferma, a un certo punto. Si siede, così come lo vedi, seduto per terra fra le radici di un albero antico

a occhi chiusi
il respiro, va e viene
aria che entra, attraversa i polmoni e raggiunge ogni cellula del corpo
cuore che batte

in una notte di luna piena nel mese di maggio Siddharta, lì fermo sotto quel fico antico, incontra l’infinito, che nessuno sa descrivere a parole perché tutti possiamo scoprire com’è il silenzio solo quando attraversiamo la porta della nostra solitudine. Questa notte è accaduta 2500 anni fa a Bodh Gaya, una città dell’India dove ancora questo albero esiste. Ora lì c’è un tempio.
Siddharta, che da quel momento chiamarono Buddha, che significa “il risvegliato”, sarà ispirazione per tantissime persone in tutti secoli dopo, fino a oggi. Una persona seduta, tu, io, qualsiasi persona. Ci ricorda che c’è un momento in cui ti puoi fermare. E se ti fermi un attimo a contemplare la vita che scorre allora ti puoi puoi ricordare qualcosa che va al di là del tran tran quotidiano. È un lampo. Quello che forse in Occidente i poeti chiameranno sublime, la sensazione di appartenere a uno spazio molto più ampio e disteso. Come il mare quando guardi l’orizzonte. Quella sensazione che niente inizia e niente finisce e tu ci sei mezzo. E non là, è qui: dentro il respiro. Allora, ti svegli. Perché non si nasce solo una volta, si nasce tutte le volte in cui ti rendi conto che ti sei di nuovo RISVEGLIATO.

In Giappone il giorno 8 dicembre si celebra Rōhatsu, Giorno del Risveglio, in cui si ricorda il momento in cui Siddhartha Gautauma raggiunse l’illuminazione, conosciuta anche con il termine Bodhi in sanscrito o pali. La tradizione racconta che la stella del mattino Venere appariva in cielo mentre si faceva giorno e nello stesso istante, dopo tre notti di veglia ad affrontare i demoni delle tenebre, il principe Siddhartha infine trovò le risposte che cercava. È per questo che divenne Buddha, il “Risvegliato”, o “Illuminato”.

1 aprile

Lady Mary Wortley Montagu, poetessa inglese, il primo aprile 1717 scrive all’amica Sarah Chiswell questa lettera in cui descrive una pratica antica, che ogni autunno, viene ripetuta in Turchia, dove lei si trova insieme al marito, Edward Wortley Montagu nominato ambasciatore a Istanbul.

“I am going to tell you a thing that will make you wish yourself here. The small-pox, so fatal, and so general amongst us, is here entirely harmless, by the invention of engrafting, which is the term they give it. There is a set of old women, who make it their business to perform the operation, every autumn, in the month of September, when the great heat is abated. People send to one another to know if any of their family has a mind to have the small-pox; they make parties for this purpose, and when they are met (commonly fifteen or sixteen together) the old woman comes with a nut-shell full of the matter of the best sort of small-pox, and asks what vein you please to have opened. She immediately rips open that you offer to her, with a large needle (which gives you no more pain than a common scratch) and puts into the vein as much matter as can lie upon the head of her needle, and after that, binds up the little wound with a hollow bit of shell, and in this manner opens four or five veins…

The children or young patients play together all the rest of the day, and are in perfect health to the eighth. Then the fever begins to seize them, and they keep their beds two days, very seldom three. They have very rarely above twenty or thirty in their faces, which never mark, and in eight days time they are as well as before their illness. Where they are wounded, there remains running sores during the distemper, which I don’t doubt is a great relief to it. Every year, thousands undergo this operation, and the French Ambassador says pleasantly, that they take the small-pox here by way of diversion, as they take the waters in other countries. There is no example of any one that has died in it, and you may believe I am well satisfied of the safety of this experiment, since I intend to try it on my dear little son.”

28 settembre

A lasciare una traccia è l’ombra sempre più leggera dell’inchiostro sulla carta, di cui rimane impresso il ricordo su un grande libro degli ospiti, oggi chiuso in una teca di vetro all’ingresso. Lo scrittore Alexandre Dumas il 28 settembre 1832 visita la miniera di sale di Bex, in Svizzera.

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Alexandre Dumas padre (1802-1870) fotografato da Nadar

Del suo viaggio in Svizzera Alexandre Dumas scrisse in un taccuino che divenne libro nel 1851, «Impressions de voyage en Suisse». Dieci anni prima di scrivere «Les Trois Mousquetaires» e «Le Comte de Monte-Christo», è estate e in Francia imperversa un’epidemia di colera. Il giovane scrittore fugge dalla città, da Prigi, per perdersi nel verde dei paesaggi svizzeri. I suoi carnets de route, un’espressione bellissima che in francese significa “quaderni della strada”, registrano i chilometri, passo dopo passo, da Ginevra alle foreste del cantone vallese, i vigneti a terrazza di Lavaux, oggi patrimonio Unesco, castelli come Chillon e una tempesta di neve in pieno agosto sul ghiacciaio del Gran San Bernardo… anche se a dire il vero i registri dell’hospice du Grand Saint Bernard il 26 agosto 1832 indicavano che il tempo fu «clemente».