Ti porto in un posto segreto

Vieni, seguimi. Mi hai detto così tu stamattina. Intanto pioveva e tu sei uscito di casa con il tuo ombrellino trasparente e gli stivaletti di gomma di Spiderman. Mi sono anche arrabbiata un po’ perché ci metti sempre così tanto a uscire di casa e prepararti.

Ti sei lanciato giù per la discesa e ci siamo fermati in posta, io a passare all’impiegata le cose da pagare, tu a chiedere tutto, che cosa serve questo, che cos’è quello.

Quando abbiamo finito era quasi mezzogiorno e allora ci siamo detti: che facciamo? Andiamo per di qui, vieni, mi hai urlato tu partendo di corsa. Mi hai portato di fronte a una scaletta di pietra che non andava da nessuna parte, o ovunque. Poi siamo trotterellati via e abbiamo continuato ad andare, vagabondando qui e là, senza meta apparente.

Non importa quanto lontano o vicino andiamo, per mano a un bambino. Non importa quanto ci mettiamo. Anzi, per fare un lungo viaggio è importante che i passi siano piccoli e ravvicinati, per andare lontano anche quando siamo vicino.

Adesso facciamo che tu dici “o ma dove siamo capitati, mi sa che ci siamo persi”, mi hai suggerito tu. E allora è successo che abbiamo guardato il mondo con occhi nuovi.

Guarda, mi hai detto tu, in piedi davanti alle montagne, da qui si vede tutto.

Poi siamo tornati,

senza mai tornare,

andando a piccoli passi,

osservando i cinodromi rossi della rosa canina,

giocando a rincorrerci a nascondino fra un muro e l’altro,

sempre avanti,

di corsa

fino a casa.




I bambini sono distratti

Volevo scrivere “maldestri”. Invece ho scritto “distratti” e forse è proprio così: i bambini sono maldestri perché sono distratti. Hanno la testa fra le nuvole, in un mondo tutto loro, perché sono così immersi, a tentare di capire questo mondo, che il senso sfugge ogni momento come un uccelletto che svolazza qui e là.

I bambini sono viaggiatori stranieri che tentano di barcamenarsi ogni istante in questo universo ancora tutto da scoprire e capire. Forse è per questo che sembrano distratti e i loro movimenti goffi, perennemente imprecisi: i sensi si sovrappongono e l’azione diventa maldestra.

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La parola distractus secondo il dizionario viene da distràhere… “separare”! “Tirare qua e là, disgiungere”, aggiunge il dizionario. Si usa anche in chirurgia per parlare dei legamenti, ma soprattutto il termine ci fa pensare alle mille mila deviazioni mentali: lo sviamento della mente che prende la tangente, così all’improvviso… e ci ritroviamo da un’altra parte. Ecco, distrazione è anche “svago”, capacità di spostare la mente dalla preoccupazione verso qualcosa di più divertente e leggero.

Ma quando siamo separati non possiamo essere nel qui e ora, forse è per questo che ci sfugge la realtà; ci cade tutto intorno come pezzi di un mondo in cui restiamo per un attimo indietro, solo per un attimo.

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Stasera ti sei addormentato presto, poi ti sei risvegliato che non era ancora ancora notte e con passo incerto hai deciso di scendere qualche gradino. Latte, biscotti, il fuoco della stufa, qualche chiacchiera. Hai rovesciato il latte. No, non mi sono arrabbiata: ho borbottato sì. Poi siamo risaliti, a leggere parole mentre il sonno tornava piano, è stata una bella giornata? ti ho chiesto come ti chiedo sempre. Sì, mi dici tu e intanto vuoi che io continui a leggere, così immagino la voce che ti culla e i sogni che prendono la forma dei personaggi e dei colori che leggiamo.

I bambini sono maldestri. Ma ci hai fatto caso? Se un adulto rovescia una tazza o rompe un bicchiere tendiamo a consolarlo e dire che non è successo niente di grave; se a rovesciare la tazza o spaccare un contenitore è un bambino sbuffiamo subito, ci arrabbiamo anche. Gli diciamo quasi sempre che non è stato attento. Sarà forse che: non prestare attenzione è da sempre peccato capitale, non solo nella nostra società ma da notti ancestrali. Abbiamo sulle spalle millenni in cui una mancanza di attenzione poteva costare la sopravvivenza, la vita in un soffio.

I bambini lo fanno apposta: sono maldestri. E sono maldestri perché sono distratti. E sono distratti perché non ci mettono impegno. E la mancanza di impegno è la peggio, la peggio di tutte: quello che ci hanno insegnato essere il principio della deriva. Forse è per questo che odiamo le distrazioni. Forse è per questo che mal soppportiamo la maldestrezza. Non possiamo concederla, né concedercela.

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Sarebbe bello farsi una risata, sì. Dei bicchieri nel momento esatto in cui si rompono, delle cose sgangherate dell’esistenza, dei piatti scivolati proprio quando stavi per riporli nel posto giusto ma avevi le mani insaponate – ti sarà capitato al meno una volta. Non ridere in generale, o ridere dopo, ma proprio in quel momento lì: nel momento “fatale”, diresti tu che ti sei lasciato affascinare da questa nuova parola l’altro giorno.

Imparare a ridere delle tazze rovesciate sarà un modo per venire a patti con i conti della vita che non tornano, le infiltrazioni, gli autobus persi e magari scoprire persino che messi tutti insieme i piccoli fallimenti sono l’avventura. Insieme scrivono l’avventurosa storia di questo viaggio sulla Terra, un posto nonostante tutto misterioso a qualsiasi età, disegnato e logorato dalla gravità, incomprensibile e in eterno movimento.

Volevo scrivere un appunto sulla maldestria e mentre lo faccio mi ricordo che se c’è una cosa che possiamo fare è allenare la pazienza. Allenare la pazienza non per sopportare, no. Al contrario. La pazienza, ne basta un chicco, è il fattore dis/trazione che forse ci permetterà di spostare l’attenzione dal bicchiere rovesciato a qualcosa di infinitamente più grande: basta fare un passo indietro e allargare lo sguardo alla scena intera. Siamo noi, siamo qui, siamo insieme.

La dis/avventura è “dis” solo per un accidente, se lo togli resta tutta la magia dell’esserci e vivere il momento. Un momento unico, come lo è ogni istante che viviamo, perché la vita no, non torna mai indietro e quando avremo novant’anni e rideremo fottendocene di tutto, ci ricorderemo soprattutto questo: quei punti sfuggenti che non si infilavano subito nell’ordito della trama. All’improvviso ci sembreranno bellissimi, come lo sono le disavventure ricordate dopo anni: le macchine che si sono fermate chissà dove, le feste andate male, gli autostop e quella volta lì… te la ricordi tu. Te lo ricordi, quante risate.

Non rimandiamole le risate. L’unica cosa che conta.

Io so camminare guardando all’indietro, mi hai detto tu.

Ma la vita no, amore mio. La vita va solo avanti.

È vero, mi dici tu. Il tempo non torna mai indietro. Ogni giorno è nuovo e non si può tornare a ieri




3 gennaio

Un piccolo ombrello e un bambino, un mantello da drago sottobraccio.

Una strada, una piccola strada a dire il vero ma non è questo l’importante. È la prima strada da solo, a chiamare una piccola amica.

E arriverà lui, emozionato e velocissimo, a suonare il campanello, mentre la casa lo guarda dall’alto.

La stessa casa dove io andavo a chiamare il papà di quella piccola amica, una casa che ci ha visto passare le estati d’infanzia fra le sue pareti.

Dopo quasi quarant’anni la storia si ripete, di nuovo un bambino e una bambina, a giocare e ridere in una stanza.

La storia, mai uguale. Nella casa dove viveva un bambino ora c’è sua figlia. E la bambina che andava a salutarlo ora ha un figlio.

La danza del Tempo, che sta a guardare come un merlo d’inverno su un tetto nel vento e se la ride




Stare insieme

Oggi è stata una di quelle giornate iniziate dolci fra calzettoni caldi, gatti appoggiati ai piedi e sorrisi timidi che poi, piano piano, col passare delle ore si sono tramutati in urla incessanti, un po’ da tutte le parti. Papà urla quando è arrabbiato, mi hai detto una volta, io urlo perché sono felice: è vero, i bambini ama urlare – per quasi tutto – ma soprattutto per la felicità. Solo che, cerco di spiegarti io, se tutti urliamo finiamo per darci fastidio a vicenda e arrabbiarci. Anche perché ci sono gli urli belli e quelli sgradevoli, c’è la musica e c’è il rumore – anche se a dire il vero sulla divisione fra le due categorie il Novecento ci ha insegnato che spesso i confini possono diventare linee instabili.

Oggi ci sono stati i cartoni animati, il caffelatte tardi da sorseggiare con i piedi appoggiati sul divanetto rosso, la neve e tu che esci come un forsennato per poi rientrare dopo un attimo; io che lavo il pavimento della cucina e tu che dici a papà “Non entrare in cucina perché il pavimento è bagnato” e poi dopo un po’ chiedi se adesso puoi entrare. Ci sono stati i giochi – anche quelli sparsi sul tappeto e ovunque, anche quelli che non hai voluto raccogliere perché? perché no e ti impunti – i noodles che proprio ami e mangeresti sempre – l’unico modo in cui al momento mangi le verdure e le carote – le coccole alla canina che appena sveglia passa a salutarti e ti scondinzola mentre tu le passi dolcemente la mano fra i riccioli – incredibile. Ci sono state le costolette in tre modi diversi che tu hai voluto assaggiare tutte (decretando la vincita di quelle al curry), il caos in sala perché ci è preso il pallino di spostare i mobili e rovesciare tutto l’assetto: va bene, puoi far cadere tutta la pila di cuscini – e dopo questo hai urlato che era il più bel Natale di sempre. Ci sono stati anche le litigate, gli inseguimenti, gli urlacci; i no, sempre e comunque: sempre no no no. Ecco, a proposito, se c’è una cosa che vorrei per il nuovo anno è qualche sì. I no sono utili per affermare il propro carattere: sentirsi dire anche “sì” deve essere una sensazione meravigliosa.

Ci sono i piedi neri nerissimi, la canina che abbaia a tutti e a qualsiasi cosa; il bagno, finalmente il bagno. Che ogni volta fai mille scene e, di nuovo, no, invece poi lo ami e non vuoi più uscire; cerchi tutti gli animaletti, ti diversi a parlare con delfini immaginari, ti immergi e risciacqui, usi ogni tipo di barattolo per creare misteriose pozioni e – ancora – riesci a stare sott’acqua, tutto intero, nell’onda tipieda e calda: ti addormenterai, stasera, con la pelle così liscia e profumata. Intanto urli – ancora – perché vuoi uscire dalla vasca e mentre lo fai raccogli tutti e tiri forte il tappo, io ti avvolgo e tu vuoi essere preso in braccio, fino al letto. Scegli i pantaloni – morbidi – e una felpa – pazienza se non c’è il cappuccio, un po’ di phon e poi giù per le scale ad abbracciare papà: “Guarda come sono carino”, gli dici prima di entrare in cucina. E gli butti le braccia al collo e lo stringi forte, come non fosse mai successo niente di tutti quei litigi lì, che sembravano “fatali” – proprio oggi, a proposito, mi hai chiesto cosa significa questa parola, fatale.

Ecco, fra tutti, per ricucire insieme il tempo, salvo questo: questo abbraccio forte, con gli occhi chiusi e il cuore che batte, senza pensieri né parole. Perché c’è bisogno di ricucire insieme le giornate, pezzo per pezzo, e poi piano piano forse anche la vita intera. Per non perderla, non perderci. Per ri/trovare la bellezza di ogni attimo, sempre così, piano piano. A volte anche con fatica. Con un pizzico di fantasia che non dovrebbe mancare mai.

Oggi mentre facevamo ordine e caos, hai trovato due candeline. Sono le mie, il 4 di quest’anno e il 3 dell’anno scorso – incredibile, ti sei anche ricordato i numeri connessi a te – invece no, chissà di chi, mie no che io di feste per me non ne faccio mai, sarà che i bambini nati come me d’estate di solito hanno sempre modi estrosi e piuttosto solitari di festeggiarsi: accendiamole per mamma, dici tu. Che torta vuoi? Che torta vuoi, mi ripeti. Adesso vai di là e non venire fino a quando non ti chiamiamo noi.

C’è buio in cucina e nell’ombra brillano le candeline. Aspetta, dico io. Pensiamo a un desiderio, dobbiamo pensare a un desiderio mentre spegniamo le candeline. E poi via, soffiamo tutti insieme. A che cosa hai pensato, ti chiedo io e tu mi rispondi, te lo dico dopo. Papà: vorrei passare un bel Capodanno domani tutti insieme. Io: vorrei che fossimo tutti un po’ più gentili, uno verso l’altro. T: vorrei che fossimo insieme per sempre.

Insieme per sempre, è il desiderio di ognuno di noi, un desiderio bambino, totale, vero, senza filtri. Un desiderio per la vita. Non è sempre insieme, bensì insieme per sempre… che è di più, molto di più: è saper andare oltre, imparare a cavalcare il tempo. Perché l’amore non finisce. Perché potrebbe essere che non saremo sempre insieme, eppure ovunque saremo il pensiero di tutto questo amore ci raggiungerà e travolgerà: questo è l’effetto e l’abbraccio di qualcuno che conta, che sia famiglia per dna o per elezione dell’anima.

Da piccoli sappiamo pensare l’infinito e poi ci mettiamo tutta la vita per ricordarci come si fa.

Sai qual è il desiderio più bello? Ti ho detto io: il tuo. Perché desiderare di stare con ami, persino quando si è arrabbiati, desiderare di stare insieme e basta, ecco è amore, senza condizioni, senza se e senza ma.

Non importa quanto possiamo litigare o sentirci lontani, l’amore sa andare al di là. Riparto da questo e ne faccio un bottone con cui ricucire ogni istante e allora mentre tu dormi e io pettino capelli indomiti, forse provo a sciogliere anche i nodi dell’esistenza, metto a posto i pensieri. E allora sorrido ritrovando una macchinina sul bordo del lavandino proprio dove non ha nessuna ragione di stare, sorrido all’albero di Natale acceso da un anno; sorrido al silenzio che ora c’è e al caos che ritornerà, alla pace e alle tempeste, ai momenti si e a quelli no; alle luci accese nella notte, ai piatti da asciugare, ai gatti che mi fissano dalla finestra perché vogliono rientrare, alle braci e alla legna che brucia, alle persone che sono andate lontane, a volte così tanto che sembrano essersi smaterializzate nello spazio ma forse sono semplicemente ancora qui, invisibili e vere come i fili dell’amore che cuciamo cercando di tenere tutto insieme con i nostri pensieri, le azioni, la pazienza a volte traballate, i sogni grandi e gli abbracci ancora di più.

Oggi è l’ultimo giorno dell’anno – che poi a dire il vero ultimo giorno non lo sarebbe perché cadrà domani, ma domani è una notte dicembre speciale, forse la più speciale di un anno intero, dove già del nuovo accade, e allora è questo che mi sono vissuta come ultimo giorno dell’anno, una giornata in cui masticare il tempo piano e salutare questo ’24 che se ne va.




Antenate e antenati

Immagino il nome di una mia bisnonna, lo stesso che porto io per caso; immagino mio nonno che chiama sua nipote e intanto pronuncia sua madre.

Immagina i genitori dei bisnonni. I loto nomi si sono persi nella storia.

Sei la ragazza che ha ereditato i figli di un’altra, sei quella che è volata via con l’uragano. Sei il ragazzo partito per il fronte, sei quello che non è tornato, di te resta una fotografia e nessuno conosce più i tuoi sogni. Siamo nati e morti in cento modi diversi, cento anni fa.




Non ti voglio

Di come affrontare la rabbia ed esercizi per dirsi le cose: per imparare ad arrabbiarsi, abbracciarsi, ritrovarsi

Non ti voglio

Lo dici così, con la faccia rossa paonazza che non vedo,
sdraiato su un fianco su quel letto dove ogni tanto vai a giocare,
mentre piangi forte e ti disperi:

non ti voglio

mancano pochi giorni a Natale e tu hai quattro anni, anzi quattro anni e un po’ di più.
Forse è così che si ferma un cuore: ascoltando un non ti voglio.

Respiro.

Prima o poi doveva succedere e no, il mio cuore sta bene; non si è fermato.
Puoi dirlo, non cade il mondo, non finisce l’amore: adesso no, in questo momento non ti voglio. Ognuno di noi dovrebbe sentirsi in diritto di poterlo dire.

Sei arrabbiato con me?
Sì.
Mi dispiace. C’è qualcosa che posso fare per rimediare?
No, puoi non fare niente.
Sei arrabbiato per come mi sono comportata, perché io mi sono arrabbiata e ti ho respinto e poi sono andata via?
Per tutto, sono arrabbiato per come è andato tutto.
È vero che sono uscita, ma sono tornata subito: sono stata solo un attimo ferma sul gradino, perché avevo bisogno di respirare l’aria fredda. Anche io mi sentivo molto arrabbiata. Perché mi sono sentita assalita. Certe volte tu fai quel gioco che non è un gioco, ti avvinghi e tiri, urli, strappi e mi sembra che capiti più spesso proprio quando sto parlando un attimo con papà o magari sono al telefono, o faccio una cosa di lavoro. Ecco, mi fa molto arrabbiare perché mi sento presa d’assalto, è per questo che sono scappata via.
Ti accorgi che c’è un modo bello di giocare e uno che non fa sentire bene gli altri?

Ma io volevo fare solo il pinguino! E camminare con i miei piedi sui tuoi.

Possiamo farlo lo stesso, sai? Che cosa ne dici?
Non so se ce la faccio. Io vorrei non essere più arrabbiato, ma non ce la faccio.

Io mi avvicino a te e metto una mano sulla tua spalla.
Tu piangi e ti disperi, a volte la rabbia ha una coda lunga, fatta di lacrime e puro dolore, una cascata incessante. Tu disperi e piangi, piangi mentre ti prendo in braccio e per le scale, piangi davanti ai ravioli, ai piatti pieni e a papà che cerca di farti ridere.

E io lo so, perché lo sento anche io, che è un piccolo dolore immenso implicato nel dover prendere distanza da qualcosa o qualcuno, seppur amatissimo. Anche io prima ti ho ferito così, senza volerlo fare: per il bisogno dell’adesso no, così no.

La rabbia del dolore di fronte alla distanza di quando ci sentiamo scacciati, il dolore della rabbia di quando siamo noi a mettere distanza.

Mi hai detto “non ti voglio” stasera ed è stato un atto di grandioso coraggio ed estrema bellezza. C’è voluto un po’ perché le lacrime, piano piano si esaurissero, perché hai sentito, in quello che hai detto, il peso delle parole e dei sentimenti e hai dovuto masticarle. Hai scoperto che il mondo non crolla, l’amore resta: possiamo chiudere un attimo la porta, non preoccuparti. Diventare grandi significa (anche) imparare a prendere una distanza da chi amiamo, la distanza giusta per quel momento.

Lo dici così




Blackout

Qui blackout da oggi pomeriggio. Siamo al buio.

C’è un guasto sulla linea e allora, come succede in questi casi, i tecnici cercano, i camion portano gruppi elettrogeni. Intanto le strade si bloccano e gli spalaneve continuano a passare e spalare, sgombrare. E intanto la neve cade.

Siamo al buio e non arriva all’improvviso, la luce diminuisce a poco a poco. C’è chi accende i generatori – perché oggi le stufe e i camini moderni sono comunque collegati con l’elettricità – ma poi dopo un po’ si decide di spegnere anche quelli.

E arriva la notte.
Non si tratta di casa mia o casa tua.
Fa uno strano effetto un intero paese al buio.
Ogni casa, completamente spenta. Nessun lampione. Le strade completamente immerse nell’oscurità, anche perché è una notte senza luna e la montagna è uno di quei posti in cui ti rendi di quanta differenza faccia nella notte la luna.
Le finestre sono piccoli riquadri di velluto blu, ti avvolgono senza vedere oltre.

Ma c’è la neve. I cumuli bianchi che hanno ricoperto tutto, strade e case e tetti e giardini, ora illuminano ogni cosa. Siamo al buio ma l’oscurità è un posto dove camminare strato per strato, dal grigio calmo delle ombre al bianco. L’albero del giardino si muove sotto al peso della neve, è grigio anche lui, disegnato in bianco e nero.

In casa abbiamo una piccola lanterna usb che utilizziamo ogni sera per leggere, ora me la porto in giro e la appoggio di fianco a me. Mi viene in mente che anche i nostri nonni, e chi ha vissuto ormai tanti anni fa, si aggiravano così, con una luce da tenere in mano nella notte, magari candela o a petrolio.
Vivevamo un mondo molto più buio, un tempo.
Eppure, in questo buio imparavamo a riconoscere diverse sfumature dell’ombra e camminarci dentro, nell’ombra.

È uno strano effetto vedere un paese intero completamente avvolto nel buio. Un paese fatto di ombra e bianco neve. Camminarci dentro, fra le ombre lunghe dei rami carichi per la nevicata e il bianco che è ovunque.
Blackout. I gatti sono venuti a dormirci a fianco, le case dormono. Ovunque, il silenzio. Tutto è immobile, fuori e dentro.
Forse, nell’ombra dovremmo esercitarci a camminare più spesso, anche senza blackout.